Il vivere e il morire.
Incontri e domande nell’esperienza di uno psicoterapeuta
F. Cardinali - in Terapia Familiare n. 53/1997
(Riassunto) Stimolato da alcune esperienze personali e professionali l'autore riflette sulla necessità di considerare l'altra dimensione del vivere, che è il morire, come una fase del ciclo vitale. (Summary) Urged by some personal and professional experiences the author thinks over the necessity for the psychotherapist to think about the other dimension of living, that is dying, as a stage of the vital cycle. |
"Tutti gli uomini hanno sulle spalle un giogo pesante,
da quando escono dal grembo materno
fino a quanto ritornano alla terra
che è madre di tutti.
La loro preoccupazione e l'angoscia interiore sta nel pensare al futuro,
al giorno della morte"
(La Bibbia, Siracide, sec. IV a.C.)
PREMESSA
Il ciclo vitale
L'occasione per scrivere queste pagine mi è stata offerta da un insieme di incontri, che nella mia vita personale e professionale ho dovuto accettare, con l'altra dimensione del vivere che è il morire. Ho detto "dovuto" perché il desiderio dell'immortalità, meglio, della non-mortalità, mi si presenta di forza come parte di me stesso. Esperienza condivisa, credo.
Le scuole di medicina e di psicologia ci insegnano la psicologia e la psichiatria dell'età evolutiva; l'analisi sociologica ci dice l'importanza del pensare servizi per i bambini e per i giovani: servizi per prevenire e per intervenire sul disagio minorile; noi stessi, psicoterapeuti della famiglia, ci poniamo spesso il problema di quale spazio diamo nel nostro lavoro - nel pensare e nel fare - al bambino e quanto ci investiamo delle nostre energie terapeutiche. Parliamo di ciclo vitale della famiglia. Facciamo convegni, congressi, seminari sull'infanzia, sull'adolescenza, ci occupiamo di coppie in crisi, di famiglie ricostituite; siamo arrivati perfino a occuparci della terza età, adesso ce ne abbiamo aggiunta una quarta, parliamo di crisi da pensione, di invecchiamento. Poi? Poi il nostro pensiero si ferma.
Mi chiedo, allora, se non possiamo, invece, provare a confrontarci, nell'esercizio della nostra professione e lungo il processo di formazione che lo precede e lo accompagna, anche con la morte, proprio come una fase del ciclo vitale, quella che a suo modo lo completa e ne fa meglio cogliere le profondità e i significati.
La morte di mio padre, l'esperienza di morte che alcuni pazienti mi hanno portato con tutto il carico di dolore del loro animo, le resistenze e le angosce che gli allievi in formazione mi riportano come parte di sé quando la clinica o la storia personale e familiare li mette forzatamente in contatto con essa, sono state e sono tante occasioni che, anche a volercela mettere proprio tutta, non avrei potuto sfuggire! E non me ne dispiace. Anzi, credo proprio che tutto questo sia stato, e sia tuttora, una fortuna. Che non posso permettermi di perdere.
Vorrei, qui, portare la riflessione non tanto sulla possibilità o sulla necessità di accettare la morte: questo è un cammino che ognuno fa con sé stesso, percorrendo una strada che non possono indicare gli altri, ma che ciascuno ricerca e percorre in una dimensione di inevitabile e sana solitudine. E' un cammino spirituale, arduo. Io credo necessario.
Il punto sul quale vorrei portare la riflessione è sulla possibilità/necessità di poterne parlare. Non so se c'è un "metodo" per permettere ad uno psicoterapeuta, sia nel suo processo di formazione che nella clinica, di vivere in modo costruttivo, quindi vitale, l'incontro con la morte. Il mio vuole essere soltanto il tentativo di indicare una strada, proponendo alla lettura, alla riflessione e, perché no?, alla meditazione - se posso permettermi una parola che si colloca ad un livello diverso da quello del cosiddetto "pensiero scientifico" - alcuni pensieri che sono nati, credo, da incontri ravvicinati con l'altra dimensione del vivere, che è il morire, che non mi è stato possibile evitare.
Questo è un modo - un “metodo”? - per poterne parlare.
