|
Ancona,
2012
Sommario
Sempre più di frequente
nella clinica ci troviamo di fronte a segreti che contengono storie di
‘tradimenti’.
Il nostro pensiero è
coniugato troppo spesso sul registro del fare e dell’agire. La
concretezza e un atteggiamento pragmatico guidano le nostre scelte
operative con il rischio che le norme dell’agire sono collocate
‘altrove’ rispetto al bene dell’individuo. “Si deve dire la verità”
diventa una specie di norma assoluta e rigida che oltrepassa la ricerca
del ben-essere delle persone che ne sono coinvolte. La verità diventa
una ‘cosa’, una specie di idolo cui si rischia di sacrificare tutto, e
tutti.
Pur rendendosi conto che
non è un atteggiamento diffuso questo, né intuitivo, l’autore,
attraverso tre storie che vengono dalla clinica, invita a riflettere sul
compito del terapeuta: accompagnare il paziente in un viaggio che,
attraverso l’incontro con se stesso, lo porti a scoprire la differenza
tra l’esattezza
dei fatti e la verità del cuore. Perché sappia trovare la
forza necessaria per rispettare il “suo” segreto, e attivare un sano
processo di contenimento, che diventa perdono – strada maestra verso la
pace interiore. E per non mettere sulle spalle dell’altro ciò che non
gli appartiene.
Premessa
I. Il
segreto e la colpa. Storie a confronto
Laura e Luciano, il peso della colpa
Therapèuo, mi prendo cura (di me)
Carla, un carico che non le appartiene
Maria e la sua famiglia
II.
L’ascolto della verità
La verità e il tempo
Il contesto della trasformazione
La verità senza pietas
III.
Dalla colpa al perdono
Il peso della colpa…
… e la via del perdono
Per
concludere: L’esattezza dei fatti e la verità del cuore
Bibliografia
Premessa
Molte volte la clinica (e la
vita!) ci fa incontrare storie di tradimenti, episodi di
infedeltà. Incontri virtuali, fantasie o realtà che si mescolano e
si confondono. Sesso senza amore, amori o innamoramenti platonici. Sms e
chat sui quali costruire nuovi castelli, abitati da meravigliosi
principi o principesse. Come a dire che il bisogno di evadere dal
principio di realtà che il quotidiano ci pone davanti sta costruendo
sempre nuove vie per trovare soddisfazione. La tecnologia sembra aver
potenziato gli spazi di fuga e di libertà. Salvo poi a ritrovarsi, nella
maggior parte delle volte, con il vuoto nell’anima e con il peso della
colpa.
Storie. Storie di coppie e storie di
famiglie. Storie di uomini e di donne in dialogo, tra loro, e con la
vita. Tra silenzi e parole, nell’eterno viaggio, mano nella mano, con
madonna libertà,
carica del suo fascino e della sua seducente ebbrezza. Libertà. Che è
capacità di scegliere e possibilità di sbagliare, capacità di
riconoscere il proprio errore e possibilità di correggersi. Capacità di
incontrare la luce che ci guida nel cammino della vita, ma anche
possibilità di perdersi nell’oscurità e nel disorientamento. E quando
incontriamo l’errore, che farne? E della colpa, poi? La psicologia ci
parla di sensi di colpa, le religioni di peccato, le leggi di reato.
Quali strategie per sopravvivere?
Credo che dobbiamo fare
innanzitutto una distinzione.
Se il nuovo incontro
s’inserisce in un ‘nuovo’ progetto di vita e ci fa cogliere che il
vecchio progetto, quello costruito in precedenza, è esaurito ed ha
finito il suo percorso, chiarezza e onestà di donne e uomini liberi
chiedono che si parli apertamente di ciò che sta succedendo, perché
insieme si possa trovare una strada percorribile per salutarsi. Perché
quanto si è costruito e condiviso negli anni possa ricevere
riconoscimento e rispetto da parte di ciascuno. Strada non facile, al
punto da dover ricorrere, tante volte, a un aiuto professionale (terapia
di coppia, mediazione familiare, per es.). Ma obiettivo da ricercare,
perché il dolore di una separazione non sia paralizzante rispetto al
passaggio che la vita ci sta proponendo.
Il problema che ci poniamo
qui, invece, è che fare di una storia finita, più o meno
consumata dal tempo, e come gestirla nel momento in cui sentiamo che il
nostro desiderio è quello di ritrovare e consolidare il progetto
originario. Quando cioè ci rendiamo conto che quanto abbiamo vissuto
è stato solo un ‘momento’ di disorientamento, breve o lungo,
superficiale o intenso, ma comunque disorientamento. Da superare. È
guardando a queste situazioni che vogliamo chiederci cosa fare di una
storia che ancora fa sentire tutto il peso ad una psiche stanca e
disorientata. Tanti sono i pensieri che affollano la mente e tante le
domande.
La proposta, in queste
pagine, è di ascoltare questi pensieri, e le domande che li
accompagnano, e provare a fornire loro dei punti di riferimento
attraverso i quali orientarsi. E ci chiediamo del ruolo che lo
psicoterapeuta dovrebbe assumere – dal mio punto di vista, naturalmente!
– quando gli viene richiesto un aiuto professionale, per provare a
dipanare certe matasse ingarbugliate.
“Dire la verità, tutta la verità,
nient’altro che la verità” significa forse raccontare all’altro tutto
quanto è successo? Con quale scopo, però? Onestà vorrebbe che io ne
parlassi con il mio partner. In fondo l’ho tradito, ho condiviso tempi e
pensieri (e sesso?) con un'altra persona. Ho percorso strade che non ci
appartenevano. Ma non rischio, così, di mettere sulle sue spalle
qualcosa che non gli appartiene, con il solo scopo – non dichiarato – di
alleggerire il peso per ciò che ho fatto e che grava ancora sulla mia
anima?
Per chiedergli il perdono, forse. Ma il perdono per cosa? Perdono per
quello che gli ho fatto. Ma come può perdonare, l’altro, qualcosa
che non conosce, non nel senso che non sa, ma nel senso che non lo
conosce in tutto il suo significato? Perché l’altro gli attribuirà il
significato che vede dal ‘suo’ punto di osservazione. Non sarà mai il
significato che io vedo, che vedevo allora, quando vi ero dentro. Ora
anche per me il significato di quanto è successo sta cambiando o è già
totalmente cambiato. E la verità dei fatti (= l’esattezza dei
fatti) fino a che punto corrisponde alla verità del cuore?
