La mano aperta e la mano chiusa.
Inseriti nel ciclo vitale: dialogare con la vita e con la morte
F. Cardinali, in M. Andolfi e A. D'Elia (a cura di), Le perdite e le risorse della famiglia, R. Cortina ed., Milano 2007
Io amo la morte, alla quale mi rivolgo
con i nomi più dolci, e la esalto
con parole d’amore, in segreto
e di fronte al dileggio della folla.
Benché non abbia mai rinnegato
la mia grande devozione alla morte,
mi sono innamorato profondamente
della vita, perché vita e morte hanno per me
la stessa malia, la stessa dolce seduzione,
e si sono date la mano per nutrirmi
di desideri e affetti, e per dividere con me
amore e sofferenze.
(G. K. Gibran, 1947, p. 19)
PREMESSA
C’era una volta un uomo molto ricco. Tanto avaro da non sopportare di spendere neanche un centesimo della sua ricchezza. Un giorno andò a trovarlo il maestro zen Mokusen.
Il maestro gli disse: “Se tenessi sempre la mano con il pugno chiuso, così, per sempre, come la definiresti?”
“Deforme” gli rispose quell’uomo;
“E se l’aprissi e la tenessi sempre aperta, così, per sempre, come la definiresti?”
“Deforme” rispose di nuovo;
“Finché lo terrai presente – gli disse il maestro – sarai un uomo ricco e felice”.
Si racconta che da quel giorno egli divenne generoso. Era ancora frugale, ma sapeva anche come spendere il denaro e contribuire all’elemosina.
Dice il saggio: “Tutti gli opposti, bene e male, avere e non avere, beneficio e danno, sé e altri, sono dovuti a distinzioni della mente. Appena diamo spazio a questi concetti, ci allontaniamo dalla nostra mente originale e soccombiamo a questo dualismo” (Chung, 1994, p. 81).
Tra gli opposti che si presentano nella vita di un uomo, possiamo immaginarne uno più forte e più coinvolgente del dualismo vita-morte? Una domanda ci abita nel profondo del nostro cuore: se possiamo guardare alla vita senza comprendere nel nostro sguardo anche la morte e se, parallelamente, possiamo guardare alla morte tenendo fuori dal nostro campo visivo la vita. Io ritengo che la vita e la morte possono essere com-prese soltanto nella reciprocità (e complementarietà) della relazione: se volessimo porci nella posizione di voler guardare solo una di queste dimensioni senza voler cogliere contemporaneamente anche l’altra, il nostro pensiero risulterebbe deforme, sarebbe, cioè, come… tenere la mano sempre aperta o sempre chiusa.
In momenti diversi la clinica - e la vita - mi ha posto di fronte a questa domanda. Riguardare ora quei segni lasciati nel mio cuore da certi incontri e fare un po’ di strada con alcune di quelle persone che ve li hanno scritti, mi è parso un buon aiuto per ascoltare certi miei (nostri) pensieri e le emozioni che li accompagnano. La famiglia di Rita, che la vita ha posto di fronte alla morte, violenta, di una figlia; Antonella, sposata e madre di una ragazza adolescente, nella cui casa, quando era ancora bambina di otto anni, è entrata la morte e si è portata con sé la sua giovane mamma; Elena, sposata da due anni e madre di una bambina di pochi mesi, che perde improvvisamente suo marito; Giuliano, che a cinquant’anni perde la moglie e si ritrova tra due figli e una suocera… sono alcuni tra coloro che sono passati accanto a me ‘regalandomi’ occasioni e momenti preziosi, anche se, certo, non facili.
Nel rincontrare queste storie non mi prefiggo tanto di descrivere la compiutezza del percorso clinico – ci soffermeremo insieme su alcuni momenti particolari –, quanto invece vorrei poterle cogliere come un’occasione per riflettere sulla necessità di sviluppare una sufficiente consapevolezza della relazione che lega ogni persona – quindi anche un terapeuta - con la morte e la vita e su come questa possa essere ‘giocata’ anche nella clinica. Nel fare le nostre riflessioni attraverseremo regioni poco frequentate, per la verità, dalla psicologia/psicoterapia; ma io credo che di fronte a un tema così vasto le scienze umane dovrebbero provare a dialogare tra loro con l’umiltà di chi comprende che da soli non si può pensare di esaurire la realtà e complessità dell’umano.
I. INCONTRI CON LA MORTE:
IL CAMBIO DELLE CARTE IN TAVOLA
Scontrarsi con la morte: le ossa rotte
Rita è una ragazza di 20 anni che una sera ha voluto incontrare la morte: per lei questa parte della vita era esaurita. L’ha fatto in un modo violento, per noi, ma sentiva che la decisione doveva essere irreversibile. Si è messa sulla strada di un treno: sapeva che non si sarebbe fermato a chiederle troppi perché. Il treno ha fatto come lei voleva, ma la sua famiglia ancora vive con quei perché ed ogni possibile risposta le appare inaccettabile.
Due genitori e due fratelli più giovani sono rimasti impietriti: i loro occhi e il loro cuore si sono fermati a quel giorno e non trovano una strada per andare oltre. I fratelli, per la verità, ci provano e ci riprovano, ma i genitori sembrano non riuscire a vederli: sono troppo impegnati nella relazione con Rita, come se la tenessero disperatamente per un braccio e la stringessero così forte da non riuscire più a vedere questi altri figli. Né sé stessi. Rita è diventata per loro come uno schermo tra loro e il resto del mondo, uno schermo che lascia passare solo le ombre. La vita continua a proiettare la sua luce, ma lo schermo opaco di questa figlia morta non si lascia attraversare. Così tutti gli altri sono solo ombre che si muovono su di esso, sono come fantasmi che popolano la realtà del quotidiano, e l’energia vitale che li anima non può essere colta. La luce della morte sembra più potente della luce della vita.
Rita, terminata la scuola superiore, si era iscritta all’università e la stava frequentando con buoni risultati. Aveva una grande passione, lo sport, cui ogni giorno riusciva a dedicare parte del suo tempo. Non arrivavano da lei segni particolari di disagio o di sofferenza, o, per lo meno, non arrivavano ai suoi familiari, come non erano arrivati ad un sacerdote, amico di famiglia e suo ex insegnante e confidente. Certe sue chiusure e certi momenti di silenzio solo dopo hanno cominciato ad assumere un senso intelligibile, cui, tuttavia, rimaneva ancora difficile dare un significato così estremo.
I giovani fratelli erano nel gruppo dei loro amici, i genitori al cinema, anch’essi con una coppia di amici, quel giorno in cui lei chiede alla morte di venirle incontro. Solo il frastuono e il rumore dell’inquietudine che attraversa gli abitanti della cittadina in cui vivono richiamano l’attenzione di Luigi e Giuliana quando escono dalla sala. Attenzione che pian piano si carica d’ansia, si colora d’angoscia, fino a diventare dramma. Impossibile, impensabile, ma atrocemente reale. Era l’estate di sei anni fa.
Incontro questa famiglia dopo oltre due anni dalla morte di Rita. Nel frattempo un grave incidente aveva costretto Giuliana, la mamma, a restare completamente allettata per alcuni mesi a causa di fratture multiple in diverse parti del corpo. Solo un lungo ed estenuante lavoro di riabilitazione – coadiuvato dalla presenza e dall’ingegno di Luigi, il marito, che continuamente escogita per lei attrezzi e macchine che ne facilitino il recupero - le consente di riprendere a camminare autonomamente, ma, ancora oggi, con tanta fatica. Dopo più di un anno di questo calvario, quando Giuliana ricomincia a muoversi e riprende il suo lavoro di insegnante, i due coniugi si attivano per una psicoterapia: la morte di Rita, offuscata per il momento dalla necessità di far fronte alla nuova emergenza, ritorna con tutto il peso che porta con sé.
Quando i due coniugi vengono in terapia appaiono come congelati nel loro dolore. La loro relazione si deve continuamente misurare con questa perdita, e ciò si traduce in un groviglio di colpe, sentite come proprie e reciprocamente attribuite. Groviglio così denso che ogni desiderio vitale diventa un pensiero ‘cattivo’, perché sentito come non rispettoso nei confronti di una giovane figlia morta, più ancora, come qualcosa contro di lei.
Perfino i figli devono urlare la loro presenza nel tentativo di essere visti dagli occhi dei genitori. Giuliano, 19 anni, che ora ha iniziato il Politecnico, deve andare in giro con i capelli viola e gli abiti da hippy, deve scambiare la notte con il giorno e assumere atteggiamenti e comportamenti che di qui a poco lo faranno espellere dall’università, lui che fino all’anno prima era stato studente capace e produttivo. Luciana, 21 anni, non ha niente da condividere con i suoi genitori; affabile con gli altri, ma senza più parole in casa.