Perché parlarne, è una necessità. Per chiunque. Poterne parlare significa poter dare la parola a quel "terrore senza nome" che ci coglie ogni volta che la morte entra nel nostro mondo percettivo. Se dare la parola al dolore ci permette di non trovarci costretti ad agirlo, questo lavoro vuol essere un tentativo di suggerire, attraverso la lettura di alcune pagine, l'attivazione di questa strada proprio in riferimento al dolore più grande che accompagna l'uomo lungo il suo ciclo vitale: quello della consapevolezza della morte. Questa si ripropone ogni volta che ci si presenta davanti, particolarmente quando si permette di incontrare una persona del nostro mondo affettivo (che, per noi, credo debba a buon diritto comprendere anche i nostri pazienti) o, addirittura, della nostra famiglia.
Poterne parlare significa poter avviare quel processo di metabolizzazione che rende pensabile, quindi dicibile, ciò che altrimenti si porrebbe come elemento non accessibile al pensiero né alla parola, quindi indigeribile.
Due possibili strade mi sembrano percorribili. Una è quella di riflettere sulla propria esperienza. L'altra è quella di poterlo fare passando attraverso l'esperienza che altri riescono a comunicarci, anche attraverso quello che scrivono. Quando queste due strade possono incontrarsi, credo che può essere detto un buon "processo formativo" quello in cui ci troviamo collocati.
Due anni fa è morto mio padre. Non voglio parlare del mio dolore: non lo saprei raccontare in maniera adeguata. Mi piace dire di un regalo che mi ha fatto morendo, che sto scoprendo piano piano, per la verità. Mi ha fatto sentire più vicina la mia morte: non tanto vicina nel tempo, quanto vicina nel pensiero. Prima era come se lui potesse ancora proteggermi da essa e io mi ci potessi nascondere dietro; ora mi sento in prima linea. Questo mi fa sentire maggiore l'intensità della vita, di quello che faccio, di quello che sento, di ciò che penso... sto scoprendo che la mia vita è più presente: credo proprio che ciò sta avvenendo perché è più presente la mia morte.
E' dentro questa cornice che vorrei condividere alcuni pensieri nel tentativo di provare, noi, a dare la parola a questo dolore che ci appartiene in quanto consapevoli del vivere e del morire.
I PARTE - LA SFIDA DELLA CULTURA
L'umanità di fronte alla morte
Tra tutte le specie viventi l'uomo è l'unico animale che seppellisce i propri morti. E' la sola specie cui la morte è onnipresente nel corso della sua vita: i legami familiari, i legami affettivi, i legami di conoscenza con chi è già morto ci accompagnano per tutta la vita. Nella specie uomo la morte come fatto biologico, fatto di natura, viene continuamente oltre-passato dalla morte come fatto di cultura.
Il dramma di Antigone che accetta di rischiare la morte per dare sepoltura al fratello morto in battaglia, cui Creonte aveva negato il diritto di avere una tomba, credo descriva con grande profondità il bisogno dell'uomo di curare i propri morti. La negazione di questo diritto-dovere diventa causa a sua volta di morte e di distruzione. (14)
Di fronte a questa esperienza l'umanità sembra muoversi in due direzioni, apparentemente opposte, ma con una inquietante domanda che le accomuna: qual'è senso del morire e, insieme ad essa in un legame indissolubile, il senso del vivere... un dibattersi tra senso e non senso.
Da una parte, accoglie la domanda e accetta di incontrarla. La religione, la filosofia, la scienza, ciascuna di queste con gli strumenti che si è costruita e seguendo la strada che le è propria, cerca una risposta a questa domanda che, nella consapevolezza più o meno cosciente, l'uomo sente sottostare ad ogni altra domanda dell'esistenza.
Dall'altra ne rifugge e la rifiuta.
Un'esasperazione di questo atteggiamento sembra emergere nella cultura occidentale contemporanea. Esso si estrinseca nel vivere la vita in un "come se", alimentato esasperatamente, in una sorta di fatica di Sisifo 2, nel tentativo di vivere come se la morte non fosse una realtà che mi riguarda. La morte è la morte degli altri.
Tolstoj, nel raccontarci la morte di Ivan Il'ic scrive (Ivan è a letto, malato, e sta lottando contro una morte che sente inevitabile): "L'esempio di sillogismo che aveva studiato nella Logica - Tutti gli uomini sono mortali, Caio è un uomo, quindi Caio è mortale - gli era per tutta la vita sembrato giusto nei riguardi di Caio, ma nient'affatto nei suoi propri. Quello era Caio, un uomo qualunque, ma lui era Ivan Il'ic, non era né Caio, né in generale un uomo, lui era un essere del tutto diverso dagli altri... Se anche io fossi stato destinato, come Caio, a morire, avrei dovuto saperlo, me l'avrebbe dovuto dire una voce interna... sia io che i miei amici abbiamo sempre inteso che per noi non era come per Caio. Non può essere, non può essere. Ma intanto è. Come si spiega?" (17).