Mi rendo conto che è un
discorso difficile quello che mi accingo a fare, perché rischia di
apparire contraddittorio rispetto a valori culturalmente condivisi, dato
che l’etica della fedeltà, in una relazione di coppia, si pone come
spartiacque tra il bene e il male, tra onestà e disonestà.
Il nostro pensiero però, a
mio parere, è coniugato troppo spesso sul registro del fare e
dell’agire. La concretezza e un atteggiamento pragmatico guidano le
nostre scelte operative con il rischio che le norme dell’agire sono
collocate ‘altrove’ rispetto al bene dell’individuo. “Si deve dire la
verità” diventa una specie di norma assoluta e rigida che oltrepassa la
ricerca del ben-essere delle persone che ne sono coinvolte. La verità
diventa una ‘cosa’, una specie di idolo cui si rischia di sacrificare
tutto, e tutti.
Incontreremo tre storie. La
prima ci parla di Laura e Luciano, lei racconta al marito di un
incontro avuto tramite una chat. La seconda ci fa incontrare Carla e
Danilo: questa volta è lui che le racconta di una sua storia
parallela, ormai chiusa. Incontreremo poi lo sconquasso di Maria,
(e della sua famiglia) che si è vista ‘costretta’ a dis-velare un
segreto conservato gelosamente per oltre venticinque anni.
I. Il segreto e la colpa:
storie a confronto
Nascondere
a chi s’ama
il giusto, è brutto.
(Euripide, Le supplici)
Laura e Luciano: il peso della colpa
Laura ha ventotto anni,
Luciano trentacinque. Sposati da sette, il loro rapporto è da un po’ che
sta languendo in una sorta di rimpianto su “quanto era bello
all’inizio”. Ora sono stanchi, lui è preso dai suoi hobby e tutto il suo
mondo sono la sua casa e i suoi animali, un cane e due cavalli. Sua
moglie dovrebbe vivere come lui: al lavoro durante la giornata, poi la
sera in pace, in casa, senza tanti ‘grilli per la testa’ (come fare una
cena con amici, uscire per andare al cinema, o al mare, e cose di questo
genere).
Due anni fa in questa coppia
entra un uomo che Laura conosce in una chat: dopo un po’ iniziano a
sentirsi anche per telefono, finché un giorno decidono di incontrarsi.
Ma lei non si sente tranquilla, e il loro incontro, unico incontro, non
avrà alcun seguito. Il tutto finisce con una specie di contatto sessuale
veloce e senza nessuna partecipazione o un minimo di passione o di
piacere da parte sua. Ciò che ne ricava è solo un pesante senso di
colpa, con se stessa e nei confronti di suo marito. Il senso di colpa,
però, non si attenua neanche un po’, nonostante che questa storia venga
immediatamente chiusa e che con il suo interlocutore non ci sia più
nessun contatto. Lei non sa perdonarsi una cosa del genere e l’unica
strada che riesce a intravedere per alleggerire tanto peso è di
parlarne con il marito e raccontargli ‘la verità’.
Da quel giorno la loro vita
diventa un inferno. Decidono così di venire in terapia.
Lei non sa spiegarsi perché
ha fatto “quella cosa”; suo marito non sa capire che cosa possa aver
significato per la sua compagna un gesto di quel genere. Per lui è alto
tradimento. Ora i suoi pensieri sono “Ma mi avrà detto tutto? Cos’è che
non mi ha raccontato? Cosa mi tiene ancora nascosto?”. Poi “Come faccio
a fidarmi di una donna che è stata capace di una cosa del genere?”. E
ogni volta che Laura è un po’ più seria, il suo pensiero è “A chi pensa
adesso? Si saranno risentiti e non me lo vuol dire?”; e ogni volta che
Laura è meno seria e un po’ più sorridente, il suo pensiero diventa “Ma
allora l’ha rivisto? Se è tanto contenta!”. Quando poi vanno letto e lui
desidera far l’amore e lei non se la sente “Se non vuol far l’amore con
me, allora vuol dire che l’ha fatto con lui o, sicuramente, che sta
pensando a lui”; se poi, invece, Laura ci sta “Lo vorrà fare per stare
davvero con me o per farsi perdonare per quello che mi ha
fatto?”. Se poi una sera è Laura a prendere l’iniziativa, allora “Perché
vuol far l’amore con me? Così pensa che la lascerò in pace con lui…”.
Quando poi, una volta attraversati tutti questi pensieri, si ritrovano
uno nelle braccia dell’altra, ecco riapparire il fantasma, quasi uno
spettro da un altro mondo, che si frappone di nuovo e lo blocca “Sta
abbracciando me o lui?”; di certo Laura sente che Luciano si blocca e
quale può essere la sua reazione se non di irrigidirsi a sua volta? Ma
quale migliore conferma, allora, che “Era proprio vero che stava
pensando a lui…”?
Il telefono! Se suona il
telefono a casa “Chi sarà? Chi era? Che voleva?”. Lei glielo dice. “Ma
sarà vero?”. E se dall’altra parte non risponde nessuno, cade la linea,
o hanno sbagliato numero… Il telefonino! Questa diavoleria della tecnica
che permette di essere rintracciati sempre e dovunque… sì, sempre e
dovunque, perché se il telefonino è spento o non è raggiungibile “Allora
sta con lui!? Allora non è vero che è finito tutto!?”.
“Tu mi devi raccontare
tutto, per filo e per segno. Solo quando mi avrai detto tutto quello che
è successo fra voi, io potrò stare tranquillo”. Poi, però, invitato a
riflettere su queste parole, si rende conto che nessuno mai lo
potrà rassicurare che sua moglie gli ha detto proprio tutto: lei
gliel’ha detto, gliel’ha giurato. Piangendo, gridando, con un fil di
voce, di giorno, di notte, per strada, durante la cena, a letto, il
mattino appena alzati, di notte quando, ancora svegli, Luciano le chiede
“ma mi devi raccontare tutto”. Ma non basta. Non c’è più pace nel cuore
di Luciano. E non c’è ancora pace nel cuore di Laura: lei pensava che
dirlo a suo marito le avrebbe fatto trovare la soluzione – o, che
poi è la stessa cosa – l’assoluzione ai suoi sensi di colpa. Lei
pensava, sperava che suo marito l’avrebbe aiutata a dimenticare. Lei non
lo sa, ma in realtà ciò che sperava era che Luciano l’avrebbe potuta
‘perdonare’.