Questa famiglia è in una fase particolare del suo ciclo vitale, quella che Haley definisce come “l’emancipazione dei genitori dai figli”. “Quando un ragazzo giunge nell’età in cui è naturale che cerchi di lasciare la casa, il ‘problema’ non è il ragazzo in sé, ma la fase critica che attraversa tutta la famiglia; è quindi essenziale prendere in considerazione i genitori perché rappresentano un aspetto fondamentale del problema” (Haley, 1973, p. 241). Questa è una tappa irrinunciabile per tutti gli adulti che si devono misurare con i figli che crescono e che, solo lasciando la casa dei genitori, potranno costruirsene una propria: interna, innanzi tutto, e reale. Ad un certo punto, cioè, i genitori devono lasciar andare i figli per la loro strada e questi devono assumersene il rischio. E’ la dinamica tra il processo di appartenenza e il processo di separazione che permette di costruire un’uscita di casa sufficientemente buona. “Il figlio deve separarsi dalla famiglia, ma deve al tempo stesso mantenere i suoi legami con essa; è questo l’equilibrio che molte famiglie riescono ad ottenere e che attualmente un terapeuta della famiglia cerca di stabilire” (id., p. 54).
Luigi e Giuliana hanno ora due figli di 21 e 19 anni che stanno ‘uscendo’ di casa per i loro studi. Per ora è solo l’università che li fa stare lontani, ma la prospettiva di una separazione più radicale inizia a delinearsi. E questo è già un problema. Naturale, certo, come per tutte le famiglie. Ma in questa famiglia il processo di separazione è ‘inquinato’ da un’esperienza di separazione che non ha ritorno. Rita pure è ‘uscita di casa’ e se n’è andata, ma il suo andare l’ha portata troppo lontano ed ora ogni pensiero di separazione è im-pensabile (non-pensabile) e im-proponibile (non-proponibile).
Per loro, quindi, il processo evolutivo è molto più complesso, perché la morte non ha rispettato i suoi tempi naturali e ne ha alterato il percorso.
Essere vicino a questa famiglia in questo momento del suo ciclo vitale significa per il terapeuta entrare in un pensiero che permetta di guardare ciascuna di queste persone in una fase di grande cambiamento. I due figli devono poter trovare (in loro stessi e nella relazione con i genitori) la forza di uscire e nello stesso tempo riceverne (dai genitori e da loro stessi) il permesso; i genitori hanno bisogno di ritrovarsi tra loro, per ritrovare il loro progetto di coppia e, così, ‘lasciar andare’ questi due ragazzi per la loro strada.
Lasciar andare. Queste parole sono diventate come una password per accedere al mondo di questa famiglia. Lasciar andare Luciana e Giuliano e insieme provare a ritrovarsi come coniugi. Lavoro ‘normale’, dicevo, per ogni famiglia. Ma qui queste parole pesano come macigni: ho usato volutamente le stesse parole, ‘lasciar andare’, per parlare del compito che la vita ha dato a Luigi e Giuliana anche nei confronti di Rita[2]. Se è compito di tutti i genitori emanciparsi dai loro figli, essi, se vogliono vivere, devono ritrovare l’energia per emanciparsi anche da questa figlia, che ha seguito una strada, certo dolorosissima, per loro e per lei stessa, ma la sua strada, quella cioè che lei ha riconosciuto come sua.
In questo compito anche Luciana e Giuliano, i fratelli di Rita, sono accomunati. Essi sono una risorsa per i genitori: richiamandone lo sguardo su di loro ed esigendolo, insieme possono essere d’aiuto ai genitori per ri-scoprire il progetto di vita che aveva portato Luigi e Giuliana a costruire una casa, dentro la quale poi, prima Rita, in seguito i suoi fratelli, nel tempo, sono entrati.
Nel processo terapeutico ci proponiamo[3] di fornire loro l’aiuto necessario a recuperare il progetto di vita che l’intrusione della morte rischia, ora, di occultare ai loro occhi.
L’invasione della morte: niente dia-logo[4]
Elena ha 30 anni. A cinque anni le muore il padre e lei rimane con la mamma e un fratello di poco più grande. La loro vita continua in tre: sua madre non incontrerà un altro compagno nella vita, “non era nei suoi progetti”, dice Elena. Nella primavera di tre anni fa si sposa con Gianni, quattro anni più di lei. Ma “i fiori per il matrimonio sono diventati i fiori per il funerale” dice, con un sorriso che, quando lo ricevi, fa stringere il cuore. Arriva la data del matrimonio. Quattro giorni prima muore improvvisamente la mamma di Gianni (il padre gli era già morto qualche anno prima). “Che facciamo? Facciamo il funerale, poi il matrimonio. Come si faceva a rimandare tutto?”. Venti giorni e si sposano.
L’anno dopo. Maggio porta Alba in casa: “... una bambina meravigliosa”. Questa famiglia, felice nonostante tutto, sta bene; il lavoro c’è, un po’ faticoso perché li costringe in un primo tempo a stare separati per tutta la settimana. Decidono di cambiare: spostamenti continui, Ancona, Milano, Roma. Ma loro si vogliono bene e questo è sufficiente per affrontare i disagi e sentire che non sono poi così pesanti. Novembre: “Finalmente a casa. Un po’ di quiete in più non guasta mai!”. Alba cresce bene ed è serena, Gianni lavora, Elena ha lasciato per il momento il suo lavoro per dedicarsi alla bambina che ancora ha solo sei mesi. Non ci sono problemi economici, quello di Gianni è un buon lavoro.
Dicembre. Due giorni prima di Natale. Gianni torna da una partita di calcetto giocata con gli amici, era la sua passione. E’ stanco, si siede sul divano prima della doccia. Rimane lì e non si rialzerà più. Dai sanitari del 118 solo due parole “è morto”.
Elena non piange. Tutti le sono vicini, gli amici, la mamma, il fratello. Tutti piangono e sono disperati, per lei, per la bambina e per loro stessi. “Tutti si meravigliavano che io non piangevo… Perché dovevo piangere? Certo che stavo male. Ero preoccupata per Alba che doveva crescere senza padre”.
Elena entra nel mio studio un anno e mezzo dopo la morte di suo marito. Viene perché una sua amica, psicologa, è preoccupata per lei e tanto insiste che, alla fine, chiede un appuntamento. Dalla morte di Gianni lei e la bambina vivono in casa di sua madre: sono loro tre, il fratello si è sposato e vive poco lontano. Arriva il giorno del primo appuntamento e ci tiene a dire che lei, però, sta bene e che la sua preoccupazione è per la figlia “… che avrà dei problemi a crescere senza padre?”. Che domanda per una ragazza che senza padre ci è dovuta crescere! Con questo pensiero, tuttavia, permette ai suoi occhi di diventare un po’ più lucidi. Le parlo di coraggio per sentire il dolore: non ci aveva mai pensato, dice.
La terapia è iniziata appena da qualche mese, per di più gli impegni di lavoro la costringono a tempi lunghi tra una seduta e l’altra e non le è facile entrare in un pensiero di continuità. Ma quale disagio oggi la disturba al punto da non rifiutare del tutto l’ipotesi di prendersi un po’ cura di lei? Lei vive in un piccolo centro dove tutti si conoscono, e ogni volta che esce sente che gli altri la guardano “con compassione”, come se dicessero “poveretta, cosa le è successo!”. Questo non lo manda giù. Non si sente libera di uscire come vuole, di vestire come vuole, di stare con gli amici che vuole… Vorrebbe scappare da quel paese. La stessa situazione si presenta poi nel lavoro. L’azienda in cui lavorava suo marito le ha offerto di prenderne il posto (ad un livello di responsabilità inferiore, non avendone la dovuta esperienza). Anche lì, ogni volta che un cliente o un collega sa della sua storia, lei legge nei loro sguardi il solito “poveretta, cosa le è successo!”. Non ne può più. “Io sono Elena. Punto. Non sono ‘Elena di Gianni’. Pensi che anche gli amici, quando parlano di me dicono ‘Elena…’ ‘quale Elena?’ ‘Elena di Gianni!…’. Non ne posso più”.
Da un po’ stiamo provando ad ascoltare il suo dolore, quello che finora è potuto uscire solo sulla strada della ribellione agli atteggiamenti degli altri. Qualche momento, accompagnati dal silenzio, ascoltiamo il pianto del suo cuore, anche se, ancora, non ha trovato la strada per uscire. Almeno un po’. I suoi occhi non lo lasciano passare, né la sua parola.