Freud scrive nel 1915 (aveva 59 anni) "in verità è impossibile per noi raffigurarci la nostra stessa morte e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in effetti continuiamo ad essere ancora presenti come spettatori. (...) possiamo affermare che non c'è nessuno che in fondo creda alla propria morte, o, detto in altre parole, che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità" (3).
La Kubler-Ross continua questo pensiero dicendo che se questa vita deve finire, la fine è pensabile solo se attribuita ad una forza cattiva esterna a noi. Significativo, da questo punto di vista, è il mito del peccato d'origine: in esso si sostiene che è proprio a seguito di questa colpa che la morte è entrata nella vita dell'uomo.
Del resto, se è vero che si apprende dall'esperienza, come ci ricorda Bion, a nessuno di noi è concesso di apprendere dalla propria morte. Eugenie Jonesco scrive che "ognuno di noi è il primo a morire". Se il mio morire è sicuro, è però contemporaneamente non solo imprevedibile nel tempo, ma anche inconoscibile: io non posso parlare del mio morire, perché è una realtà che nel momento stesso in cui posso viverla diventa incomunicabile.
Incomunicabile perfino a me stesso. Tanto che di fronte ad essa perdiamo addirittura la capacità del pensiero adulto, conquistata e costruita a fatica con il passare degli anni, e ci lasciamo invadere da quella dimensione di pensiero infantile che conosce solo la propria onnipotenza, la propria capacità, cioè, di produrre ciò che nomina. Parlare della morte, nominarla o anche solo pensarla ne realizza la presenza. E così, in una sorta di coerenza estrema, decidiamo di concederci comportamenti e atteggiamenti cui attribuiamo la capacità di tenere a distanza una realtà tanto minacciosa.
Scongiuri, riti, amuleti, (toccare ferro o i genitali, oggetti-portafortuna... qui ognuno ci può mettere tutto quello che vuole e che sa) accompagnano ogni malaugurato incontro con la morte: un funerale incrociato per strada, un discorso, la parola stessa diventano occasioni buone per concederci, da bravi "fobici" - perché così sui libri definiamo i nostri pazienti - qualche buon rituale rassicurante e onnipotente!
Un altro modo di negare la morte, esasperato dal pensiero contemporaneo, è la morte rappresentata. Pensiamo a quanti morti ci vengono somministrati quotidianamente dalla televisione; perfino ai nostri bambini lasciamo ingerire cartoni animati pieni di morti violente, li lasciano tranquillamente passare il tempo con videogiochi nei quali si deve uccidere l'avversario per vincere la partita e sentirsi poi dire un bel "bravo!". Poi magari ci poniamo il problema se sia bene per il bambino portarlo a trovare il nonno morente o fargli vedere il nonno morto perché lo possa salutare. Questa invasione di rappresentazioni di morte fatte con violenza e quasi indifferenza non è forse un tentativo di distanziare, allontanare o perfino esorcizzare la realtà della morte come momento che accompagna la vita?
Freud scriveva, riferendosi alla letteratura e al teatro, che "nel campo della finzione troviamo quella pluralità di vite di cui abbiamo bisogno"; "là soltanto si verifica la condizione che potrebbe riconciliarci con la morte: la conservazione, attraverso le traversie dell'esistenza, di una vita, la nostra, come tale intangibile" (3)! Possiamo anche morire nell’identificazione con un eroe, certi però che gli sopravviviamo.
Mi chiedo se non sia ancora un modo per allontanare la morte dalla vita l'aver portato, ormai di routine, il momento della morte di una persona cara al di fuori della propria casa. Il progresso della medicina, la diffusione dei servizi sanitari specialistici ci sta facendo perdere il contatto immediato con la morte 3 . Nel reparto il malato, il malato terminale, il moribondo, è un paziente tra molti altri: non è più il padre o il vicino di casa o l'amico.
Non è tutto questo un "agire" il terrore di cui non si può parlare, cui, cioè, non si può "dare la parola"?
La domanda primaria: il senso del morire e del vivere
Accogliere la domanda sulla morte significa, in realtà, accogliere la domanda sulla vita, ossia sul senso della vita.
Che lo si voglia o no, questa domanda è ineludibile. Possiamo difendercene, rimandandola, perfino rimuovendola, ma la nostra stessa ragione ci costringe a farci i conti.