Ma Laura non sapeva due
cose. La prima: che suo marito non avrebbe mai saputo perdonare
qualcosa di cui non poteva cogliere il significato vero e profondo che
solo lei poteva sapere (ciò che significa una cosa per chi la fa e la
vive). La seconda: che solo il suo (di lei) perdono può sciogliere la
sua colpa e liberarla dal ‘male’ che sente di aver fatto. Lei, cioè, ha
bisogno di ritrovare dentro di sé la voce del perdono, la voce che le
dice “Ti perdono, Laura”. Che significa: “Hai ancora il diritto di
vivere la tua vita”.
Perché ora lei non ha più
alcun diritto. I suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi desideri, tutto
deve essere annullato. “Con quello che ho fatto” dice continuamente…
Come può chiedere a suo marito di accorgersi di lei, di guardare a lei
prima di guardare ai suoi cavalli? Come può dirgli che ha bisogno che
lui si apra anche ad altre relazioni sociali, perché lei non ce la fa
più a vivere come una reclusa? “Con quello che gli ho fatto!”.
Che cosa gli ha fatto?
Qual è il male che gli ha fatto? L’aver chattato con questo signore o
averci parlato al telefono o perfino averlo incontrato? No. Lei pensa –
meglio, loro pensano – che sia questa la colpa di Laura e sia questo il
torto che ha fatto a suo marito. Ma non è questo il male che ha fatto a
suo marito: questo può essere il male che ha fatto a se stessa
(ponendosi in una situazione di confusione e di ambiguità). Il male che
ha fatto al marito è di avergli messo sulle spalle un peso che non
era suo (di lui), ma che apparteneva solo a lei. Nel momento in cui
gliene ha parlato, lei ha messo sulle spalle di lui il peso del proprio
gesto, della propria storia virtuale. Nessuno ha il diritto di
appesantire la vita di un altro mettendogli sulle spalle qualcosa che
non gli appartiene.
Attenzione. Non sto dicendo
che l’aver incontrato un altro uomo sia una cosa ‘buona’, o eticamente
corretta, per lei e per la coppia. Un terzo, in una relazione di coppia,
è sempre qualcosa di dirompente. Lo diventa perfino un bambino, quando
nasce, eppure è già parte di un progetto che la coppia aveva comunque
messo in campo: nonostante questo, però, i due coniugi si vedono nella
necessità di ritrovare un nuovo equilibrio, un equilibrio a tre
(Cardinali, Guidi 1992). L’ingresso di un terzo non progettato, non
previsto, è davvero dirompente. La clinica – la vita prima ancora – ci
insegna che trovarsi in una relazione a tre significa trovarsi come tra
due fuochi. È assolutamente necessario, per l’equilibrio di una persona,
collocare l’uno e l’altro (l’una e l’altra) in un luogo sicuro. Ma un
luogo sicuro è prima di tutto un luogo ‘chiaro’.
Therapèuo – Mi prendo cura (di
me)
L’aprire la domanda “cosa
rappresenta l’altro/a per me” e cercare una risposta diventa necessità
impellente, per non perdermi. Perché perdermi nella con-fusione dei
sentimenti e dei progetti significa non sapere quale strada sto
percorrendo, con il rischio di non riuscire a ritrovarmi, nella vita. E
non c’è ‘navigatore’ capace di ridarmi le coordinate. Solo accettare la
domanda “cosa rappresenta lui/lei per me”, e tenerla aperta nella
ricerca di una risposta, mi permette di vivere.
Ma questo lavoro, in realtà,
non posso farlo che da solo. Con me stesso. È il mio navigatore che ha
bisogno di essere ri-sintonizzato per ritrovare la strada che voglio
percorrere e arrivare al punto che mi prefiggo (= il progetto).
In questo contesto l’aiuto
professionale diventa il luogo privilegiato per ascoltare la domanda
e cercare di costruire la risposta. Il terapeuta diventa come un
satellite che permette di ri-sintonizzare il navigatore. Sarò io, poi, a
scegliere su quale strada voglio incamminarmi, quale meta mi prefiggo di
raggiungere. Non è il satellite che mi dice dove andare: da lui posso
essere aiutato a vedere ‘dove sono’. A fare il punto. A ri-vedere il
progetto. Solo allora potrò valutare, riflettere, ascoltare, vedere dove
sono e dove voglio andare.
È legittimo chiedere tutto
questo al proprio partner? Non c’è il rischio che gli (le) chiedo di
essere contemporaneamente il mio compagno di strada e mio genitore? Fino
a che punto posso pretendere che comprenda il mio sbandamento, il mio
disorientamento? Lui (lei) è parte in causa, il terzo che è entrato (ho
– abbiamo? – fatto entrare) nella nostra vita, passando attraverso me,
non può avere lo stesso significato per me e per lui (lei). Riprenderemo
questo punto. Ora un’altra storia.
Carla, un carico che non le
appartiene
“Non me lo doveva dire! Non
me lo doveva dire! Perché me l’ha detto? Non poteva tenerselo per sé?
Che senso aveva venirmelo a raccontare? Adesso!”. Così, gridando e con
il respiro appesantito dal pianto, inizia la sua seduta.
Quattro mesi dopo Carla e
Danilo compariranno davanti al giudice. Lei ha deciso per la
separazione, Danilo non avrebbe voluto.
Cos’era successo?
Un anno fa Danilo torna a
casa. È uno dei suoi ritorni periodici. Questa volta, però, è più stanco
del solito. Non ce la fa più ad andare avanti così, è triste,
sconsolato, privo di stimoli per vivere. Eppure è un uomo di successo:
lavora nel mondo accademico e non gli mancano certo riconoscimenti. Il
lavoro lo porta a vivere fuori casa gran parte del tempo: la sua
famiglia, la moglie e un figlio ventenne, vive in una cittadina di
provincia mentre lui risiede quasi stabilmente nella grande città.
Adesso è triste, chiuso, non mangia e dorme a fatica. In una categoria
diagnostica lo diremmo ‘depresso’. Ma depresso perché? Carla pensa che
sia uno dei suoi periodi bui. Gli capitava anche in passato, è una
caratteristica che l’ha accompagnato fin dalla giovinezza. Passa qualche
giorno, ma le cose non cambiano. Danilo è sempre più triste e chiuso.
Finché un giorno chiede a Carla di poter parlare. Sono soli in casa e
Danilo le apre il suo cuore.