Una domanda, un giorno, siamo riusciti ad ascoltare. Ci chiedeva che senso avesse tutto quanto le stava capitando. E’ una domanda appena sussurrata. A me e a lei, però, è arrivata. Anche se tenue, bisbigliata, timorosa di farsi sentire, penso che, se saremo capaci, lei ed io, di sintonizzare i nostri orecchi su di essa, questa domanda ci indicherà la strada per prenderci cura di una ragazza che a soli trent’anni ha visto il suo campo invaso dalla morte. Finora non ci ha voluto mai parlare: nessun dialogo con colei che le aveva portato via quanto la vita le aveva data di più prezioso, per di più, nei momenti più sbagliati: suo padre, quando era ancora una bambina, la madre di Gianni quando dovevano sposarsi, il marito, infine, quando avevano appena cominciato a costruire la loro casa.
Come si può dialogare con chi arriva e distrugge tutto, senza alcun rispetto per quanto stai costruendo?
Ora Elena, da tre mesi, è andata a vivere da sola con sua figlia. “I primi giorni che tristezza… Alba voleva tornare dalla nonna. L’ho portata a dormire con me… Lo so che non va bene! Non dica niente… Ho paura di avere sbagliato tutto”. Dopo un mese comincia a sentirsi a casa sua, così la bambina. Anche sua madre sta accettando che questa figlia dovrà vivere la sua vita. Da sola o con un nuovo compagno, ma non potrà continuare a fare per sempre la figlia…
Ieri la seduta. E’ il compleanno di Gianni. La mattina passa al cimitero poi va al lavoro. Nel pomeriggio ci incontriamo. “Perché non parliamo un po’ di Gianni?” le chiedo; “Tanto non c’è niente da dire”. Silenzio. Mi parla delle difficoltà nel lavoro: sembra che il budget sia molto lontano da quello programmato. E’ un problema serio. Dopo un po’ provo a far rientrare Gianni tra noi. Finalmente accetta di parlarne. “Gianni era il massimo, su tutto. Io non voglio parlarne. Per me è chiuso. Tanto che c’è da dire?”.
Con la morte non c’è da dire niente.
Dialogare con la morte: tra madre e figlia
Antonella è una signora di 40 anni, sposata, con una figlia di 15. All’età di otto anni lei perde la mamma; ricorda che negli ultimi giorni di vita la madre diceva che il suo desiderio più grande era che anche sua figlia potesse morire insieme con lei. Antonella non capiva perché, anzi lei ricorda che questo la faceva intristire… “Solo dopo - dice - ho capito perché mamma voleva che io me ne andassi insieme con lei”.
Questa bambina, crescendo, ha dovuto subire le attenzioni di suo padre che aveva già fatto la stessa cosa con le figlie più grandi; poi di suo fratello; poi ancora del marito di una sua sorella che l’aveva presa con sé proprio perché sapeva il comportamento del padre. La vita di Antonella, in realtà, non è stata per niente facile: il collegio, questi uomini della famiglia che approfittavano di lei. Tutto questo con quanta fatica per costruire un’immagine di sé con qualche elemento positivo, nonostante tutto… Si è sposata, ma anche nel matrimonio non ha potuto trovare un compagno che fosse capace di esserle vicino con quell’affetto che non aveva trovato nella sua famiglia d’origine. Si separano e si rimettono insieme, si separano ancora, poi di nuovo insieme… ma né lui né lei riescono a cambiare.
Ora ha una figlia, 15 anni. Lei sente che in certi momenti in cui lo sconforto riemerge e la tristezza pervade le sue giornate, questa figlia le è di grande conforto. Un giorno mi dice: “Ieri mia figlia mi ha abbracciato e mi ha detto: piccolina mia, non piangere…”. Lei racconta con grande emozione questo momento, poi, come illuminata, dice: “Io penso che mia madre è ritornata accanto a me, rinascendo in mia figlia”.
Io non ho la risposta a questo pensiero. Devo dire che non mi dispiace. Al momento è una delle direzioni che segue la mia ricerca personale. Credo, comunque, che è un pensiero con il quale nella relazione terapeutica si può lavorare se come terapeuta posso accettare 1) di non averne paura e 2) di non dover essere io a deciderne la verità o la falsità.
Ora, però, è importante che il percorso terapeutico aiuti Antonella a cogliere che questo pensiero, oggi, non può farle dimenticare che se anche lei si ritrova in questa continuità di vita tra sua madre e sua figlia, nel suo mondo interno come sul piano della realtà le due persone non possono essere con-fuse. Colei che un tempo è stata sua madre, per tutto il tempo in cui lo è stata, si prendeva cura di lei proprio come madre; nel tempo presente, invece, è lei a doversi curare, come madre, di chi le vive accanto come figlia. Il legame di amore le unisce, ma il tempo ne ha differenziato le funzioni.
Il tempo fa la differenza nelle relazioni: è importante, per la buona salute di entrambe, che i tempi non siano con-fusi.
Dialogare con la morte: diventare madre e figlio
Luciana è una donna di 45 anni che, morendo, lascia Giuliano, il marito, due figli, Nicoletta di14 anni e Giovanni di 8, e sua madre, vedova da dieci anni. Luciana è morta un anno fa per un tumore all’intestino; lo stesso che dieci anni prima aveva fatto morire suo padre.
A distanza di un anno dalla morte di sua madre, Nicoletta ha avuto una crisi che ha fatto sospettare un’epilessia; le prescrivono dei farmaci. Crisi non ce ne sono state più, ma suo padre è molto preoccupato per lei. Gli viene consigliato di far seguire la figlia in psicoterapia. Si consulta con una professionista amica di famiglia – che a suo tempo aveva accompagnato Luciana negli ultimi mesi di vita – che gli suggerisce di pensare ad una terapia familiare. Accetta.
In casa vivono il padre e i due figli; è molto presente, pur non vivendo insieme, la nonna materna. La sua presenza, sempre importante, era diventata ancora più assidua durante la malattia della figlia.
In questa famiglia, ora, si scontrano due pensieri: quello della nonna che vorrebbe parlare di sua figlia: “è un modo - dice - per renderla più presente e per poterla pensare”, e quello di Giuliano che, invece, vuole parlare d’altro. I due figli stanno nel mezzo. Il padre, meno vicino in passato, ma molto presente dalla morte della mamma, è per loro un punto di riferimento importante e significativo. La nonna Marta li ha un po’ cresciuti. Gli impegni di lavoro dei genitori richiedevano la sua presenza: li accompagnava a scuola, li ospitava nella sua casa per i pranzi e per i compiti finché uno dei genitori non ritornava. Tuttoggi, quando il padre non è a casa, Nicoletta e Giovanni mangiano dalla nonna.
Il ciclo vitale di questa famiglia ha i ritmi sballati. La morte ogni tanto fa di questi scherzi. Quando ti ci trovi in mezzo ti sembra di non avere più coordinate di riferimento e il disorientamento diventa totale. “Guardare quel posto vuoto a tavola è qualcosa che ti strappa il cuore”.
Giuliano a cinquant’anni si ritrova da solo. Con due figli e una suocera. La sua famiglia d’origine, genitori e un fratello, viventi, per lui non è mai stata una risorsa su cui contare, nel bene e nel male. Marta, la madre di sua moglie, è stata l’unica nonna per i nipoti e per tutta la famiglia. Ora Giuliano e Marta si trovano su due posizioni divergenti. Lui non esclude la possibilità di incontrare una nuova compagna e non nasconde questo desiderio; per Marta questo significherebbe “far morire ancora una volta” sua figlia. Man mano che la terapia procede, si libera sempre più il campo dalle preoccupazioni per i figli (erano venuti per Nicoletta…) e l’attenzione viene catturata da quest’area di tensione che appare il substrato su cui s’innestano poi gli altri temi di conflittualità.
Nel confronto con la terapeuta[5] sento di dover mettere in campo un lavoro che permetta di ridare un nuovo senso a quanto sta avvenendo. A Marta e a Giuliano ora la vita sta facendo un’ulteriore richiesta: la loro relazione deve entrare in un progetto di trasformazione se vuole innescare un processo evolutivo, per loro stessi e per tutta la famiglia. Quindi anche per i figli. Quando da ragazzo Giuliano ha sposato Luciana, la famiglia di lei l’ha un po’ adottato, come un nuovo figlio. E’ questo, del resto, quanto avviene, di norma, al momento in cui due persone si sposano: ciascuna delle due famiglie accoglie ‘come uno di casa’ il partner del/la proprio/a figlio/a. Ora questo processo di adozione ha bisogno di essere ripreso e rimesso in campo con un’energia che, nella normalità delle cose – quando cioè la morte non entra nei tempi ‘sbagliati’ – non viene richiesta a nessuno. In questa famiglia, invece, l’energia richiesta è di altra dimensione e intensità.