Un maestro tibetano, Sogyal Rinpoche scrive: "Quando arrivai in occidente fui colpito dal contrasto tra l'atteggiamento verso la morte in cui ero stato allevato e quello con cui ora ero venuto in contatto. Nonostante le sue conquiste tecnologiche, la moderna cultura occidentale non ha una reale conoscenza della morte... Agli occidentali viene insegnato a negare la morte, che viene presentata solo come annientamento e perdita definitiva" (16).
Castaneda nel suo "Viaggio a Ixtlan" racconta in uno dei tanti dialoghi con don Juan: "Sostenni che per me non avrebbe avuto significato dilungarmi sulla mia morte, perché un tale pensiero mi avrebbe dato solo disagio e paura. "Sei proprio un disastro - mi disse - la morte è il solo saggio consigliere che abbiamo... la morte è la nostra eterna compagna: è sempre alla nostra sinistra, a un passo di distanza... La cosa da fare, quando sei impaziente, è voltarti e chiedere consiglio alla tua morte. Ti sbarazzi di un’enorme quantità di meschinità [...] anche se soltanto hai la sensazione che la tua compagna è lì che ti sorveglia. [...] Uno deve chiedere consiglio alla morte e sbarazzarsi delle maledette meschinità proprie degli uomini che vivono come se la morte non dovesse mai toccarli. [...] Ogni volta che senti che tutto va male e che stai per essere annientato, voltati verso la tua morte e chiedile se è vero. La tua morte ti dirà che hai torto... la tua morte di dirà "non ti ho ancora toccato". [...] Non c'è neppure bisogno che tu veda la morte: è sufficiente che ne senta la presenza intorno a te" (1). Io aggiungerei: ogni tanto volgiti indietro a parlarle perché quando ti raggiunge tu possa già essere in confidenza con lei.
Socrate dice a Critone "L'importante non è vivere, ma vivere bene". Nella sua Apologia ad un certo punto racconta che da sempre lo ha accompagnato la voce di un dio pronta a richiamarlo quando stava per fare o dire qualcosa di male. La mattina del processo - il giorno in cui poi sarebbe stato condannato a morte - questa voce non l'ha sentita. Allora dice: "Che devo dedurre da tutto questo? Ve lo dico io: può darsi che quanto è accaduto sia un bene e che non è possibile che noi siamo nel vero quando pensiamo che la morte è un male" (13).
Nel libro del Siracide, è uno dei libri della Bibbia, scritto un centinaio di anni dopo la morte di Socrate, è scritto: "Nel regno dei morti nessuno si preoccupa se sei vissuto dieci, cento o mille anni. (...) Non aver paura della morte: è il destino di tutti; pensa a chi ti ha preceduto e a quanti verranno dopo di te" (8).
Freud scrive ancora: "Non sarebbe preferibile restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete, dando maggior rilievo a quel nostro atteggiamento inconscio di fronte alla morte che ci siamo finora sforzati di reprimere accuratamente? [...]. Il vecchio detto Si vis pacem para bellum sarebbe tempo di modificarlo così: Si vis vitam, para mortem: Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte" (4).
Jung nel 1934 scrive "L'uomo giovane viene preparato per venti anni e più al pieno sviluppo della sua esistenza individuale; perché non dovrebbe per venti anni e più preparare la sua fine?" (5).
Nel Dhammapada (= I versi della legge) è scritto "Rispetto all'esistenza di un uomo che viva cento anni senza porsi il problema dell'origine e della fine, è preferibile un solo giorno di vita di colui che le considera" (2).
Nel Vangelo Gesù dice "Siate sempre pronti, con la cintura ai fianchi e le lampade accese... Procuratevi ricchezze che non si consumano, un tesoro sicuro in cielo (il cielo è l'altra dimensione della vita). Là i ladri non possono arrivare e la ruggine non lo può distruggere. Perché dove sono le vostre ricchezze, là c'è anche il vostro cuore" (8).
"Credo che dovremmo prendere l'abitudine di pensare ogni tanto alla morte e al morire, prima di incontrarla nella nostra vita personale. (...) Può essere una benedizione usare il tempo della malattia di una persona cara o di un amico per pensare alla morte e al morire in termini riguardanti noi stessi" (6).
* * *
E' stato un breve viaggio tra alcuni pensieri dell'umanità. Ognuno può continuarlo come può e come vuole. Credo comunque che sarebbe bello fare questa ricerca sviluppando in noi stessi la capacità di cogliere la saggezza dell'uomo, in una duplice dimensione.
