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La scuola e i ragazzi persi
12 maggio 2019
Cara Professoressa,
nonostante siano passati più di venti anni, mi capita spesso di pensare
a lei. Ciò accade ogni volta che mi fermo a guardare indietro, ma solo
per ammirare, con la lucidità di una 38enne, la strada ormai percorsa.
Una strada che, contrariamente a quella che lei aveva presagito per noi
giovani di oggi, non assomiglia mica ad una via larga e priva di
ostacoli. Le posso assicurare che si tratta invece di una strada
stretta, impervia, piena di curve e senza segnaletica, dove si cammina
al buio. Al buio perché la vostra luce è fioca, fredda, e bisogna
comunque arrangiarsi e scaldarsi come meglio si può. A volte in questo
labirinto ci si perde, combattendo contro le vostre profezie
nostradamiche, altre volte ciò non accade perché in questa selva oscura,
quando la primavera fiorisce, le ferite possono diventare feritoie.
Cara prof, ora che sono adulta le posso rivelare un segreto: la sua
alunna depressa, quella che a suo avviso da adulta non ce
l’avrebbe fatta a sopravvivere alle tempeste e a cui non ha mai dato
l’opportunità di urlare il suo dolore, ora lavora per i depressi, con
uno strumento che si chiama parola. Una parola che è sempre un
dono e mai disprezzo perché compone una melodia armoniosa, quella
dell’ascolto e dell’aiuto, che lei ha imparato a suonare grazie ai suoi
grandi maestri: depressi, schizofrenici e bipolari. Loro sono stati la
sua Scuola di Barbiana, altro che Liceo Scientifico, con tutta
quella matematica! E lo sa, professoressa, che la depressione non
passa come una meteora, ma colpisce al petto e si trasforma
nel momento in cui la si accetta come la faccia triste del proprio
demone interiore, da troppo tempo senza acqua e senza cibo? Lo stesso
demone che, nel momento in cui gli viene concessa la parola, ci libera,
educandoci al bello grazie alla musica e alla cultura, quello che la
scuola non ci ha mai suggerito di amare.
Tutti gli esclusi ci insegnano che “Il
sintomo è il primo annuncio del risvegliarsi della psiche che non
intende più tollerare di essere maltrattata" (J. Hillman).
Che si chiami depressione, devianza o difficoltà nell’apprendimento, il
sintomo esprime sempre una disperata lotta contro tutte quelle
ingiustizie che anche la sua scuola ha perpetuato per anni, elogiando
solo i meriti dei figli dei professori, quelli del primo banco, che la
scuola la frequentavano a casa a tempo pieno, assorbendo il linguaggio
forbito dei genitori. Gli stessi che poi puntualmente giravano le spalle
ai loro compagni in difficoltà, lasciandoli indietro. Don Milani
scriveva: “Voi
dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi.
Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è
quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla.
E il babbo serio: Non si dice lalla, si dice aradio”.
Si è mai chiesta quale può essere invece lo sforzo di chi, pur non
portando il “marchio della razza pregiata”, partendo da una
posizione di svantaggio, raggiunge gli stessi traguardi del figlio del
dottore? E che voto darebbe ai poveri che, andando controcorrente, si
diplomano in una scuola fondamentalmente su misura dei ricchi?
Come insegnano i ragazzi di Barbiana, la scuola ha purtroppo un problema
solo, i ragazzi che perde. E “Se si perde loro (i ragazzi più
difficili) la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e
respinge i malati”.
Ma lei la conosce la storia del bruco che muta in farfalla?
Pensava di partorire un brutto topolino,
ma forse c’è stato un errore di valutazione. Nessuno di noi ha un
pezzo mancante, piuttosto a lei manca la consapevolezza delle
splendide creature che potremmo diventare. L’abbiamo sorpresa vero?
Ebbene sì, siamo i fiori della resilienza, tutti meravigliosamente
diversi. La lascio con una frase che rappresenta un augurio per lei
e per la sua scuola: “Arriverà
un giorno in cui ogni
diversità non
sarà tollerata, ma celebrata. Quel giorno sarai orgoglioso
di
essere
stato nel giusto”
(R. Sidoli).
Cordialmente.
Daniela Laddaga
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