Proviamo a ‘chiedere aiuto’ a Luciana, proponendo in seduta di ‘farla entrare’ in quest’area di conflitto. Sia suo marito che sua madre hanno, ciascuno, delle ragioni da vendere dal loro punto di vista. Se dovessimo chiederle a chi dare ragione, credo che difficilmente lei, pure così geniale e perspicace quando era in vita, ora saprebbe rispondere a questa domanda. Qui portiamo Giuliano e Marta. Luciana, che quando era in vita li ha fatti incontrare, con che animo ora potrà vivere il ritrovarsi causa di conflitto?
E’ un discorso nel quale non fanno fatica ad entrare: la vita-oltre-la-morte è un pensiero che appartiene ad entrambi. Non resta loro difficile, pertanto, immaginare che Luciana possa essere qui, con noi. Non sappiamo il come, ma possiamo sentire che c’è. La sua presenza permette di fare un passo avanti. L’ipotesi che introduciamo e con la quale Giuliano e Marta sono invitati a confrontarsi è che il progetto che la vita pone loro davanti, ora, prevede che ciascuno di loro riprenda e completi quel processo di adozione reciproca[6] che all’inizio avevano avviato. Ora con maggiore intensità. Solo se Marta può guardare Giuliano come un figlio – non soltanto come il marito di sua figlia – riuscirà a comprendere il suo bisogno e il suo desiderio di avere una compagna accanto a sé, senza per questo tradire la memoria di Luciana. Parallelamente solo se Giuliano può guardare Marta come una madre – non soltanto come la madre di sua moglie – riuscirà a farle sentire che il suo bisogno/desiderio di trovare una compagna non è contro Luciana, né contro Marta: per loro ci sarà sempre un posto nel suo cuore, la presenza di Marta, per lui come per i nipoti, sarà una grande risorsa affettiva e l’eventuale nuova compagna non occuperà il posto della madre nel cuore dei figli.
La ‘presenza’ di Luciana, che famiglia e terapeuta si permettono di sentire come una presenza che accompagna il processo terapeutico, diventa come una fonte di energia alla quale si può attingere nei momenti in cui il dialogo e l’incontro tra i mondi di Giuliano e di Marta, come di Nicoletta e di Giovanni, si trovano davanti a difficoltà maggiori e non facili da superare.
II. LA RICERCA DI UN “PUNTO DI OSSERVAZIONE”
1. Ri-trovare il progetto di vita
Mentre ti scrivo queste pagine, il mio pensiero si cerca. Ecco perché la sua espressione è maldestra ed il suo aspetto banale o caotico. Eppure sento che vi sarebbero delle cose da dire sulla gioia (sana) della morte, sulla sua armonia in seno alla vita, sull’intimo legame (e nel contempo sulla separazione) tra Mondo dei Morti e Mondo dei Vivi, sull’unità dell’uno e dell’altro in un medesimo Cosmo.
(Theilard de Chardin, 1974, p. 23)
Il pensiero mutilante
Scrive E. Morin: “Un pensiero mutilante porta necessariamente ad azioni mutilanti” (1990, p. 100). Qual è il mio pensiero, come persona e come terapeuta, di fronte a queste morti e, più ancora, di fronte alla morte?
E’ vero, dal nostro punto di vista la decisione di Rita, la morte di Gianni che lascia, dopo un anno di matrimonio, la moglie e una bambina di 6 mesi, o la morte prematura di Luciana sono fatti assurdi e inaccettabili per la nostra logica. Se la vita ci pone davanti a questi fatti, però, dobbiamo chiederci quanto il punto di osservazione nel quale ci sentiamo collocati ci permette di coglierne il senso e quanto può configurarsi come l’unico punto di osservazione possibile.
Una metafora per comprendere. Per scoprire che il pensiero geocentrico non rispecchiava la realtà, il pensiero umano, attraverso la ricerca scientifica, ha dovuto percorrere un lungo cammino, ma non appena ce l’abbiamo fatta a superarlo[7], il mondo ha acquistato una dimensione assai più ampia e il nostro sguardo si è arricchito infinitamente, scoprendosi capace di (= conquistando) un campo visivo prima neanche pensabile. Abbiamo ‘semplicemente’ spostato il punto di osservazione.
Possiamo pensare che anche il punto di osservazione dal quale guardiamo la vita e la morte e la loro reciproca relazione si rifà ad una modalità analoga a quella che guidava il pensiero che collocava la terra al centro dell’universo? A quello sguardo, cioè, che non era capace di trascendere la centralità dell’osservatore e confondeva l’apparenza (= ciò che i sensi coglievano) con la realtà?
Mi chiedo se non contribuisce a rendere ancora più difficile guardare la morte il fatto che la psicologia sembra aver timore di guardare la vita e si affida ai suoi strumenti di osservazione senza accorgersi che sta correndo il rischio di frantumare il soggetto vivente dentro schemi di riferimento che fanno perdere la complessità dell’essere persona. Riflettendo sulla difficoltà della psicologia a cogliere nel suo campo visivo l’unicità e irripetibilità dell’individuo, Hillman sottolinea come “i suoi metodi di analisi frammentano quel puzzle che è l’individuo in fattori e tratti di personalità, in tipologie, in complessi e temperamenti […]. Le scuole di psicologia più rigorose espellono addirittura il problema dai loro laboratori, scaricandolo sulla parapsicologia: che studi pure i casi di ‘vocazioni’ paranormali. Oppure lo spediscono in qualche avamposto della ricerca nelle remote colonie della magia, della religione e della follia. Al massimo – cioè al minimo – la psicologia spiega l’unicità di ciascuno ipotizzando una distribuzione statistica delle probabilità” (Hillman, 1996, p. 26-27).
Credo che il punto sia la non ancora sufficiente riflessione sulla necessità di ampliare il nostro punto di osservazione anche attraverso l’attivazione, o ri-attivazione, di un dialogo sia tra le diverse scuole di pensiero appartenenti alla psicologia, sia con l’apertura ai contributi che altre scienze (la filosofia, la teologia, l’antropologia culturale, ad es.) sono in grado di apportare nella ricerca sulla comprensione del senso del vivere-e-morire come dimensioni che definiscono l’uomo nella sua complessità.
“Vai verso te stesso” - Il permesso di morire
L’irruzione della morte cambia le carte in tavola. Con le carte cambiate, il gioco non è più quello di prima. Ma il gioco non si ferma, perché la vita non si ferma. Il passaggio della morte crea confusione, ci conduce nel mare dell’incomprensibile. Immersi in questa nebbia rischiamo di perdere l’orientamento e di non sapere più in che direzione camminare. Non solo disorientati per il colpo subito, ma disorientati perché la morte che invade una relazione tanto importante ci pone di fronte al limite dell’impotenza e ci conduce in un’area che è come una zona minata: l’area dei sensi di colpa.
Colpa per non aver tutelato a sufficienza la persona che muore, per averla lasciata morire e per non aver fatto tutto, il possibile e l’impossibile – soprattutto l’impossibile –, per impedire che la morte avesse il sopravvento. Colpa per la distanza incolmabile tra l’ideale dell’io, onnipotente, e la realtà del limite. Frequentare questa zona minata è qualcosa che ci accomuna tutti: ognuno di noi sa (o per lo meno cerca di sapere) dove questa si colloca e quanto vasta essa sia e come il suo richiamo sia potente in certi momenti della vita.
Luigi e Giuliana, i genitori di Rita, si rimproverano per quei progetti che non sono riusciti a realizzare, per le inevitabili inadeguatezze che ogni genitore sente nei confronti dei propri figli, ma si rimproverano ancora di più per non essere stati capaci di impedire a Rita di morire. E di fronte al suicidio di una figlia, o di una sorella, tutte le aree diventano minate ed ogni passo diventa proibito. Le colpe, per quanto si è fatto o non si è fatto, per quello che si è riusciti a vedere e per tutto quanto non abbiamo visto, pervadono ogni momento ed ogni pensiero… Perfino l’aiuto che i due coniugi possono scambiarsi diventa proibito, perché è come se in quel momento di conforto dimenticassero quella figlia che ha deciso di morire. La fatica che questa famiglia ora deve affrontare è quella di provare a lasciar andare Rita, a poterle dare il permesso di percorrere la sua strada, quella strada che lei ha deciso di intraprendere, anche se né la decisione né la strada possono essere condivise. Eppure questo permesso è un permesso necessario per lei e per loro stessi. Costruire questo permesso significa attivare quel processo che ci avvicina alla possibilità di perdonare a) alla persona che muore per averci lasciati nel dolore che riempie il vuoto della sua assenza e b) a noi stessi per non essere stati capaci di impedirle di morire. Perdonare a Rita per averli lasciati e per averli lasciati in un modo così inaccettabile e incomprensibile[8] è la strada per arrivare a perdonare a sé stessi.