Da una parte la saggezza dell'umanità, che sa cogliere, da sempre, una dimensione di vita che trascende il limite del tempo individuale. Le società primitive, gli indiani d'America, le civiltà orientali e occidentali, gli egiziani, i greci e i romani, le grandi religioni (buddismo, cristianesimo, islam), pur differenziandosi nello specifico (il mondo degli antenati, il regno delle ombre, il susseguirsi di diverse forme di esistenza, la vita eterna come meta finale), tutti sottolineano il senso di trasformazione e di passaggio da una forma di vita ad un altra, nessuno parla di fine come di accesso al mondo del non essere.
Dall'altra la saggezza dell'individuo in quella componente di sé che pure sembra trascendere il limite della coscienza.
Un lavoro davvero interessante ha fatto M.L. Von Franz, una collaboratrice di Jung. Nel libro sui sogni dei morenti dice "I sogni compiuti in prossimità della morte mostrano tutti che l'inconscio, ossia il mondo degli istinti, non prepara la coscienza ad una fine definitiva, ma piuttosto ad una trasformazione profonda e ad una continuazione del processo vitale la cui natura sfugge ai mezzi della coscienza ordinaria" (19).
Letture diverse si possono fare di questa ricerca che l'umanità ha da sempre tenuto in vita nel tentativo di dare una risposta alla durezza dell'esperienza della morte.
Da una parte si cerca di vederla come tante modalità accomunate dal tentativo di "allontanare la morte mediante l'onnipotenza dell'immaginazione umana" (18), in una sorta di rifiuto verso quella che viene sentita come la "dura vittoria della specie sull'individuo" (Marx).
Dall'altra la si cerca di cogliere come l'espressione della saggezza, della presenza dello spirito che guida l'umanità verso la comprensione di sé stessa anche attraverso la fatica di integrare la dimensione individuale e la dimensione di specie, e, in un tentativo ancora di più ampio respiro, in una dimensione universale che coglie tutte le specie viventi come manifestazioni diverse della medesima vita.
II PARTE - LA SFIDA DELLA PSICOTERAPIA
Le persone che incontriamo nel nostro lavoro ci portano il dolore dell'anima: il dolore del senso del vivere. Questo colloca uno psicoterapeuta, un medico dell'anima, nella necessità, irrinunciabile, di incontrare questa domanda primaria.
Scrive ancora la Kubler-Ross: "Non dovremmo porre la nostra attenzione su certi aspetti del pensiero umano: come muoiono gli uomini, in che modo pensino alla morte, come ne parlano, che cosa "sanno" sulla morte" (6) [e sulla vita]? Se compito dello psico-terapeuta è con-tenere il dolore e l'angoscia che accompagnano la vita degli uomini, ciò significa innanzitutto dare contenimento alla domanda che sottende ad ogni altra domanda.
Il "fare anima" (Hilmann e Fornari), evocare il Sé (Jung), far sì che si risvegli Eros per contenere Thanatos non può avvenire attraverso strutture, strategie o tecniche particolari. Solo il simile può curare il simile. Il dolore dell'anima può essere lenito solo da un'altra anima che, conoscendo il dolore, non ne è annientata (10).
Edipo, ormai vecchio nell'anima, rifiutato e scacciato da Tebe e dai suoi figli, carico delle sue colpe, le peggiori che un uomo potesse pensare, ha sovvertito ogni ordine e ogni legge sia degli dei che degli uomini; parricida e incestuoso, bisognoso degli occhi di Antigone per muoversi e guardare intorno a sé, vaga per il mondo e arriva a Colono, nei pressi di Atene, dove incontra Teseo. E' la prima persona che non lo rifiuta e non fugge di fronte a lui; e a Edipo che si meraviglia nel trovare accoglienza piuttosto che rifiuto Teseo dice "... come te fui cresciuto anch'io lontano dalla patria e in terra straniera ho affrontato lotte senza fine, più che umane, con rischio della mia vita..." (15). E' la solidarietà dell'esperienza comune che gli permette di accogliere il dolore del peggiore degli uomini. E' la solidarietà della consapevolezza di essere sulla stessa barca e di percorrere la medesima rotta.
Gina
Sette anni fa mi era stata inviata una famiglia perché potessi intervenire su una situazione che non riuscivano più a reggere. Gina, la figlia più grande, una ragazza di 27 anni aveva già provato in più occasioni ad uscire da quella vita che per lei si rivelava sempre meno tollerabile. Li potei incontrare in tutto quattro volte; le sedute erano cominciate durante un ennesimo ricovero, successivo all'ultimo tentativo di suicidio.