Due anni fa ha avuto una
storia con una donna molto più giovane di lui: lui cinquantenne, lei
poco più di venti. Una storia durata oltre un anno. In segreto. Nella
grande città. Ora Natascia l’ha lasciato. E lui decide di parlarne con
Carla nella speranza di trovare in lei un aiuto, un sostegno in un
momento per lui tanto difficile.
Il mondo di Carla crolla.
Quest’uomo, suo marito, che lei conosce da trent’anni, è stato capace di
vivere una storia parallela. La loro relazione non era mai stata così
lineare e tranquilla in tutti questi anni, ma ora una storia così non se
l’aspettava proprio. Lei è offesa, offesa per il tradimento, ma ancora
di più, lei dice, “perché è venuto a piangere da me, a gettarmi addosso
la sua depressione perché la sua amante l’ha lasciato. Ha voluto vivere
questa storia? Ora si tenga la sua depressione! Non sono mica sua
madre…”. Inconcepibile per lei. Tanto inconcepibile che decide di
lasciarlo. Poi ci ripensa, vuole sapere. Ma sapere non basta. Allora
cerca. Internet, chat, mail… tutto serve. Come una ‘dipendenza’ che le
aggredisce l’anima. Scopre la password, entra nella sua posta, legge,
rilegge. Un’ossessione. Una dipendenza.
“Ma non ha deciso di
separarsi?”, “Sì, ma non me lo doveva fare! Con una di vent’anni poi. Mi
ha offesa, mi ha messo davanti la mia vecchiaia, i miei cinquant’anni. È
vero, non è mai stata una grande passione la nostra, ma io mi vedevo già
con lui, una volta in pensione. Abbiamo comprato una bella casa, grande,
due anni fa. Magari stava già con lei… Come ha potuto? Sarebbe stata la
casa dove ritrovarci, farci compagnia. Ora ha mandato tutto a puttane…”
I pensieri del terapeuta
Carla ha ragione. Danilo
avrebbe dovuto tenere per sé quello che era successo e aprire con se
stesso il libro dei conti. Danilo è in analisi da qualche anno, ma
il suo terapeuta non è stato in grado di tutelarlo. Lui avrebbe voluto
recuperare il rapporto con la moglie. Ma non poteva essere questa la
strada: quella di andare a piangere da lei e raccontarle tutta la
storia. Non poteva chiederle di accoglierlo come il ‘figlio prodigo’.
Il figlio prodigo del Vangelo è il padre
che lo accoglie. Non il fratello. Lo sapeva bene quel maestro di
psicologia ante-litteram, Gesù di Nazareth, quando ce l’ha raccontato.
Lui conosceva molto bene l’animo umano. Il padre che accoglie appartiene
a un’altra generazione: lui è il genitore e ad un genitore si può
chiedere di trovare dentro di sé la forza di perdonare a un figlio che
scappa e poi chiede di ritornare. Non è facile neanche per un padre o
una madre, certo, ma l’essere genitore tante volte ci chiede di essere
‘grandi’ o, se vogliano usare una parola poco tecnica e pure un po’
fuori moda, essere capaci di gesti e atteggiamenti ‘eroici’.
La terapia familiare ci
sottolinea continuamente la necessità di non confondere gli spazi
generazionali e di rispettarne i confini. Il pensiero strutturale di
Minuchin su questa tematica è punto di riferimento fermo e ineludibile.
Genitori e figli appartengono a due generazioni diverse, il rapporto è
impari. Un partner, come un fratello, appartiene alla stessa
generazione: il rapporto è ‘alla pari’.
La funzione del terapeuta è
funzione ‘genitoriale’. Per questo la relazione terapeutica è relazione
che cura. Perché è relazione che accoglie. Il dolore, la perdita, la
colpa, l’incapacità di dare la parola al disorientamento, tutto questo
trova un luogo di ascolto nella relazione di accoglienza che un
terapeuta sa offrire.
Certo, possiamo anche pensare
che in fondo il gesto di Danilo è stato un gesto di onestà e sincerità
verso sua moglie: va da lei e le racconta ciò che è successo dicendole
che ora tutto è finito. E le chiede di poter ritornare. Così sembra. Ma
con questo pensiero rischiamo di restare alla superficie di tutta la
storia.
La storia di Danilo
apparteneva a lui. Sua era stata la scelta di giocarsi la ‘libertà’
accettando il rischio di far incontrare la propria vita con quella di
un’altra donna. Accettando, così, il fascino di un sogno che non sarebbe
stato disgiunto dal peso della colpa. Se il suo terapeuta fosse stato in
grado di aiutarlo a trovare la ‘sua’ verità, lo avrebbe tutelato
dall’abisso della con-fusione: quella di cercare in sua moglie
una madre accogliente e comprensiva. Carla non poteva cogliere il
significato di un incontro che suo marito aveva consumato con un’altra
donna. Le sue spalle non potevano reggere un peso che non le
apparteneva. Né avrebbero potuto reggerlo in seguito. Il fantasma di
Natascia si sarebbe frapposto tra loro, tra pause di silenzio e momenti
di angoscia quando una qualunque difficoltà lo avesse fatto riemergere.
Maria e la sua famiglia
Io non
detesto i re.
Che governino pure gli uomini,
ma a patto che siano più saggi degli uomini.
(K. Gibran)

Figura 1:
genogramma
Un giorno Maria, in uno degli
incontri di gruppo cui partecipa anche il figlio Claudio, si sente dire
da Gabriele, la guida del gruppo – un uomo che lei considera un punto di
riferimento, un ‘maestro’ – che è giunto il momento di dire a suo figlio
“la verità”. Maria sa di che verità si tratta, lei ne aveva parlato con
Gabriele qualche tempo prima nel tentativo di alleggerire un peso che
abitava la sua anima. Queste parole sono per lei un’indicazione che non
lascia spazio a dubbi, anzi, le arrivano come parole di liberazione
rispetto al peso che la opprime e rivolgendosi al figlio gli rivela che
suo padre, l’uomo che insieme con lei l’ha cresciuto in tutti
questi anni, non è suo padre. Lei era rimasta incinta di lui
nell’incontro con un altro uomo.
Sconcerto, confusione,
incredulità si agitano nel cuore di questo giovane che a venticinque
anni, all’improvviso, si vede togliere dalla sua vita colui che gli ha
dato la possibilità di crescere, di sentirsi contenuto nell’affetto e
nelle attenzioni, colui che ha retto le sue ribellioni di adolescente,
che gli ha permesso con il suo lavoro di studiare all’università. In
poche parole, colui che per tutta la vita gli è stato ‘vero’ padre. I
giorni che seguono si riempiono di pensieri che invadono la mente e il
cuore e non lasciano più il tempo del respiro e il fluire della vita
sembra interrotto.
