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Interrogati
dal dramma di una famiglia di Caivano
Noi
dove stiamo?
27
settembre 2020
Questi giorni giornali e tv
ci hanno messo davanti a una brutta storia. Di dolore. Dolore prima di
tutto di una famiglia che, in un solo giorno, perde due figli: Maria
Paola muore cadendo da una moto su cui era con Ciro, il suo ragazzo, e
Michele, il fratello maggiore, rinchiuso in carcere per aver proprio lui
provocato la morte della sorella. Possiamo solo tentare d’immaginare la
sofferenza e la disperazione di questi genitori. Perdere un figlio credo
sia il dolore più innaturale che la vita può farti incontrare. Perderne
due, e in un contesto così drammatico, come reggere? Ma ora, con un
abbraccio, lasciamo questa famiglia. E facciamo qualche riflessione.
Riflessioni, attenti bene,
che prendono solo lo spunto da questa vicenda. Non avendone noi una
conoscenza diretta, e dovendoci affidare alle sole notizie di stampa,
sarebbe davvero superficiale volerci esprimere sulla situazione
concreta.
Se proviamo a guardare il
contesto socio culturale nel quale un episodio di questo genere può
trovare le radici, due stereotipi vi possiamo cogliere. Uno
fa riferimento al rapporto maschi femmine all’interno delle relazioni
familiari. L’altro c’interroga su come ci poniamo di fronte di
fronte a persone con un orientamento affettivo sessuale diverso dalla
maggioranza.
Più volte la cronaca ci ha
messo davanti famiglie nelle quali un padre (o un figlio maschio) si
sente autorizzato a decidere sulla scelta del partner per la figlia (o
sorella). Famiglie che vengono da altre culture, che si rifanno a
modelli religiosi prevalentemente islamici o induisti, trovano del tutto
naturale che l’uomo decida per la donna. Che sia il padre a decidere per
la figlia non è solo un diritto. È un dovere. La donna è proprietà
dell’uomo. Quindi è naturale che lui intervenga, con ogni mezzo,
perché lei ne rispetti le decisioni. Frange di questa
cultura sono presenti anche in casa nostra. Per cui non sorprende che
Michele, fratello maggiore, si sentisse in dovere di richiamare con ogni
mezzo la sorella, quindi d’intervenire per allontanare l’intruso.
Qui, purtroppo, una coincidenza terribile ha portato addirittura la
morte. Certamente non voluta.
La pari dignità tra uomo e
donna ha ancora tanta strada da percorrere perché possa raggiungere
anche solo tutto il nostro mondo occidentale. Figuriamoci quanta ne ha
davanti per arrivare a tutta l’umanità.
L’altro stereotipo è ancora più diffuso e
radicato. A macchia d’olio s’estende in ogni regione, in una città come
in un piccolo paese. E qui noi, come chiesa, dobbiamo trovare il
coraggio di chiederci come ci rapportiamo, nella pratica, con la parola
accoglienza, tanto usata nei discorsi e nei documenti.[1]
La persona con orientamento omoaffettivo è vista molto spesso come
deviante. O addirittura malata. Figuriamoci poi davanti a chi
soffre per incongruenza di genere (o disforia di genere – quello
che noi chiamiamo trans). Ciro, il ragazzo di Maria Paola, si
sente un uomo nato in un corpo di donna. In un corpo
sbagliato. La sofferenza che accompagna questa percezione di sé
raggiunge livelli altissimi. Quel rifiuto che senti da parte degli
altri, tu lo porti dentro di te. Sei tu il tuo primo nemico. Sei
il primo che non riesce ad accettarti per come sei. Per come il tuo
corpo ti rappresenta.
Ho davanti a me diverse
situazioni che i tanti anni di clinica mi hanno fatto incontrare. Una
delle ultime vede un ragazzo, ora appena maggiorenne, in difficoltà con
un corpo che, crescendo, ne evidenza sempre più la mascolinità. Con lui
e con la sua famiglia è già qualche anno che lavoriamo, insieme, per
favorire un processo di armonizzazione tra la percezione emozionale e la
dimensione biologica. Genitori e fratelli, coraggiosi alleati in questa
ricerca. Con molta probabilità inizieremo fra poco una terapia ormonale.
Andiamo avanti, tutti, mano nella mano. E passo dopo passo. Con
l’obiettivo di aiutarlo a ritrovarsi. A ritrovare anche lui/lei il
diritto a una vita serena. E, come tutti, una vita sufficientemente
felice.
A chi tra noi fa fatica a
riconoscere che certi atteggiamenti sono preconcetti (oltre che errati
dal punto di vista scientifico), vorrei fare un invito: provi ad
ascoltare il dolore di una persona. Forte. Profondo. Radicato
nell’anima. Costretto a vivere in un contesto di relazioni in cui il più
delle volte sei additato. Quando non addirittura rifiutato.
O, peggio ancora, sfruttato.
Una domanda. Per noi,
cattolici praticanti. Se un ragazzo come Ciro frequentasse la chiesa e
si proponesse per leggere nella messa, nessun problema o avremmo qualche
obiezione? Un anno fa venne da me una giovane donna, 25 anni. Quando il
parroco seppe che frequentava una ragazza, la sua ragazza, la
invitò a non alzarsi più per leggere nella messa. Con molto dolore
se ne andò.
Noi dove stiamo?
[1]
Catechismo della Chiesa cattolica, 2357-2359
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