L'ultima volta che li vidi lei si era presentata facendo ricorso a tutte le forze per "tranquillizzare" i suoi, per dire loro che non si dovevano preoccupare, perché lei "ora stava bene" e "non aveva più bisogno di essere aiutata".
Dopo tre giorni, infatti, riuscì nel suo progetto. Questa volta senza sbagliare. Ormai sapeva bene a chi poteva chiedere l'aiuto necessario e come chiederglielo. La volta precedente era stato solo un incontro di conoscenza: si era stesa tra le rotaie, ma nella direzione di marcia del treno. Questa volta si mise di traverso. E il treno non l'ha tradita.
Per me Gina è stata la prima paziente che mi ha "lasciato" così, nel silenzio. Quel giorno ero fuori (c'era l'assemblea della S.I.T.F.!) e appresi la notizia dal giornale. Non potei fare a meno di sentire la sua vicinanza per tutta la giornata, e la sera, a tarda notte, mentre rientravo a casa, le scrissi questa lettera.
Cara Gina, Sono le due di notte: sto sul treno che mi riporta a casa dopo una pesante giornata di lavoro. Le attività e gli impegni sono stati davvero tanti, la stanchezza si fa sentire; provo a dormire, ma questi sedili sono proprio scomodi... poi è da ‘sta mattina, quando ti ho incontrata sul giornale, che ti fai viva nella mia mente a confondere i sentimenti e i pensieri che la abitano. Avevi un progetto pazzo: caricarti sulle spalle anche le croci degli altri, credendo forse, così, di liberarli dalla morte, dimenticando, però, che la compagna più fedele di ogni vivente, più fedele della sua stessa ombra, non abbandona mai. Sentivi di non farcela, ma non potevi ammetterlo. Perché gli altri non se ne accorgessero e ti accogliessero come il loro cristo, gettavi fuori il tuo sintomo, impenetrabile come l'inchiostro, e ci parlavi della "confusione dei panni": incapace a mettere ordine nei tuoi cassetti e nel tuo armadio, non potevi decidere come coprire il tuo corpo... e ci tenevi a dire che il tuo problema era "tutto qui". Poi i genitori e i fratelli, aiutati questa volta dall'assuefazione all'oscurità, hanno cominciato a guardare con più attenzione e la "confusione dei panni" perdeva, man mano, la densità impenetrabile della pazzia per lasciar intravedere l'immagine di una ragazza, curva sotto il peso delle croci rubate. Non ti piaceva che il disegno venisse svelato, ne temevi il dissolvimento. Così hai cercato un amico che collaborasse con te a portarlo fino in fondo: lo hai messo alla prova e hai visto che di lui ci si poteva fidare. "Primavera non bussa, lei entra sicura", e maggio ti era sembrato un buon mese per la prova generale. Li avevi spaventati, ma non ne eri tanto convinta... comunque si sono rimboccati le maniche, soprattutto quelle dei camici. Questo non ti ha turbata, anzi, per te era ossigeno e latte, come gli applausi del pubblico che accompagnano la prova di un artista. La prova, dunque, era riuscita bene. Due mesi fa, poi - era una giornata di agosto molto calda, ti ricordi? - sei entrata nella mia stanza e mi hai portato la tua famiglia: me li hai portati tutti, i genitori e i fratelli, inconsapevoli collaboratori. Mi chiedo ancora perché lo hai fatto. Me li hai voluti affidare? Forse li sentivi instabili e insicuri, senza quella compagnia di cui, in un estremo tentativo di protezione, li stavi derubando. O, forse, seguendo un'intuizione del tuo cuore, sentivi che non ce l’avrebbero fatta a riprendersela, dopo, e li hai portati nel laboratorio di un artigiano che speravi maestro nel ricucire l’ombra con la luce... perché, attraversando la strada del lutto, ci si potessero riappacificare. Il tuo disegno, ora, lo hai portato fino in fondo: dopo la prova, la Prima è riuscita, tanto perfetta da non concedere repliche. I nostri camici sono ancora sopra il gomito e il freddo raggiunge le ossa. Certo che da questo treno che mi sta dondolando, che ho frequentato anche troppo spesso e per tanti anni, non mi aspettavo un tradimento così doloroso. O forse lui, amico fedele, ha colto l'irrevocabilità nel progetto di una giovane donna e l'ha accolto in un estremo gesto di amicizia, fredda e affettuosa. Altro ancora vorrei dirti. Ma c’è una domanda che mi tormenta. Ce la farà anche il mio cuore ad imparare, così come prova a farlo la mia mente, che nessun bisturi potrà mai separare la vita e la morte, compagne fedeli di ogni vivente? Forse a te, per impararlo, erano già bastati i tuoi 27 anni. Buon viaggio. Dal treno, 12 ottobre 1990 |
Credo che questo, allora, fu il mio modo per salutarla e per dirle il mio dolore: quel dolore che lei era stata capace di farmi sentire come qualcosa che mi aveva proposto di condividere e che mi chiedeva, ora, di rispettare in una scelta che mi lasciava di sasso.