L’insistenza del figlio e la
spinta del maestro portano alla rivelazione del nome del padre
biologico. E Claudio, anch’egli guidato dal maestro, l’ha contattato,
rivelandogli di conoscere tutta la verità. Ma Luigi ha la sua famiglia
ora. Di tempo ne è passato davvero tanto. Troppo. E lui neanche sapeva.
Tre mesi fa muore Roberto, il
marito di Maria. Gli ultimi tre anni sono stati molto duri per
quest’uomo che si è visto gettare addosso tutto il peso di una storia
che non conosceva. E che non gli apparteneva. Oggi Giacomo,
l’altro figlio, non si dà pace. Lui sente di essere rimasto l’unico a
difendere il padre di questi due figli. Da tutti. Dal fratello
che, non riuscendo più a vederlo come padre, non ha potuto neanche
permettersi, in questi ultimi anni, di lasciare che il suo bambino
potesse frequentare il nonno in santa pace. Dalla madre che lui vede
‘persa’ nella storia di Claudio. “Mio padre è morto – dice – ed io sono
rimasto senza padre. E senza fratello. E mia madre? Perché ha fatto
questo? Che senso aveva?”. Non gli rimane che prendersela con il
maestro: “Ha voluto fare uno scoop. Sai come fanno questi santoni. Per
loro un gesto di questo genere movimenta tutta la folla che li segue.
Uno scoop… sulla pelle nostra”.
Tante sono le domande che
dovremmo porci di fronte a questa vicenda. Prima fra tutte, però,
dobbiamo trovare la forza per chiederci chi è il padre di Claudio.
È il padre di cui ci parla la biologia o non piuttosto colui che l’ha
cresciuto in tutti questi anni? È difficile, credo, nutrire dubbi al
proposito. Padre e figlio si diventa nella frequentazione e nella
cura reciproca e quotidiana. Non è certo l’azione di un momento che
fonda e costruisce una paternità.
Riprenderemo questo pensiero.
Andiamo avanti, ora, con le nostre riflessioni, facendoci accompagnare
in particolare dalla storia di Maria e della sua famiglia.
II. L’ascolto della verità
Gli dice
Pilato: “Che cosa è la verità?”.
Detto questo, uscì di nuovo verso i giudei.
(Vangelo di Giovanni)
La verità e il tempo
La vita degli esseri umani è
immersa nel tempo. Questo ne dà le dimensioni, i colori, i significati.
Se non consideriamo il suo progredire, rischiamo di ritrovarci in una
dimensione falsa. Succede così che quella che chiamiamo ‘verità’ può
diventare il suo contrario.
Un’esperienza elementare può
aiutarci a comprendere. Se a trent’anni guardiamo una foto di quando di
anni ne avevamo soltanto tre, certo ci riconosciamo in quella foto, ma
solo perché l’abbiamo già vista tante volte e ci hanno detto che quel
bambino siamo noi. Ma chi non sa è assai difficile che possa
riconoscerci: il tempo ha operato grandi cambiamenti e trasformazioni.
“In tutti i filosofi antichi
il tempo risulta strutturalmente connesso al movimento” (Reale 2004,
pag. 329). Verità questa che, per altra strada, ci propone anche la
fisica moderna. Un tempo statico è un pensiero inconcepibile. Il nostro
agire avviene nel tempo. È così forte questo pensiero che quando ci
troviamo a ripensare qualcosa che ci è successo o che abbiamo fatto
accadere tempo fa, poco o tanto che sia, e proviamo a valutarlo con lo
sguardo di cui siamo capaci oggi, quel fatto, quell’avvenimento assumono
un significato diverso. Per coglierne il significato autentico
ricostruiamo i luoghi, le relazioni, andiamo a ricercare nella nostra
memoria le persone che allora erano con noi, quali erano i nostri
progetti, i nostri pensieri prevalenti. Attiviamo, cioè, un processo di
contestualizzazione, nello spazio e nel tempo. Quando non
attiviamo questo processo, il rischio di attribuire a quel fatto un
significato che allora non gli apparteneva è rischio reale e pericoloso.
E il pericolo è grande e la trappola rischia di essere mortale. Per gli
affetti e per le persone che vi si trovano coinvolte.
Il contesto della
trasformazione
Due aspetti che non possiamo
dimenticare quando incontriamo episodi di vita. Il primo: la
verità di un fatto è la verità che gli appartiene quando esso accade.
Tempo e spazio – il contesto – ne definiscono la cornice e le
dimensioni. L’altro: un fatto appartiene, nella sua pienezza, a
chi lo compie. Chiunque altri ne è fuori.
Maria è rimasta incinta con
un uomo che non è suo marito. Il significato di quell’incontro
appartiene a lei (secondo aspetto), per di più, a quella Maria di
venticinque anni prima (primo aspetto). Allora lei aveva un bambino di
tre anni, con il marito era un momento difficile. Cosa stesse cercando
nell’incontro con l’altro, solo lei può dirlo con se stessa, con tutti i
limiti, poi, di una consapevolezza certo non piena. Da quell’incontro è
iniziato un processo biologico, la fecondazione di un ovulo maturo
all’interno del suo corpo.
So che suona riduttivo parlare di ‘processo
biologico’, trattandosi dell’inizio di una nuova vita. Ma se pure è vero
che un ovulo fecondato ha in sé tutte le potenzialità di una vita,
è altrettanto vero che la mente e il cuore degli esseri umani hanno
bisogno di aprirsi a questo processo biologico per farlo
diventare un processo umano. E nel caso di Maria questa
trasformazione è avvenuta. Al punto tale che ne è nato Claudio, il suo
secondo figlio.
Quest’ovulo fecondato, giorno
dopo giorno, si pone alla ricerca di qualcuno con cui dialogare. In
questa ricerca incontra Maria e accanto a lei trova l’uomo con cui lei
sta condividendo la vita: il marito Roberto. E così i due decidono di
aprire la loro casa ad una nuova vita. Aspettano un bambino, il
secondo figlio. È nella loro casa che il processo di trasformazione ha
luogo. È qui che si apre lo spazio necessario perché un processo
biologico diventi vita umana, e il bambino che nascerà potrà incontrare
una madre e un padre.
