Tra condizionamenti culturali e libertà di pensiero
Il coraggio della verità
29 novembre 2020
Certe volte
mi chiedo chi me l’ha fatto fare. Scegliermi una professione che ogni
giorno mi mette in contatto con la sofferenza. E i suoi mille volti.
Oggi vi racconto uno degli ultimi con cui è entrata nel mio studio.
Anna ha 45
anni. Due figli di 20 e 17, Bruno e Luisa. Quando questi avevano
soltanto 6 e 3 anni, il marito se n’è andato. Dopo anni di piccole e
fugaci storie, ora vive in Romania con la nuova compagna e un bambino di
3 anni. Bruno e Luisa sono scomparsi dal suo campo visivo e affettivo.
Oltre che economico.
Anna arriva
con un pieno di sensi di colpa. Non si è saputa tenere il marito, dice.
Se avesse saputo tollerare le sue storie, lui non se ne sarebbe andato,
abbandonando oltre che lei anche i figli. Ma non basta. Il suo peso è
aggravato da un altro pensiero. Bruno ha un fidanzato. La sua
affettività è orientata verso gli uomini. Nessun’attrazione verso le
ragazze. Ma non basta ancora. Un mese fa, erano insieme in macchina,
Luisa le dice: mamma, ti devo dire una cosa, ma mi prometti che
continuerai a volermi bene anche dopo che te l’ho detta? Il respiro si
ferma. Poi riprende. E le dice: certo, figlia mia, io ti vorrò sempre
bene, sei mia figlia! Mamma, continua Luisa, io ho tanti amici maschi,
ma mi sento attratta da una compagna di classe: lei mi piace, e io
piaccio a lei.
Dove ho
sbagliato? Non ho saputo fare la madre. Questi due figli sono malati.
Sono omosessuali. E la colpa è mia. Se fossi stata capace di tenermi il
padre, tollerando anche le sue storie, questo non sarebbe successo.
Prima provo
a dirle che io preferisco usare la parola omoaffettività
piuttosto omosessualità. La sessualità umana, infatti, è
espressione dell’affettività: se un uomo o una donna s’innamorano di una
persona dello stesso sesso è perché il loro affetto trova in questa
relazione la risposta di cui ha bisogno. E la sessualità ne segue, di
conseguenza.
Le chiedo
chi le ha detto che l’omoaffettività è una malattia. A questo
punto mi dice che lei è una donna molto religiosa. È cattolica. E nel
gruppo di preghiera cui appartiene, quando s’incontrano, il responsabile
non manca d’invitare tutti a pregare per la guarigione di Bruno e
di Luisa. Preghiera condivisa anche dal sacerdote, guida spirituale del
gruppo. Il quale ci ha tenuto a confermare e spiegare che questa è la
dottrina della chiesa.
Ma lo zaino
di Anna contiene anche un altro peso. Dopo oltre dieci anni di
solitudine affettiva, con tutta la responsabilità di genitore unico
con i figli, adesso da due anni si frequenta con un uomo. Lui è libero,
non ha famiglia. Si vogliono bene. Sono di sostegno, l’uno per l’altra.
Anche i ragazzi hanno un buon rapporto con lui. Giovanni ritiene giunto
il tempo di andare a vivere insieme. Anche lei lo pensa. Ma alla mia
domanda cosa vi trattiene? arriva la sua risposta. Asciutta. Con
un filo di voce e le lacrime agli occhi: perderei anche il lavoro.
Il lavoro? le dico. Sì, sono un’insegnante di religione. Mi hanno detto
che il giorno in cui andassi a convivere con un uomo che non è mio
marito, non avrei più l’incarico, perderei subito il posto: e questo non
posso permettermelo. Come potrei mandare avanti la famiglia?
Non è una
vicenda d’altri tempi. È di oggi. Né accade in qualche sperduto paesino
di montagna. No. Tutto questo a Bologna. La Dotta. Così da secoli
chiamiamo questa città: nasce lì la prima università del mondo
occidentale, quasi mille anni fa, nel 1088. Sì, a Bologna, la Dotta.
Il lavoro
con Anna va avanti. E ce la faremo.
Ora qualche
domanda. Con voi.
Con quale
autorità una religione, cristianesimo o islam o qualunque altra, può
decidere ciò che è salute e ciò che è malattia? Non è della scienza
medica, nelle sue molteplici ramificazioni, questo compito? Sua è la
competenza. È vero che sull’orientamento affettivo sessuale ha fatto
tanta confusione. Nell’800 riteneva patologico ogni comportamento
omosessuale. Tanto che lo stesso Freud ne ha parlato come di una
devianza nello sviluppo psichico. Ma oggi le ricerche e gli studi in
campo medico e psicologico sono molto chiari: non c’è nessuna
patologia nell’omoaffettività. Sì, certo, c’è ancora qualche
sporadico nostalgico del passato. Ma, che volete? C’è ancora chi ritiene
che la terra sia piatta e, oggi, che il Covid sia tutta un’invenzione
per imporci una dittatura sanitaria.
Ma c’è
anche un’altra domanda, che pure ci porta Anna. È forse più cristiano,
cioè coerente con il Vangelo, costringere una persona a vivere una
relazione affettiva clandestina - così non perde il lavoro! -
piuttosto che fare una valutazione, concreta e seria della situazione
reale che Anna sta vivendo?
Il
coraggio della verità. Non è questo l’insegnamento del Maestro di
Nazareth? Insegnamento difficile, non v’è dubbio. Ma irrinunciabile.
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