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Educhiamoci alla tolleranza
2 giugno
2019
Cara prof,
meglio, cara maestra,
già, perché
il percorso di studi che più mi ha segnata è quello delle elementari. E
poiché sono sempre più convinta che siamo bombardati da cattive notizie
su come va il mondo oggi, e che ci sia tanto bisogno di modelli
positivi, approfitto della preziosa opportunità di poter pubblicare un
pezzettino della mia vita riguardo l’esperienza scolastica e di quanto
ne sia uscita arricchita. In classe spiegava cercando di coinvolgere il
compagno più distratto e invitava quello più diligente ad aiutarlo. Ha
sempre creduto nell’aiuto reciproco e nella collaborazione. Ricordo che
ci divideva in gruppetti da quattro e ci consegnava un libro da mettere
al centro per lavorare insieme. All’inizio dell’anno si sceglievano dei
libri che lei avrebbe letto alla classe dopo pranzo nel giorno in cui
avevamo il tempo pieno. Era così piacevole quel momento di condivisione!
Amava la musica e le canzoni che ci insegnava educavano ai valori della
solidarietà e della speranza. Ancora oggi quando mi capita di sentire
Si può dare di più mi vengono i brividi. La scuola come la ricordo
io è una scuola di informazione ed educazione ai valori della vita. E
questi valori di condivisione in classe si estendevano alle nostre
famiglie. Ricordo che nei periodi dell’anno più importanti, c’era negli
atri un piacevole fervore. Erano le nostre famiglie che per aiutarci
nella preparazione delle recite si adoperavano per cucire vestiti,
allestire bancarelle per mercatini a scopo benefico, dipingere metri di
lenzuola che sarebbero state le scenografie dei nostri spettacoli e
quando serviva, si proseguiva anche il pomeriggio. Noi bambini a fare
insieme i compiti in aula o a correre nell’atrio mentre genitori e
maestri alle prese con i preparativi. Questi per me erano i momenti più
belli dell’anno. E se da bambina ero felice e basta, senza farmi tante
domande, ora a 31 anni, sento di poter tradurre quella felicità a
parole. Quella compresenza mi dava sicurezza. Percepire che i valori
insegnati a scuola trovavano un continuum nella mia famiglia e in quelle
dei miei compagni, mi faceva sentire libera perché protetta da una cura
coerente.
Oggi.
Bambini che chiedono il cellulare per la Prima Comunione al posto di una
chitarra; che si isolano dietro lo schermo dell’ultimo dispositivo
tecnologico invece di ritrovarsi all’oratorio; che vogliono avere il
loro profilo facebook invece di giocare a facciamo finta che io ero…
Il mondo di oggi è un uragano di input e più che mai servono punti fermi
se non vogliamo che anche i nostri giovani inizino a girare
vorticosamente. Torno così alla scuola e alla famiglia. Queste due
agenzie educative dovrebbero collaborare per fornire agli adulti di
domani una linea guida coerente per poter crescere protetti e liberi. Ma
spesso succede il contrario. Ho letto di una madre che ha picchiato la
vicepreside per aver sospeso sua figlia in seguito a comportamenti
negativi. È questo il modo di far sentire protetti i propri figli? È
questo il modo in cui vengono educati al rispetto? Dove sono finiti i
punti fermi? Dove il rispetto dei ruoli? La scuola, dal canto suo, è
impegnata nel trasferimento di più nozioni possibili, nella
somministrazione dei test più vari per diagnosticare l’ennesimo disturbo
dell’attenzione ed è sottoposta essa stessa a continue valutazioni e
tagli delle spese. In questo modo spesso dimentica che il rapporto tra
insegnante e allievo è molto più di un test a risposta multipla o di una
somma di informazioni. Eppure, se si vuole essere al passo con i tempi,
non bastano le nozioni ma urge l’educazione alla relazione, alla
tolleranza delle differenze, al rispetto dell’altro e dell’ambiente e
più di tutti all’accoglienza. Ripenso così alla Scuola di Barbiana e
riflettendo sulle parole “Il maestro dà al ragazzo tutto quello che
crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualcosa e così
l’umanità va avanti”, ringrazio con tutto l’affetto e la stima la
maestra Luisa, il maestro Alberto e la maestra Clara.
Federica
Natali, ovvero un’alunna fortunata
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