Ora a Maria si pone un
problema. Parlare con Luigi? Parlare con Roberto? Cosa dire? E a chi
dire? Una scelta deve farla. Lei vive con suo marito, la storia con
Luigi non è una grande storia e non merita che per essa si butti
all’aria la famiglia. La decisione è presa: il bambino sarà figlio suo e
di suo marito. Il segreto dell’incontro rimane nel suo cuore.
Può il cuore di una donna reggere un
segreto così grande? Più semplicemente, può il cuore di Maria reggere
questo segreto? Lei sa che questo le appartiene. È un segreto grande, ma
condividerlo significa farne emergere tutta la forza dirompente e
nessuno ne ricaverebbe una qualche utilità. Non suo marito, non il loro
primo figlio, Giacomo, che ha solo tre anni. Né questo bambino che sta
crescendo dentro di lei. I segreti pesano, ma per loro natura essi
chiedono di essere tenuti ‘separati’,
da parte, conservati in luogo ap-partato e sicuro.
Ma il segreto può chiedere
anche di voler essere condiviso. E lo fa quando fa sentire la sua voce
con una forza che ri-porta turbamento al cuore di chi lo conserva. È un
momento difficile questo, perché solo una scelta attenta e oculata della
persona su cui puoi con-fidare ti concede di con-dividere il peso che
opprime l’anima. Un terapeuta, un sacerdote, un ‘grande’ amico possono
prestare una spalla su cui appoggiarsi e con cui sostenere,
alleggerendolo, il peso troppo forte da reggere con le sole proprie
forze. Ma il terapeuta, il sacerdote, il grande amico sanno che quanto
viene loro confidato non appartiene a loro, non possono disporne
come vogliono. Nessuno di loro potrà mai condividerlo con altri. Ripeto.
Nessuno di loro potrà mai condividerlo con altri.
Sono passati più di
venticinque anni. Maria pensa in cuor suo di aver trovato una persona di
cui fidarsi. Lei frequenta un gruppo: fanno meditazione, reiki, yoga. In
questo gruppo lei vorrebbe portare anche i figli: Giacomo non ne vuol
sapere, Claudio la segue. La guida di questo gruppo diventa man mano il
suo ‘maestro’. “A lui posso confidare questo segreto che ho tenuto solo
per me in tutto questo tempo”, lei pensa. E un giorno gliene parla.
Chi le può fare una colpa? Il
bisogno di condividere è umano e non c’è nulla da ridire. Se non, forse,
un richiamo alla prudenza. Ma come fare ad essere prudenti quando il
peso che stiamo reggendo è tanto forte? Ogni volta che Maria guarda suo
figlio in lei sembra rinnovarsi il conflitto di venticinque anni fa, e
ora le pare di aver trovato un luogo in cui questo conflitto potrebbe
essere sciolto o, almeno, con-diviso.
Ma il suo maestro sa insegnare una buona
tecnica di meditazione, forse, una buona tecnica di yoga, ma sembra non
saper ‘ascoltare’ il dolore di un’anima che gli si affida. Per lui
dialogare con i sentimenti dell’anima sembra essere come insegnare una
buona tecnica per perfezionare un’asana.
E in nome della ‘verità’ fa un disastro. Lui non sa vedere che la storia
di Maria appartiene a Maria. E a Maria soltanto. Non a suo
figlio. È lei che ha incontrato Luigi in quel momento della sua vita e
ha vissuto quell’incontro per quello che allora significava per lei e
per loro due. Il tempo successivo aveva restituito a ciascuno di questi
due giovani, Maria e Luigi, la libertà di riprendersi la propria vita e
di costruirsi una storia. Nuova per Luigi. Da recuperare con il marito
per Maria. Il tempo aveva cambiato oramai i giochi e le relazioni. Il
significato di quell’incontro è ormai mutato e non possiamo non tenere
conto della trasformazione che il tempo, appunto, ha permesso e
costruito.
In nome della ‘verità’,
dicevamo. Ma quale verità? Credo che sia questa la domanda centrale che
dovremmo aprire come terapeuti (e come persone). Perché la verità di
un fatto deve essere a servizio del bene delle persone che ne sono
coinvolte e non viceversa. In altre parole, prima dovremmo prenderci
cura delle persone che si affidano a noi e del loro bene, poi, solo poi,
possiamo preoccuparci del rispetto della verità oggettiva – cosiddetta
‘oggettiva’. Perché rispetto ai ‘fatti’ meglio sarebbe usare la parola
esattezza, piuttosto che verità. Perché il concetto di
verità è molto più ampio del concetto di esattezza.
Ci dicevamo sopra come il “Si
deve dire la verità” diventa una specie di norma assoluta e rigida che
oltrepassa la ricerca del ben-essere delle persone che ne sono
coinvolte. La verità diventa una ‘cosa’, una specie di idolo cui va
sacrificato tutto – e tutti. Dev’essere stato questo pensiero, più
attento alle cose che alle persone, che ha portato il ‘maestro’ di Maria
a far sì che lei dicesse al figlio Claudio una ‘verità’ di cui lui non
solo non aveva bisogno, ma che sarebbe poi diventata per lui – e per
tutte le persone direttamente coinvolte – fonte di dolore. Insuperabile
e distruttivo. Un dolore che ha reso vano il sacrificio di venticinque
anni di conservazione di un segreto il cui significato poteva essere
colto solo rimettendo indietro l’orologio del tempo. Ma questa, lo
sappiamo bene, è un’operazione che a noi umani non è consentita.
La verità senza ‘pietas’
Sia pure dette in un contesto
diverso, mi appaiono significative le parole che scrive Nietzsche negli
ultimi tempi, prima che la sua mente cercasse riposo nella malattia: «La
verità non è qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, ma
qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo (…).
Introdurre la verità come un processus ad infinitum, un attivo
determinare, non un prendere coscienza di qualcosa che sia in sé fisso e
determinato» (Nietzsche 1887-88).
Di fronte al pianto di Giacomo, questo
giovane uomo immerso nel dolore della solitudine e assordato dal rumore
dello scoop che ha invaso la sua vita, mi tornano le parole di Céline
(1957) che, partecipando, ammirato, all’agonia del cane che aveva
riportato con sé dalle glaciali contrade della Danimarca, ammette «ciò
che danneggia l’agonia degli uomini è il tralalà; l’uomo,
malgrado tutto, è sempre su un palcoscenico, anche il più semplice».
Commenta Milan Kundera «A chi non viene in mente la macabra commedia
delle “ultime parole famose”? È così: anche in punto di morte l’uomo è
sempre su un palcoscenico. Anche ‘il più semplice’, anche il meno
esibizionista, perché non sempre è lui a porsi su un palcoscenico.