Cinzia e Anna Maria
Il 6 settembre di due anni fa: una delle sedute di psicoterapia con un gruppo di coppie 4.
Cinzia venne, quel giorno, come distrutta: gli occhi pieni di lacrime, lo sguardo implorante, e una rabbia addosso che non riusciva a far esplodere tutto il dolore e la disperazione che le riempivano il cuore. Venti giorni prima le era morta, quasi improvvisamente, la madre. Questa donna aveva sempre sofferto di stati depressivi e Cinzia, figlia unica, ne era dovuta diventare molto presto l'infermiera e la "fonte di vita". Lei e suo marito erano venuti in terapia per un disaccordo a tutto campo tra loro e per un’inequivocabile forma di anoressia mentale che la stava consumando da quasi sette anni. La rabbia e il dolore, traboccati dal suo animo, hanno pervaso le persone presenti collocandole in uno stato d’impotenza e di silenzio.
Per un’incomprensibile coincidenza, venti giorni prima era morto anche mio padre. Anche lui improvvisamente: se n’è accorta al mattino mia madre, quando si è svegliata. Io l'ho saputo alle 7, da una telefonata di mia cognata "Vieni su, a casa: è morto tuo padre".
Contenere il dolore di Cinzia, contenere il dolore degli altri pazienti, significava, quel giorno, contenere il mio dolore, condividendolo, senza "dimenticare" - questo, mi dicevo, doveva essere il mio compito - il contesto particolare, definito dalla relazione terapeuta-paziente, dentro il quale avveniva il nostro incontro. Avrei voluto dire che anche io avevo incontrato la morte, quella di mio padre, che ero anch'io arrabbiato e dolorante, ma non ce l'ho fatta. Le lacrime mi salivano agli occhi, ma m’imponevo di cacciarle: mi dicevo che non dovevo invadere quello spazio, quasi esso non mi appartenesse allo stesso titolo degli altri. E sono entrato anch'io nel silenzio del gruppo.
Solo la presenza di Gabriella, la coterapeuta, ha fatto sì che pian piano la parola potesse ritornare. Guidati e contenuti da lei ci siamo potuti permettere di dire che a questi genitori potevamo ancora concedere di vivere nel nostro ricordo; che non ci avevano tradito andandosene con la loro morte; che potevamo anche provare a dare vita, nel nostro animo, al desiderio di regalare loro un po’ di pace, cercandola pian piano dentro la solitudine che rischiava di soffocare il respiro del cuore. Ritrovare l'affetto di questa madre, per Cinzia, e di questo padre, per me, ci avrebbe permesso di ritrovare, forse, una luce nuova che accompagnasse la vita che, attraverso noi, stava continuando.
Alla fine della seduta Cinzia mi è venuta vicina e mi ha detto “mi dispiace tanto che anche a lei è morto suo padre; proprio due giorni prima di mia madre”. Mettendosi di nuovo a piangere. Ci siamo dati la mano. Forte. Quel giorno ci siamo lasciati così.
Un anno dopo, circa, è morto il padre di un'altra signora del gruppo, dopo qualche mese di malattia che lo aveva reso sempre meno presente a sé stesso. I conti con questo padre non erano stati saldati. Anna Maria aveva cominciato a guardarli, un giorno, sul treno, mentre lo stava accompagnando per una visita specialistica. Gli aveva potuto dire quanto si era sentita trascurata da lui che sempre - era questo il suo pensiero - aveva preferito l'altro figlio, come se lei, una donna, non contasse niente per lui. Ci aveva già detto, in precedenza, quanta fatica le era costato questo "viaggio con il padre", ma era riuscita a dirci qualcosa anche di un certo alleggerimento che sentiva crescere nel suo animo ogni volta che si ripresentavano il rancore e la rabbia per questo padre che "non le aveva mai voluto bene". Ci diceva che quel giorno, sul treno, aveva potuto sentire che suo padre "in realtà le voleva molto bene". Ma era difficile coltivare questo pensiero: era troppo nuovo, ancora, rispetto a quello che l'aveva guidata per i precedenti 34 anni. Ora che il padre era morto, il suo rammarico era quello di non aver potuto continuare quell'incontro in cui la parola aveva cominciato a vivere tra una figlia e suo padre.
