Di fronte alla sentenza della Corte Costituzionale
sull’art. 580 c.p.
Il suicidio e la legge
(2)
6 ottobre 2019
Il
suicidio non è un diritto. Il suicidio è una
tragedia. Per chi lo decide. E per tutte le persone che gli sono
vicine. Ne parlammo anche qualche anno fa.[1]
Ora la sentenza della Consulta ci rimette davanti a questo dramma. Al
dramma delle persone che si trovano in una condizione di vita che non
riescono più a sostenere. Per le quali vivere non significa più
attraversare dolore e gioia, fatica e speranza, solitudine e compagnia.
Per le quali la notte e il giorno non hanno più la capacità di
alternarsi. E vivere è soltanto dolore, fatica, solitudine,
disperazione. Buio totale. Assenza totale di speranza di cambiamento.
Mercoledì
25 settembre la Corte Costituzionale ha emesso la sentenza in merito
all’art. 580 del codice penale che pone sullo stesso piano l’aiuto e
l’istigazione al suicidio: «Chiunque determina altri al suicidio o
rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi
modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione
da cinque a dodici anni [...]». La Corte l’ha corretto dichiarando
non punibile «Chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio,
autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da
trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile,
fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa
intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e
consapevoli».
Se
rileggiamo con calma e attenzione questa sentenza, possiamo evidenziare
due aspetti.
a)
Il primo passo della Consulta è differenziare l’aiuto al
suicidio dall’istigazione ad esso. Cioè dalla spinta nei
confronti di una persona a togliersi la vita. Non punibile è soltanto
l’aiuto.
b)
L’aiuto diventa non punibile a determinate condizioni.
Guardiamole.
- Chi
decide di togliersi la vita dev’essere una persona affetta da una
patologia irreversibile. Con una malattia che per la medicina di
oggi non ha più alcuna prospettiva di remissione.
- La
persona rimane in vita soltanto grazie a trattamenti di sostegno
vitale: senza quelle macchine che ne assicurano alimentazione,
idratazione o anche la stessa respirazione, non sarebbe in grado di
vivere.
- Le
sofferenze fisiche e psicologiche da cui è afflitta sono vissute
dalla persona stessa come intollerabili. Il dolore, fisico e
psicologico, che accompagna la malattia è diventato incontrollabile
dalle cure che la medicina odierna è in grado di assicurare. Le stesse
terapie palliative – quelle che hanno per scopo il controllo del dolore
– non sono efficaci, e il dolore, fisico e psicologico, è così forte e
continuo che la persona malata non è più in grado di reggerlo.
- Il malato
dev’essere pienamente capace di prendere decisioni libere e
consapevoli. Deve disporre, cioè, della piena capacità e della
totale consapevolezza per prendere le sue decisioni, compresa quella di
voler morire.
- Una
decisione così grave dev’essere maturata autonomamente e liberamente.
Non può essere indotta in alcun modo, né diretto né indiretto, meno
ancora in maniera subdola, da parte di chiunque altro. Parenti, amici,
operatori sanitari, o altri.
È una
sentenza giusta? Ne riparleremo. Di certo era una sentenza necessaria.
Primo, perché la Corte doveva comunque dare una risposta ad un quesito
di costituzionalità in merito all’art. 580 c.p. Anche perché le
condizioni di vita in cui possiamo venirci a trovare, a seguito dei
progressi delle scienze mediche, sono profondamente cambiate dal 1930 ad
oggi. E richiedono una definizione adeguata, anche dal punto di vista
legale, su quanto è lecito e quanto invece non è accettabile dalla
società civile.
Poi perché
ci siamo ritrovati ancora una volta di fronte all’inefficienza del
Parlamento cui la Consulta aveva indicato la necessità di fare una legge
che definisse termini e condizioni rispetto alla tematica del
fine-vita. Ma nell’anno di tempo indicato (24 settembre 2018 - 24
settembre 2019) i nostri parlamentari si sono defilati. Ce la faranno
ora? I primi indizi non fanno ben sperare. Dalle dichiarazioni tuonanti
dell’ex ministro i-porti-sono-chiusi che, pur di raccattare voti,
adesso va gridando “la vita è sacra!”. Ai giochini che Camera e Senato
hanno già attivato rivendicando, ciascuno per sé, il diritto alla
primogenitura di una possibile legge: stanno litigando su quale
delle due camere ha il diritto ad avviarne l’iter necessario...
Un’ultima
considerazione. Non mi piace il tono di certi interventi con cui le
varie parti stanno impostando il dibattito. Più che di confronto e
dialogo, suona tanto di scontro da crociata. Sia laica che cattolica.
Parole come baratro, cultura di morte, suicidio di
stato, finalmente liberi, ecc. gridate ai quattro venti...
pensate davvero che sono un contributo alla costruzione di una legge che
rispetti i valori delle diverse culture che compongono la società
italiana contemporanea?
(2. continua)
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