Infatti, quando non è lui a farlo, sono gli altri [che ve lo pongono]».
Nel nostro caso, una donna,
con un dolore nel cuore che aveva saputo custodire per tanto tempo,
consapevole che una volta dis-velato avrebbe, con la sua carica
dirompente, frantumato un equilibrio costruito in tanti anni di
riservatezza e di rispetto per gli affetti della sua famiglia, questa
donna, dicevo, si è vista catapultata sul palcoscenico della verità.
Ma di una verità che niente aveva di vitale, perché era solo la verità
dei fatti (= l’esattezza), ma del tutto lontana dalla verità del
cuore.
Aveva cercato una
condivisione lei, un abbraccio di comprensione per tanta fatica
sostenuta con la forza dell’animo, da sola, nel rispetto della vita. Ha
incontrato la disattenzione (o, forse, la superficialità). L’uomo che si
è avvicinato con gli abiti del maestro non è stato in grado di
accogliere e di custodire, con lei, un segreto tanto doloroso, ma anche
tanto vitale – finché fosse rimasto nel silenzio.
Avrà forse ragione Giacomo
quando i suoi occhi non riescono a vedere, nell’atteggiamento del
maestro, nient’altro che il desiderio di uno scoop? Quando vede sua
madre persa dentro un gesto che ha dovuto compiere in ossequio al
compito che le è stato assegnato “Devi dire la verità a tuo figlio”? Ma
quale verità? Una verità senza pietas è una verità s-pietata.
Una sorta di divinità sul cui altare vengono sacrificati i sentimenti
più nascosti, perché più profondi, delle persone coinvolte.
III. Dalla colpa al
perdono
Sono
estraneo a me stesso,
e quando odo la mia lingua parlare,
le mie orecchie si chiedono
di chi sia la mia voce.
(K. Gibran)
Il peso della colpa…
Certo, il peso di una colpa –
di ciò che sento come colpa – è peso duro da sostenere, a volte
impossibile farcela da soli. Ma non è togliendo il velo che la colpa si
scioglie. Anzi. Essa rischia di allargare lo spazio in cui vive, al
punto da inquinare altre aree finora conservate immuni. Le paratie che
l’anima aveva saputo costruire erano riuscite a tutelare l’equilibrio e
la pace nel cuore dei figli e del marito, perfino nel cuore dell’altro
uomo, Luigi – che neanche sapeva.
L’ingresso della voce fuori
campo, che non apparteneva al territorio vitale di Maria e che lei
considerava amico e maestro, è diventato un macigno che ha fatto
tracimare le acque e crollare le paratie, senza valutare che tanta acqua
avrebbe potuto portare distruzione e morte. Così è stato. Così è stato
per Luciano (cfr. il primo caso clinico) che si è visto gettare addosso
il peso di Laura senza poterne com-prendere tutto il significato; così è
stato per Carla (cfr. il secondo caso clinico) che si è vista mettere
sulle spalle, da parte del marito, uno zaino non solo troppo gravoso, ma
che non le apparteneva. Troppo gravoso, appunto, proprio perché non
suo.
Che cos’è la colpa? È come se
nella psiche ci fosse un luogo, un angolo, tormentato: lei non è in
pace, ma in collera con se stessa (Estes) per un gesto o un episodio che
ha vissuto ed è rimasto scritto nella sua memoria, carico di dolore.
Possiamo pensare che l’anima, lo spirito, che abbraccia e
contiene la psiche si assuma il compito di trovare una cura per la sua
collera e per la sua colpa. È fatica che vale la pena di affrontare,
perché mentre cura la collera, ci accompagna a trovare la via del
perdono. È via per la tolleranza, per ogni essere umano, per ogni
creatura e per ogni emozione.
Il peso della colpa allora?
Che farne? Come dialogarci? Come trovare una mano che possa aiutarci a
sostenerlo, ad alleggerirlo, fino a poterne cogliere perfino gli aspetti
vitali? La colpa, nella dimensione in cui non ci facciamo distruggere
dal bisogno della punizione, può farci da maestra se non diventa una
cosa di cui liberarci in gran fretta.
… e la via del perdono
Il compito allora diventa quello di cercare
la nostra verità. La “verità che ci fa liberi”
è la verità che appartiene al nostro mondo interiore. Cosa stavo
cercando in quel momento della mia vita? Che cosa era così forte nel suo
richiamo da catturare le mie forze, interiori e fisiche, al punto da
entrare in quella situazione che mi ha arrecato poi dolore e
disorientamento?
Si potrebbe dire che la
rabbia è il risultato di fantasmi che non riposano in pace perché
nessuno se n’è occupato. “È necessario propiziarsi la psiche e
continuare a offrirle il cibo spirituale, che si tratti di religione,
preghiera, psicologia, sogni o altro ancora” (Estes 1992, pag. 361). Per
dare pace ai fantasmi di un passato che non esiste più nelle dimensioni
di allora. Nella tradizione buddista le anime dei morti hanno bisogno di
essere accompagnate, dopo che hanno lasciato il corpo fisico, con il
pensiero e le ‘istruzioni’ per il loro viaggio nella nuova dimensione di
vita; nella tradizione cristiana esse hanno bisogno di essere
accompagnate con la preghiera perché la loro purificazione sia sostenuta
nel suo compiersi.
L’anima, offesa da un gesto o
da un’azione che infrange un equilibrio e una parola data, ha bisogno di
essere accompagnata nel suo processo di purificazione, che è processo di
riappacificazione con se stessa. Ma non è sbattendo il mostro in prima
pagina che si opera il cammino di purificazione. Esso è, ancora una
volta, un processo da attivare e da coltivare, non un gesto
compiuto una-tantum, come se si dovesse pagare un effetto bancario ed
estinguere, così, ogni debito. Il debito dell’anima non si estingue con
gesti plateali o con confessioni forzate. Esso ha bisogno di muoversi
lungo un’opera di recupero di dignità, interiore, che diventa pace e
armonia. Sarà, questo, frutto e seme di perdono.
Ma il perdono non è qualcosa
che arriva nella pienezza e mette a posto ogni tensione, una volta per
sempre. Occorre rientrare nella propria casa interiore, ritrovare il
senso della nostra esperienza, ripercorrerla con la nostra mente,
ri-vederla per ascoltare cosa ci può dire, oggi. E cosa aveva da dirci,
allora. Confrontare le voci e i significati per favorirne il dialogo.
Questo lavoro nessuno può farlo al mio posto.