CONCLUSIONE
Non credo di poter indicare delle conclusioni. Ho provato e riprovato, ma alla fine mi è parso utile ricorrere ancora una volta all'aiuto di quella saggezza che altri, pure appartenenti alla mia stessa storia, hanno saputo esprimere e lasciarci in eredità.
Si racconta che una volta un principe chiese ad un grande maestro di scrivergli un augurio per lui e per la sua famiglia, da incidere sul portale della sua casa. Il maestro accetta e dopo qualche giorno glielo fa avere. Scrive:
MUORE IL NONNO |
Il principe ci resta molto male, si sente offeso, tanto che pensa di dover punire tanta sfrontatezza.
Chiama il maestro e gli chiede spiegazioni.
Il maestro gli dice: "Non è questo l'augurio migliore che ti si possa fare? Che cioè nella tua casa la morte rispetti sempre quest'ordine: prima muore il nonno, poi muore il padre e dopo morirà il figlio?".
* * *
"L'ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte" (8, 1 Cor.)
BIBLIOGRAFIA
1. Castaneda C., Viaggio a Ixtlan, Astrolabio, Roma,
2. Dhammapada, UTET, Torino
3. Freud S., Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, Boringhieri, Torino, 1915
4. Freud S., Pensieri sulla vita e sulla morte, Boringhieri, Torino, 1915
5. Jung C.G., Anima e morte, Boringhieri, Torino, 1934
6. Kubler-Ross E., La morte e il morire, Cittadella ed., Assisi, 1969
7. Kubler-Ross E., Domande e risposte sulla morte e il morire, Red, Como, 1981
8. La Bibbia
9. Mauder A., L'arte di morire, Queriniana, Brescia, 1976
10. Monfredini A., Inevitabile confronto con il fallimento e la morte, Relazione I.T.F. di Ancona, 1992
11. Monfredini A., Incontro con la morte, Seminario all'I.T.F. di Ancona, 1994
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13. Platone, Apologia di Socrate
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15. Sofocle, Edipo a Colono
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17. Tolstoj L.N., La morte di Ivan Il'ic, BUR, Milano
18. Urbain J.D., "Morte", Enciclopedia Einaudi, Torino
19. Von Franz M.L., La morte e i sogni, Boringhieri, Torino, 1984
20. Von Franz M.L., Incontri con la morte, Raffaello Cortina, Milano, 1984
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Queste pagine sono una revisione del lavoro presentato, in parte, al VI Convegno dell'Accademia di Psicoterapia della Famiglia, Roma, 1995. In parte ne conservano il tono discorsivo che ritengo più appropriato al tentativo di avvicinarsi a una tematica tanto ardua.
1 Direttore dell'Istituto di Terapia Familiare di Ancona.
2 Sisifo è costretto a spingere un masso su per un monte; appena arriva alla cima, questo rotola di nuovo in fondo e lui deve rico-minciare da capo. La sua colpa: è riuscito ad imprigionare Tanato (la morte) e gettarlo in una cella sotterranea. Da un po' sulla terra non muore più nessuno. Gli dèi si preoccupano non poco per quanto sta accadendo e scoperta la prigionia di Tanato lo mandano a liberare. Le cose riprendono il loro ordine naturale e Sisifo, che aveva osato ciò che non era lecito osare, viene condannato ad una pena "eterna".
3 Questa osservazione andrebbe completata con una considerazione analoga nei riguardi della nascita. Anche questo momento lo abbiamo portato fuori dalle nostre case: l'inizio e la fine della vita, i momenti fondanti e senz'altro più significativi, li stiamo tenendo al di fuori dagli spazi nei quali consumiamo la nostra esistenza. E' un nuovo processo di difesa che mette in atto l'uomo della società contemporanea per evitare la consapevolezza del limite?
4 E' un'attività che, insieme con la dott.ssa Gabriella Guidi, stiamo portando avanti presso il nostro Istituto da cinque anni: una coterapia con un gruppo di coppie. Tre, quattro coppie di pazienti sono seguite, con sedute a cadenza mensile, da una coppia di terapeuti.
Pubblicato su TERAPIA FAMILIARE n. 53/1997