Perdonare[9] significa ritrovare il dialogo con la morte e con la vita.
Ciascuno di noi è all’interno di un progetto di vita che, in modo più o meno consapevole ed esplicito, proviamo a dirci. Progetto di vita che non significa soltanto decidere ‘cosa fare da grande’ o se e con chi sposarsi o se fare dei figli oppure no. Significa, in senso più profondo, provare a dirsi il senso che ha per me vivere questa vita.
Giuliana, la mamma, aveva comprato, insieme con Rita, un vestito nuovo perché di lì a qualche mese lei e suo marito avrebbero festeggiato il 25° di matrimonio. Il vestito è rimasto dentro la scatola e non è potuto uscire di lì se non nella stanza della terapia, dopo oltre due anni. Era come se per loro non avesse più senso la loro coppia, gli altri due figli, quella ‘casa’ la cui costruzione era parte del loro progetto. Certo, la morte di Rita è una ferita enorme, incomprensibile dicevo, ma Rita è solo una parte di quella casa, non possiamo darle il peso di essere tutto. Non sarebbe giusto per lei, per le sue spalle, ma non sarebbe giusto neanche per tutti gli altri che quella casa la abitano.
Recuperare quel progetto significa poter vivere loro e poter lasciare andare Rita per la sua strada, proprio come dovranno fare per Luciana e Giuliano il giorno in cui lasceranno la casa dei genitori per farsene una propria: anche questi due figli hanno bisogno di essere visti per loro stessi, altrimenti la con-fusione con la sorella morta può diventare per loro un impedimento a vivere.
Tutto questo mondo è l’area dell’intervento terapeutico: perdonare a sé stessi per poter perdonare a questa figlia di averli messi di fronte al rischio di fallimento per quel progetto di vita che li vedeva accomunati.
Elena, che perde il padre a 5 anni, la madre del marito quattro giorni prima del matrimonio, il marito dopo appena due anni di convivenza, ha troppi sospesi con la morte. Un giorno racconta un sogno. E’ per strada e mentre cammina con sua figlia vede venire verso di loro Gianni. La guarda ed è serio, non le dice niente, poi guarda Alba e si mette a giocare con lei. Non ricorda altro. “Se Gianni è serio e non mi parla vuol dire che ce l’ha con me” “Perché dovrebbe avercela con lei?” “Non so. Forse dovevo fare qualcosa… che non ho saputo fare… per non farlo morire” “Cosa?” “Non so. Per esempio se non lo mandavo a giocare quel giorno, chi sa…”. Ma è Gianni che ce l’ha con Elena o è Elena che è arrabbiata con Gianni, che se n’è andato, morendo, senza neanche salutarla?... Di qui, però, ora sembra non si possa passare. Un’altra strada, tuttavia, appare al momento percorribile: quella di Alba, la sua bambina, che non ha più il padre. Di questo si può parlare. Possiamo così incontrare Gianni, lo incontriamo come padre. Da qui potremo muoverci per incontrarlo come marito, cosa che ora non è pensabile: tanto è il dolore, che non ci si può, per ora, neanche avvicinare. Gianni padre è comunque una strada per incontrare anche il dolore di Elena figlia, pure questo ancora negato. Poter dare la parola al dolore che lei colloca in Alba è un primo passo, importante però, perché è l’inizio della strada che ci condurrà a sciogliere un legame che in questo momento rischia di cementificare ogni possibile movimento. Aprire il dialogo con la morte significherà ri-aprire il dialogo con la vita. E viceversa.
Lasciar andare Rita, lasciar andare Gianni, lasciar andare Luciana, lasciar andare una madre che muore quando hai solo otto anni, è un compito che la vita assegna alle persone che restano perché possano continuare a vivere. Ma essere lasciati andare per la propria strada è una necessità anche per coloro che ‘se ne vanno’ (non diciamo così?). Amare una persona che muore – qualunque sia il momento e il modo in cui lascia questa dimensione della vita –significa poterle dire: “Va’ verso te stesso[10], tu non ci appartieni. Sia benedetta la vita che ci ha consentito di camminare insieme. Non fermarti di fronte al dolore tuo e nostro, anche se esso è grande e in questo momento ci sommerge. Va’ per la tua strada, noi ti siamo vicini, mentre continuiamo a percorrere la nostra…”
Questo è il pensiero che mi guida nelle mie relazioni personali e affettive, quando la morte, pur non invitata, decide di intromettersi. Ed è questo stesso pensiero che mi accompagna nell’incontro professionale con le persone e le famiglie che si trovano a dover fare i conti con la perdita di un congiunto. Aiutare le persone che restano a lasciar andare la persona che muore, perché ciascuno – chi resta [in questa dimensione della vita] e chi se ne va [da essa] - possa vivere la propria libertà di camminare verso sé stesso, che significa ‘continuare nel suo progetto di vita’.
Una tribù degli Indiani d’America canta:
“Addio, figlio.
Le tue mani
non accarezzeranno il nostro viso,
mai più;
non ci saranno più piccole impronte
sulla terra umida
intorno a casa nostra.
Stai per compiere un viaggio,
un lungo, lungo viaggio,
e devi andare solo:
nessuno di noi può accompagnarti
nel regno degli spiriti. […]
Possano gli spiriti aiutarti
fino alla fine del tuo viaggio.
Così lunga è la strada che hai davanti,
e sono così piccoli i tuoi piedi!
Addio” (Natives, 2005, tribù Wintun).
La terza dimensione
E’ ormai un dato acquisito dalle scienze mediche e psicologiche come non si possa ridurre il dolore dell’anima, come pure la gioia o la felicità, ad un’alterazione o ad uno squilibrio nei neurotrasmettitori. A questo punto, però, un rischio si avvicina: una volta superato il pensiero che pretende di esaurire la realtà dell’umano alla dimensione biologica e accettata la necessità di comprendere l’aspetto psicoaffettivo come dimensione che, pur ad essa strettamente collegata, tuttavia la trascende, il rischio ora è di fermarci ancora una volta, per il timore di dover prendere in considerazione un’ulteriore dimensione, quella spirituale, che pure ci appartiene e ci definisce.
Non è infrequente che negli incontri con amici o colleghi, perfino negli incontri ‘ufficiali’ come congressi, seminari, convegni di studio, emerga il timore di riconoscersi in questo processo di ricerca e timidamente si cerchi di scappare di fronte a questa parola, che ci appartiene come umani, che si misura con il desiderio (speranza, certezza, illusione?) della vita-oltre-la-morte. Eppure la storia ci evidenzia con buona chiarezza il fatto che da sempre l’uomo si prende cura dei propri morti; un’azione questa che ci appartiene e ci differenzia dalle altre specie viventi. Il bisogno di dare una sepoltura accomuna tutte le culture e tutte le civiltà e lo ritroviamo presente in ogni epoca storica. I riti sono diversi, le modalità cambiano nel tempo, ma tutti sembrano dire un medesimo duplice pensiero: 1) alla persona che muore va garantito un luogo e un tempo per proseguire la sua strada, perché 2) la vita e la morte non sono realtà che si negano a vicenda, sono soltanto modi diversi in cui l’esistere si manifesta. Le piramidi, le catacombe, i roghi, i templi, i cimiteri, ecc. dicono tutti lo stesso discorso: la vita non finisce con il momento della morte, essa si trasforma. Pur nell’emergere delle differenze quando cerchiamo di guardare a questa trasformazione per darle un nome e delle forme, questa certezza sembra accomunare le civiltà e le culture. Eppure il nostro pensiero, che appartiene più a quella parte del mondo che definiamo ‘occidentale’, che ha saputo costruire un pensiero scientifico di grande valore, una tecnologia che ogni giorno ci sorprende per come riesce a potenziare le nostre capacità, ora si misura con il rischio di vedersi ridurre il campo visivo e di ritrovarsi dentro un’ottica “parcellizzante”[11].
Dimensione spirituale[12], dicevo, che significa ‘semplicemente’ permetterci di ascoltare la domanda più profonda e più intima che abita la nostra mente - e il nostro cuore - la domanda sul senso del vivere e del morire. Ascoltare la domanda, non necessariamente avere la risposta.