Ancora una storia. Elena
ora ha ventinove anni. Era la babysitter di Leonardo. Dopo qualche tempo
Sandro, il padre di Leonardo, si avvicina a Elena e tra i due nasce una
storia. Per un anno i due si frequentano, poi lei decide di chiudere.
Ora sono passati tre anni, ma Elena non ce la fa più a reggere questo
segreto, soprattutto nei confronti di Daniela, la moglie di Sandro, con
la quale continua un rapporto di amicizia e di frequentazione. Per Elena
l’incontro con Sandro era allora come un riconoscimento del suo essere
donna, e donna desiderabile, da parte di un uomo più grande di lei. Suo
padre? Forse, dato che suo padre, dal suo punto di vista, non si era mai
accorto di questa figlia, preso com’era dal lavoro e dalle
preoccupazioni della vita. Ora lei sa, perché ha potuto ascoltare la sua
anima, che nessun Sandro potrà dirle quelle parole che lei aspetta
ancora. Sa anche, perché il processo di riappacificazione e di perdono
l’ha potuto avviare, che questa parola di ‘riconoscimento’ dovrà
imparare ad ascoltarla nel suo mondo interno. È il riconoscimento che
può venirle da lei stessa che le darà la dignità di donna. Non solo.
Quanto più Elena potrà comprendere il significato che aveva questa
storia per lei, allora, tanto più oggi potrà dialogare con se stessa e
sostenere e consolidare il processo del perdono. Lei pensava, all’inizio
del suo percorso terapeutico, che solo in una confessione aperta con la
moglie di Sandro avrebbe potuto trovare ‘l’assoluzione’ dalla sua colpa.
Ora è consapevole che se gliene avesse parlato, avrebbe soltanto
accresciuto le conseguenze negative del suo gesto. Daniela mai avrebbe
potuto com-prendere la sua storia con il marito: come avrebbe potuto
‘assolverla’ da una colpa che dal suo punto di osservazione non poteva
che essere in-solvibile?
Anche per lei, come per
Laura, per Danilo, per Maria, la sola strada per
sciogliere il peso della colpa è un cammino da percorrere nella
solitudine del dialogo interiore, accompagnata – se possibile – da
una mano che l’aiuti a prendersi cura di se stessa. In un ‘luogo sicuro’
che sappia contenere il peso della colpa e proteggere lei e tutte le
persone coinvolte in una storia di dolore.
Non è questo il ‘luogo’ della
terapia?
Per concludere
L’esattezza dei fatti e la
verità del cuore
Il difficile lavoro del
terapeuta è proprio quello di offrire uno spazio di contenimento al
dolore. E alla colpa. La sua stanza è il luogo dove il segreto può
essere con-diviso, quindi custodito.
Ricordavo sopra come la
funzione terapeutica è funzione ‘genitoriale’, nel senso che egli
appartiene ad una generazione ‘altra’ rispetto ai pazienti. L’aiuto del
terapeuta, che condivide il segreto, libera l’altro – il partner – dal
rischio di doversi assumere un peso che non gli appartiene. Non è il
terapeuta che ‘assolve’ il paziente: l’infedeltà rimane infedeltà, un
tradimento tradimento. Compito del terapeuta è di accompagnare la
persona lungo la strada della comprensione di se stessa: la strada della
scoperta dei significati di quanto ha vissuto. Attraverso il
processo terapeutico la persona può ridare un valore al suo senso di
colpa, come una sorta di riparazione rispetto al male che può aver
arrecato a sé e all’altro. La percezione della colpa e il peso che
l’accompagna possono assumere il colore di un processo di riparazione.
Riparazione alla ferita della psiche (psyché = anima/vita).
Lo spazio della terapia è
spazio per la ricerca della verità. Della verità che solo colui cui una
storia appartiene può cercare di cogliere nella sua (quasi) pienezza. È
qui la differenza tra il compito del giudice e quello del terapeuta. Il
giudice ricerca la verità (= l’esattezza) dei fatti. Compito del
terapeuta è ricercare la verità del cuore.
Dato che i poeti e gli
artisti sanno dire con poche immagini quanto noi, uomini di scienza,
proviamo a dire con un’infinità di ragionamenti – che rischiano pure di
intrecciarsi tra loro –, chiudiamo ora con le parole di un ‘maestro’
molto particolare.
«“Non si conoscono che le
cose che si addomesticano” disse la volpe. “Gli uomini non hanno più
tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma
siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici.
Se tu vuoi un amico, addomesticami!”.
“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti” rispose la volpe. “In principio tu ti
siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò e tu non
dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu
potrai sederti un po’ più vicino…”. […]
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina “Ah, piangerò” disse la volpe “…
piangerò”.
“La colpa è tua” disse il piccolo principe “io non ti volevo far del
male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”.
“È vero” disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo” disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”.
“Ci guadagno” disse la volpe “il colore del grano”. […]
E il piccolo principe ritornò dalla volpe [per salutarla prima della sua
partenza].
“Addio” disse.
“Addio” disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non
si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi” ripeté il piccolo principe.
Per ricordarselo» (De Saint-Exupéry 1949).
BIBLIOGRAFIA
Cardinali
F., Guidi G., “La coppia in crisi di gravidanza. Sulla necessità di
ripensare l’intervento istituzionale”, Terapia Familiare n. 38/92
Cardinali
F., “Il genogramma. Come rappresentare graficamente una storia di
famiglia” in Andolfi M. e Cigoli V. (a cura di), La famiglia d’origine,
F. Angeli, Milano 2003
Céline,
(1957) Da un castello all’altro, Einaudi 1980
De
Saint-Exupéry A. (1949), Il Piccolo principe, Bompiani 1976
Dostoevskij F. (1878-80), I fratelli Karamazov, Mondadori, Milano 1994
Estés C.P.
(1992) Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Piacenza 1993
Green A.
(1999), Queste sono le parole, Giuntina, Firenze 2002
Hillman J.
(1985) Anima, Adelfi, Milano 1989
Jung C.G.,
(1912-1952) Simboli della trasformazione, in Opere, vol. V, Boringhieri,
Torino 1970
Jung C. G.
(1928) L’io e l’inconscio, in Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino 1983
Nietzsche
F. (1887-88) Frammenti postumi, in Opere, vol. VII tomo II, Adelfi,
Milano 1971
Reale G.,
Storia della filosofia greca e romana, vol. IX, Bompiani, Milano 2004
Biblioteca Home
Corsi di Formazione

|