Da 60 anni il Tibet è sotto il dominio della Cina
Il giorno della vergogna
24 marzo 2019
10 marzo
1959, grande sommossa del popolo tibetano soffocata nel sangue
dall’esercito della Cina di Mao. Da allora il Tibet ha perso la sua
libertà e la sua autonomia. Nel silenzio del mondo. Di tutto il mondo.
Occidentale e orientale. Del nord e del sud del pianeta. Del mondo
capitalista e di quello socialista. Perfino del mondo delle religioni.
Indifferenti anch’esse. Alcune perché non sanno guardare oltre la
propria ansia espansionistica, altre, anche più grandi e numerose,
perché ancora prigioniere della ‘ragion di stato’. Chi tocca la
Cina... muore.
Chi sa se
un giorno, accanto al 27 gennaio giorno della memoria, al 10
febbraio giorno del ricordo, riusciremo a dire 10 marzo
giorno della vergogna! La vergogna del mondo. Che da allora, Nazioni
Unite comprese, ignora beatamente il dramma di questo antico popolo. Ah,
dimenticavo, anche piccolo e povero popolo. Senza petrolio
né diamanti. Senza carri armati né armi nucleari.
Si racconta
che Stalin un giorno chiese di quante divisioni disponesse il Vaticano.
Non risulta che Mao si sia fatto una domanda analoga rispetto al Tibet.
Certo è che le sue guardie rosse non hanno faticato tanto per occuparlo.
Il popolo tibetano era ricco soltanto della sua cultura, delle
sue tradizioni e della sua spiritualità. Il problema è, ci
ricorderebbero subito certi nostri illuminati politici, che con la
cultura e la spiritualità non si mangia. Non si accresce il PIL.
Meno ancora si fa salire il consenso nei sondaggi.
Perché
allora preoccuparcene tanto?
Dal 1959 il
Dalai Lama e più di 100mila tibetani sono costretti all’esilio. Ma il
dramma del Tibet, isolato e ignorato dal resto del mondo, sta anche nel
fatto che non solo ha dovuto e deve subire l’invasione e il controllo
militare e politico della Cina, ma ora sta subendo la colonizzazione
da parte dei cittadini cinesi, incoraggiati a recarsi in quella terra e
andarci a vivere. Per portarvi la propria cultura. Con lo scopo di
isolare e soffocare la cultura, le tradizioni, perfino la lingua della
popolazione locale. Il problema dei coloni nel medio oriente
tiene col fiato sospeso gran parte del mondo. I coloni cinesi che
invadono il Tibet... chi li vede? Chi li conosce? Chi se ne occupa?
Chi tocca la Cina... muore.
Entrate a
Lhasa, la capitale. Vedete subito i segni dell’inquinamento culturale
che vi hanno operato. Rimane sì e no qualche tempio, ricostruito a fini
turistici, dopo essere stato distrutto nel ’59. Vedete il Potàla, il
palazzo, centro della spiritualità e della cultura tibetana, lì.
Isolato. Come un leone in gabbia. Circondato da grandi piazze e sontuose
costruzioni moderne che ostentano benessere, lusso e cattivo gusto.
E il mondo?
Pronto sì a giocare alla guerra tecnologica o alla guerra dei dazi con
la Cina. Ma guai a nominare il problema Tibet. È proibito perfino
ricevere il Dalai Lama: un governo che osasse farlo verrebbe considerato
ostile al popolo cinese. E dire che ce ne sarebbero di ragioni
per far sentire alla Cina la voce del mondo: si pensi anche soltanto
allo stato dei diritti umani sotto il governo di Xi Jinping (che
proprio questi giorni è venuto in Italia!) e dei suoi predecessori, fin
dai tempi della rivoluzione culturale di Mao. Ma chi tocca la Cina...
muore.
L’ultima
perla: in occasione dell’anniversario dell’invasione militare la Cina ha
sigillato ulteriormente il Tibet proibendo, per tutto il mese di marzo,
l’ingresso ai potenziali turisti. Quando si dice... coraggio. O, forse
meglio, coda di paglia.
Non c’è
modo di ribellarsi al dominio cinese: in questi sessant’anni più di 160
tibetani si sono immolati nel fuoco in segno di protesta. E ogni volta
che succede, la famiglia della vittima e tutto il villaggio ne sono
considerati responsabili. Con le immaginabili conseguenze. Non ultima i
cosiddetti campi di ri-educazione.
Una luce di
speranza? Mah. Nel dicembre scorso il Congresso Americano ha approvato
il Tibet Reciprocal Access Act: la stessa apertura e libertà di
movimento che la Cina permetterà alla stampa internazionale in Tibet,
sarà riconosciuta alla stampa cinese in territorio americano.
Funzionerà? Vedremo. Certo è che, anche dovesse realizzarsi questa
reciprocità che il documento dichiara, rimane completamente aperta la
questione dell’indifferenza del mondo di fronte alla prepotenza
di un paese, grande, potente e ricco come la Cina, che può permettersi
di invadere un altro paese, libero, ma povero, come il Tibet, e di
ridurlo a una sua provincia. Impunemente. Nel silenzio di tutti.
So che un
giorno, quando il mondo avrà più coraggio, l’ONU potrà dire: 10 marzo,
giorno della vergogna. Quel giorno, finalmente, apriremo la
strada per un Tibet di nuovo libero.
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