Nel nostro mondo occidentale sembra aver contribuito a rendere ancora più difficile il tenere aperta questa domanda il fatto che spesso abbiamo con-fuso ricerca spirituale e adesione ad un credo religioso, o, più ancora, ricerca spirituale ed appartenenza ad una chiesa. Quasi che fosse appannaggio esclusivo dell’una o dell’altra religione il coltivare la dimensione spirituale nella vita. Certo, una religiosità autentica non può prescindere dalla spiritualità, ma non è l’appartenenza ad una chiesa che ne garantisce la presenza nella nostra vita. Spesso, anzi, aderire ad una religione, appartenere ad una chiesa, rischia di tradursi in una sorta di impegno/preoccupazione nell’essere fedeli a regole, riti e tradizioni la cui origine è fuori da noi, piuttosto che in un atteggiamento di ascolto del nostro mondo interiore e del desiderio che lo anima.
Ritengo importante questa riflessione, perché l’aver avvicinato a questa dimensione della ricerca la parola ‘religione’ - a volte, appunto, identificandola, altre, comunque, con-fondendola - di fronte a questa parola siamo andati in fibrillazione e ce ne siamo dette di tutti i colori: abbiamo parlato di “oppio”[13], di “illusione”[14], di “alienazione”… Quasi che un qualche ‘padrone’ o ‘padre castrante’ possa appropriarsi di noi stessi e toglierci la libertà di pensare e di agire, la libertà di vivere.
E’ vero, le religioni tendono di frequente a definire sé stesse come portavoce di tutta l’umanità in una visione antropologica univoca, tendono cioè a ‘proporre’ la propria visione dell’uomo e della vita come l’unica visione possibile, al punto da rischiare di non saper cogliere il valore della libertà dell’uomo, che è capacità di porsi di fronte alla contraddizione e di misurarsi con il limite. Il problema con il quale dobbiamo confrontarci, però, è che per paura di trovarci alienati e privi di questa libertà ci siamo smarriti, abbiamo smesso di ascoltare il nostro desiderio (da non confondere con i bisogni), ci siamo aggrappati a qualcosa fuori da noi e abbiamo tolto dignità alla dimensione spirituale della ricerca – la ricerca sul senso del nostro essere nel mondo, sul senso della vita e della morte.
Possiamo fare un’altra osservazione, non ampliabile in questo contesto, ma utile per una riflessione. Se da una parte possiamo dire che la presenza della dimensione religiosa nella vita amplia l’orizzonte dell’uomo credente, collocandolo in una dimensione di ricerca e di tensione verso una relazione consapevole di Amore con il suo Creatore, fonte e origine della Vita[15], dall’altra, il rischio di con-fonderla o di identificarla con una serie di norme e di tradizioni rischia non solo di impoverire la religiosità stessa, ma perfino di rendere più difficile dare respiro alla dimensione spirituale[16] della vita.
“Se siete religiosi – sono parole di uno sciamano pellerossa - potete interpretare le Sacre Scritture e citare la Bibbia; ma esiste un altro aspetto di questa vita e questo è il sentiero che i nativi americani chiamano ‘la strada rossa’: la strada che conduce alla vita, la strada della spiritualità, la strada dello spirito” (Bear Heart, 1996, p.162). La ricerca spirituale, dunque, appartiene a credenti e a non-credenti[17], perché la dimensione spirituale della vita ci appartiene come essere umani, come appartenenti, cioè, ad una specie che, avendo raggiunto il livello della consapevolezza di sé, 1) si chiede quale sia il senso del nostro essere nel mondo e 2) vive il desiderio di sentire l’appartenenza al fluire della Vita.
La mia sensazione è che dobbiamo misurarci costantemente con un pericolo, quello di ritenere che la ricerca spirituale non sia guidata da un pensiero forte, quindi razionale, quindi degno di essere pensato. “Il dramma dell’uomo contemporaneo non è la castrazione (la repressione) della sessualità o dell’emotività, ma la castrazione e la repressione della dimensione spirituale dell’essere umano” (De Hennezel 1997, p. 48). Scrive E. Morin: “Io credo che la vera razionalità sia profondamente rispettosa dei misteri” (1990, p. 120). Ritengo che possiamo dirci d’accordo nel dire che non c’è un mistero[18] grande, quindi importante da sondare, che ci riguarda così da vicino, più di questo: la ricerca del senso della vita, perché io sono nel mondo.
“Vai verso te stesso” - Il permesso di vivere
Se è vero che non possiamo incontrare il dolore altrui senza permetterci di incontrare il nostro, altrettanto dobbiamo dire come per incontrare il progetto di vita di un altro essere umano e aiutarlo nella com-prensione e nella realizzazione di esso, sia necessario poter incontrare il nostro. Abbiamo bisogno, cioè, di attivare quel processo di dis-velamento a noi stessi del senso del nostro essere nel mondo, uomo o donna fra gli uomini e le donne, nell’universo dell’esistenza.
In altre parole abbiamo bisogno di procedere sempre più verso la conoscenza di quel compito che ci siamo assunti, o ci è stato assegnato – qui i nostri pensieri possono preferire l’una o l’altra prospettiva, anche se il pensiero sistemico al quale ci richiamiamo aiuta a cogliere che questa duplice formulazione non è che una semplice differenza di punteggiatura – quel compito, dicevo, che aspetta di essere ‘fatto’ dal momento che abbiamo deciso di entrare in questa dimensione della vita. In un linguaggio più psicologico possiamo dire che abbiamo bisogno di esplicitare con noi stessi - cioè di poterci avvicinare sempre più alla consapevolezza di - quali sono i valori e i disegni che ci guidano nelle scelte del quotidiano e il progetto più ampio dentro il quale queste si collocano.
La fisica ci insegna che perfino una molecola, un atomo, una particella subatomica sono essenziali per l’equilibrio dell’universo: essenziali significa indispensabili, non superflui. Come posso non pensare e non sentire che la mia presenza è essenziale per l’equilibrio e l’evoluzione dell’universo? Ecco che ci ritroviamo, pur essendo passati per un’altra strada, di fronte al “paradosso dell’essere umano: un esemplare fra miliardi di altri esemplari della stessa specie, ma, nel contempo, assolutamente unico” (Von Franz, 1970, p. 109).
Pensiero ripreso, in un contesto ancora altro, nella lettera che Paolo di Tarso scriveva ai cristiani di Corinto nel I sec. d.C.: “Riguardo ai doni dello Spirito[19] non voglio che restiate nell’ignoranza. Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito e a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (Bibbia, 1 Co 12, 1.4.7). Scrive Hillman “Il tema della vocazione a un destino individuale non c’entra con il conflitto tra scienza senza fede e fede ascientifica. L’individualità rimane di diritto argomento della psicologia, di una psicologia memore del suo prefisso, la psiche, e della sua premessa, l’anima, cosicché la mente può spostare la propria fede al di fuori della religione istituzionalizzata e praticare la puntuale osservazione dei fenomeni al di fuori della scienza istituzionalizzata” (1996, p. 27).
Linguaggi diversi e contesti diversi – la fisica, la psicologia analitica, un testo sacro -, ma tutti ci riportano alla necessità, per ciascuno di noi, di misurarsi con la ricerca del senso del vivere-e-morire, in altre parole con la necessità di incontrare il nostro progetto di vita.
Già Platone, riprendendo il mito di Er[20], ci propone l’idea che l’anima entra nel mondo con un progetto da realizzare. Hillman, richiamandosi a questo pensiero, con la sua “teoria della ghianda”, scrive: “io e voi e chiunque altro siamo venuti nel mondo con un’immagine che ci definisce” (1996, p. 27). “Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra […] Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta direttamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile è perché ho dimenticato” (id., p. 23).
Bettelheim, “studioso di psicoanalisi e seguace di Freud”, si dice “ben consapevole che qualunque tentativo di trovare il senso della vita è in realtà in misura notevole una proiezione di significati sulla vita. Ma questo può avvenire solo quando e nella misura in cui un individuo è in grado di trovare dentro di sé dei significati […]. Bisogna investire la vita di significato, per poterne poi estrarre un senso” (1952, p. 46).
Scrive Elisabeth Kubler-Ross, una psichiatra che ha speso la sua vita lavorando con i malati terminali e con gli operatori che quotidianamente incontravano le persone in questa difficile fase del ciclo vitale: “Tutta la vita è una scuola. […] Si viene al mondo, tra le altre cose, anche per aiutare gli altri e per contribuire alla loro crescita interiore. Prova a pensare ai bambini che nascono con una malattia o un’anomalia e vivono, che so, due anni. Non hai idea di quante persone si lascino commuovere da questi bambini e quanto possa imparare da loro, dalla loro esistenza, la gente. Forse è questo lo scopo della brevità della loro vita. Si pensa spesso che la vita di un bambino malato, di un bambino Down non sia degna di essere vissuta e che, perciò, potrebbe essere troncata con un farmaco: perché farli soffrire invano? Tuttavia bisogna chiedersi: dove andrebbero a finire i nostri maestri di vita? Se si ritiene di dover vivere semplicemente per diventare ricchi, per avere successo, per ingozzarci di cibo, ecc. Tutto dipende dal punto di vista” (1993, p. 27).
Brian Weiss, punto di riferimento per l’ipnosi regressiva, ponendosi dal punto di vista della persona sofferente, scrive: “Il cammino spirituale, non c’è dubbio, viene accelerato con il superamento degli ostacoli. Difficoltà apparentemente insuperabili come gravi malattie psichiatriche o handicap fisici possono dare adito ad un progresso, non ad un regresso. A mio avviso sono spesso le anime più forti a scegliere i carichi onerosi che offrono maggiori possibilità di crescita” (1992, p. 147).
Questo punto di osservazione non è lontano dalle parole di Gesù di Nazaret “Quello che avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me” (Bibbia, Mt 25, 40). I “fratelli più piccoli” sono le persone più insignificanti dal punto di vista sociale e culturale, più emarginate o disgraziate, quelle cui la vita ha riservato una dose di sofferenza assai pesante.
Riferendosi alla sua esperienza clinica, Weiss dice ancora che durante la regressione si rievocano le esistenze più difficili, “quelle più tranquille, i periodi di riposo, sono raramente significative” (1992, p. 147). Pensiero molto antico se già duemilaquattrocento anni fa Qoelet scriveva: “Insegna più la sofferenza che l’allegria” (Bibbia, Qo 7,3). Non è così lontana un’indicazione che dà Gesù a chi gli chiede cosa fare per progredire nel proprio cammino spirituale: “Chi vuol venire con me – dice – non metta sé stesso al centro delle proprie attenzioni e viva le sue pene di ogni giorno (lett. ‘prenda la sua croce’); così può seguirmi” (Bibbia, Mt 16, 24).
L’esperienza della psicoterapia ci insegna che se vogliamo incontrare davvero le persone che ci chiedono un aiuto dobbiamo chiederci: “Cosa mi sta dicendo realmente questa persona con quello che mi dice e con quello che fa? In cosa mi sta chiedendo di essere aiutata?”. Se proviamo ad andare ancora più a fondo, credo che vi incontriamo una domanda non troppo dissimile da questa: “Perché mi ritrovo con questa vita così piena di difficoltà?”. Weiss racconta che una sua paziente un giorno gli dice di aver vissuto un’esperienza particolare: aveva visitato il posto dove le anime riposano, riflettono e si rigenerano tra una vita e l’altra[21]; qui l’anima compare di fronte ad alcune guide, fa un esame dell’esistenza appena trascorsa e decide in quale vita riprendere il suo cammino spirituale.
Mi è stato obiettato che parlare di progetto di vita appare essere un discorso fuori campo nell’ambito della clinica psicoterapeutica. E’ vero che non è un pensiero tanto frequentato dai clinici e dai ricercatori della psiche. Già Hillman, per la verità, aveva evidenziato come la psicologia, pur riconoscendo l’unicità e irripetibilità di ciascuno, “quando si tratta di dare conto di questa scintilla di unicità e della vocazione che ci mantiene fedeli ad essa, sembra non saper bene come muoversi” (1996, p. 26). Ritengo tuttavia che proprio per la peculiarità della relazione psico-terapeutica sia irrinunciabile tenere aperta la domanda su qual è il mio punto di osservazione, in quale prospettiva mi pongo rispetto al mio essere nel mondo, inserito nel ciclo della vita e della morte.
Nell’attività di uno psicoterapeuta - e non solo - io credo che questa ricerca, che è vera ricerca spirituale, non può mancare, anzi deve poter trovare uno spazio per essere potenziata come parte integrante del suo processo di formazione continua. Ricerca non significa risposta. Per costruire una risposta non ci basterà una vita… Ricerca significa darsi il permesso di tenere aperta la domanda. La domanda sul senso della vita e della morte e sul senso che ha per me la vita che sto vivendo ora e la morte che incontrerò. Tenere aperta la domanda. Possiamo farlo, ci dicevamo sopra, da credenti o da non credenti: questa è una scelta personale; ma non sarebbe saggio (= sano) non coltivarla. Magari così potremo evitare di sentirci dire dalla nostra anima ciò che Kierkegaard aveva detto di Hegel: “Il Signor Professore sa tutto sull’universo; ha semplicemente dimenticato chi è lui” (Morin, 1990, p. 120).
E’ il tenere aperta la domanda con me stesso che mi permette di incontrare il dolore e lo smarrimento di Luigi e Giuliana e di restare loro vicino nel raccogliere e riaggiustare le ossa rotte dallo scontro con la morte della figlia. La mia vicinanza può aiutarli (con-tenerli) nel loro chiedersi cosa possono apprendere attraverso questa terribile esperienza e come questa può diventare, per ciascuno di loro, un’occasione di crescita nel proprio processo evolutivo. Camminare accanto ad Elena, che troppe volte ha visto entrare la morte nella sua casa durante i suoi soli trent’anni di vita, sento che significa diventare per lei come un punto-luce che la possa aiutare a non perdersi nel[l’inutile] tentativo di negare il proprio dolore e, nello stesso tempo, l’aiuti a ritrovare il senso, per lei, della sua vita.
2. La posizione ‘meta’
Non portare nell’animo l’idea, solitaria,
che la verità sia tua, e che niente altro sia vero
(Sofocle, Antigone, p. 189)
Il ciclo della vita e della morte
Al ciclo della vita e della morte significati diversi l’uomo ha dato nel procedere del tempo e nella diversità delle culture, ma, come dicevo sopra, il pensiero di fondo è unico: la morte - che dal punto di osservazione in cui ci troviamo ora appare come la fine della vita - in realtà può essere disvelata nella sua dimensione di passaggio verso un’altra forma di vita. Parliamo allora di ciclo della vita e della morte o di ciclo delle vite e delle morti. Il tempo che accompagna la vita diventa il tempo per la crescita spirituale.
Consideriamo due pensieri, ora, che, pur avendo origine in due culture diverse e geograficamente e storicamente distanti tra loro, da questo punto di vista tuttavia non appaiono poi così lontani.
Il Buddismo, come l’Induismo o, più genericamente, quelle filosofie o religioni che chiamiamo ‘orientali’ hanno intuito e sviluppato ampiamente questo pensiero verso il quale anche una parte del nostro mondo si sta avvicinando. Dice la Bhagavad-Gita: “All’istante della morte l’anima prende un nuovo corpo, così naturalmente come essa è passata, nel precedente, dall’infanzia alla giovinezza alla vecchiaia… L’anima è indistruttibile, eterna e senza dimensioni; soltanto i corpi materiali che assume sono soggetti alla distruzione” (Bhagavad-Gita, II, 13.18).
Il Cristianesimo, che ha informato di sé la cultura ‘occidentale’, fa della relazione vita-morte il centro del proprio messaggio, l’elemento costitutivo. La figura di Gesù di Nazaret non sarebbe così sconvolgente se la sua storia terminasse con la sua morte. Sarebbe sì un grande maestro per l’umanità, ma non troppo diverso da altri maestri spirituali che sono vissuti prima o dopo di lui (il Buddha, Confucio, Maometto, solo per nominarne alcuni che hanno avuto ed hanno ancora un gran numero di discepoli…).
Ciò che sconvolge e ti pone di fronte al dilemma, inquietante, se credere o no è il fatto che lui, dopo aver attraversato il ciclo della vita e della morte - come tutti del resto -, è risorto. La sua vita si è trasformata. La risurrezione è ciò che sconvolge gli uomini suoi contemporanei, i suoi amici e i suoi avversari; ed è ciò che sconvolge le menti degli uomini che sono venuti dopo, noi compresi. Questo fatto è incomprensibile per la nostra mente, perché oltrepassa la dimensione dell’esperienza. Il nostro punto di osservazione è di chi è completamente dentro il cerchio vita-morte, potremmo dire ‘dentro il sistema’ e, stando dentro, non può avere esperienza dell’essere dentro e dell’essere, contemporaneamente, fuori.
Per il cristianesimo l’uomo entra nella storia di Gesù di Nazaret - che per i credenti diventa il Cristo[22] - ritrovandovi la propria storia, nel senso che ogni persona è chiamata a percorrere lo stesso cammino: attraverso l’esperienza della vita e della morte realizza la trasformazione della risurrezione che è pienezza di vita (per il cristianesimo la Pienezza della Vita è chiamata Dio[23]).
Non diversamente nel buddismo. La storia di Siddharta Gautama, chiamato dai suoi discepoli il Buddha[24], è la storia di ogni uomo che, attraverso il ciclo delle vite e delle morti, compie il suo viaggio verso l’illuminazione che è la pienezza della vita. Ogni essere vivente percorre, attraversando il medesimo ciclo, la stessa strada fino a trovare il ‘Buddha che è il lui’.
Ho fatto cenno a questi pensieri non certo per proporne l’adesione, all’uno o all’altro, ma solo per evidenziare come, pur in ambiti così lontani nello spazio-tempo, la domanda su quale relazione unisca la vita e la morte accomuna culture e tradizioni. La storia del Cristo o del Buddha, su un piano culturale, possono essere viste come paradigma o modello di riferimento. Pur con significati diversi nell’esperienza intrinseca che veicolano, infatti, possiamo tuttavia provare a collocare su piani analoghi queste due parole così ‘incomprensibili’ per la nostra mente e apparentemente fuori tema in un discorso sulla clinica – non certo in un discorso sull’uomo. Resurrezione e Illuminazione. L’una e l’altra parlano di trasformazione, di passaggio da una dimensione di vita ad un’altra: da una vita ancora totalmente inserita all’interno del processo vita-morte, ad una dimensione che dice pienezza, totalità, in altre parole, superamento del limite insito nella relazione vita-morte che definisce la dimensione attuale della nostra esistenza.
Ciò che chiamiamo ricerca spirituale, credo proprio che possa indicare questo processo: essere completamente dentro l’attuale dimensione della vita e, nel contempo, accettare il rischio di collocarsi fuori. Un po’ come – per riprendere la metafora già considerata sopra – ciò che è avvenuto per uscire dal pensiero geocentrico, quel pensiero che a noi, collocati sulla terra, ce la faceva vedere al centro dell’universo, un centro attorno al quale tutto gira e dal quale tutto assume significato. Un pensiero rassicurante, certo, ma il cui orizzonte, una volta superato, ci si è mostrato in tutto il suo limite.
L’inevitabile dolore della morte
A rendere questa ricerca ancora più faticosa, però, sta il fatto che essa potrà, senza dubbio, portarci ad allargare il nostro orizzonte, quindi ad intravedere l’ampiezza dell’universo, ma non ci toglierà il limite dell’occhio umano.
Il dramma della morte, infatti, nessuno ce lo toglie, nessun pensiero può renderlo inesistente o non doloroso. La ricerca che l’umanità ha fatto nei millenni trascorsi - continua a fare oggi e, sicuramente, continuerà a fare nei millenni a venire - esprime il tentativo di trovare un senso alla morte e alla sua relazione con la vita. Per usare un linguaggio che ci è più vicino, potremmo dire che questa si presenta come un sintomo che ha bisogno di essere svelato. Mi spiego. Tutti sappiamo l’importanza del dolore fisico: esso ci indica che c’è qualcosa da risistemare nel nostro organismo per ritrovare l’equilibrio della salute. Così è per il dolore mentale. Sappiamo bene, e dentro questo pensiero proviamo ad accompagnare i nostri pazienti, che non è togliendo un sintomo (con analgesici di varia natura) che togliamo il problema. Possiamo pensare che la morte sia come un sintomo nei confronti della vita? Possiamo accettare la sfida di questo strano sintomo?
Nella clinica e nella ricerca psicoterapeutica i sintomi appaiono come qualcosa di incomprensibile (= che non può essere com-preso) e di misterioso[25], essi sono la ‘porta d’ingresso’ attraversando la quale possiamo entrare per incontrare le persone e per operare, attraverso la ricerca dei significati, lo svelamento del mistero, di quel progetto misterioso, cioè, dell’individuo e della famiglia che non può essere detto se non attraverso il sintomo stesso. Nel momento in cui possiamo restituire la parola alla sofferenza, noi vediamo che pian piano il sintomo perde il suo carico e la sua funzione di canale privilegiato, quando non unico, per esprimere il dolore.
La possibilità che il terapeuta possa essere di buon aiuto nasce dal fatto che egli può collocarsi in una posizione ‘altra’ da quella della persona e della famiglia; il suo punto di osservazione è ‘mèta’ e come tale gli dà la possibilità di oltre-passare il pensiero ‘geocentrico’ dei pazienti e di utilizzare un campo visivo più ampio. Dentro questo campo visivo dovrà accompagnare i suoi pazienti, se vorrà essere loro d’aiuto.
Nel momento in cui cerchiamo di cogliere il senso della morte e della vita, dal momento che ne siamo totalmente dentro, abbiamo anche noi bisogno di porci in un punto di osservazione altro, mèta, un punto di osservazione, cioè, che ci permetta di cogliere in una prospettiva nuova la relazione vita-morte. Credo sia questa l’operazione che l’uomo cerca di fare, quando accetta di muoversi nella ricerca del significato del vivere e del morire.
Tuttavia anche la visione più ampia che possiamo raggiungere nel nostro cammino spirituale non ci toglierà l’esperienza di dolore e il richiamo dell’incomprensione di fronte alla morte. L’essere dentro e l’essere fuori - un ‘fuori’ però visto da chi è totalmente dentro - anche se può indicarci una strada per lo svelamento del senso, non ci toglie il dolore dell’incomprensibile.
Nel suo processo evolutivo Antonella sembra giunta in un punto di osservazione che le permette di rileggere parte della sua storia, ritrovando un po’ di conforto nella vicinanza della figlia che lei ama vedere come un modo nuovo in cui sua madre continua ad esserle vicina. Il punto di osservazione nel quale Antonella si sente collocata è suo, è il risultato oggi della sua ricerca [spirituale]. Le appartiene come un luogo dal quale può guardare la sua storia e, in particolare, l’incontro con la morte che le ha sottratto la mamma in un momento così ‘sbagliato’. Questo luogo, però, se pure appare come una lettura di senso rispetto alla sua vita, non le toglie il dolore di un’esperienza tanto drammatica: non solo per la morte di sua madre a soli otto anni, ma anche per tutto ciò che l’ha seguita. Il dolore di trovarsi ridotta a oggetto di giochi più grandi lei, di attenzioni sbagliate da parte di chi avrebbe dovuto vederla nella sua realtà di bambina bisognosa di affetto e di conforto per contenere la sua sofferenza, rimane con tutta la sua intensità. Tuttavia la lettura che lei riesce a dare, oggi, della sua relazione di figlia con sua madre prima, poi di madre con sua figlia, le consente di guadagnare una posizione mèta rispetto a quella parte della sua storia che l’ha vista incontrare la morte.
Ancora un esempio da uno dei testi sacri dell’umanità. Quando a Gesù di Nazaret dicono che è morto un suo amico, il vangelo racconta che ne rimane molto turbato e piange per il dolore[26]. Eppure la sua anima gli diceva che l’amico Lazzaro attraverso di lui sarebbe ritornato a vivere. Ma le parole della sua anima non sono sufficienti a togliere il dolore di fronte alla morte. Quando poi sta per incontrare la sua morte - che si preannuncia violenta e certamente prematura -, il dramma si fa ancora più forte e il dolore e l’angoscia si somatizzano al punto che la sua pelle trasuda sangue: a dircelo è un medico, Luca, l’autore del terzo vangelo (Bibbia, Lc 22, 44). Se proviamo a rileggere con l’occhio del clinico e con le emozioni del cuore la storia delle ultime ore di vita di questo giovane uomo, poco più che trentenne, così come ce la raccontano i vangeli, sentiremo tutto il dramma di una persona che sta per incontrare la sua morte e combatte tra l’inevitabilità dell’essere ‘dentro’ la dimensione del dramma e la fatica di poter guardare da ‘fuori’, cioè da quel punto di osservazione che ha raggiunto nel suo cammino spirituale. E’ da questo punto, credo, che può dire, nella sua preghiera al Padre, “sia fatta la tua volontà”; ma è l’essere ‘dentro’ che gli fa dire “nella mia anima c’è una tristezza mortale”, lo fa pregare Dio di allontanare da lui questa sofferenza e lo spinge dolorosamente a cercare conforto nelle persone che gli sono vicine[27].
A MO’ DI CONCLUSIONE
Morire o nascere? Quando la clinica cura il terapeuta
Ho più volte sottolineato come un terapeuta – ma sicuramente ogni persona – non possa eludere la domanda di fondo che ci ha guidato in queste riflessioni, domanda che ci si ripresenta costantemente in tutta la sua necessità. Dove sono io? In che relazione sono con la vita e la morte? Domanda che, in ultima analisi, significa: qual è il senso del mio essere nel mondo? O, in altre parole, qual è il punto di osservazione in cui mi trovo collocato e dal quale guardo il ciclo della vita e della morte?
Dicevo già che diversi incontri con la morte hanno segnato il mio tempo. Tempo di vita e tempo di lavoro. In altra occasione[28] ho parlato dell’incontro con la morte di mio padre e di come questa esperienza di vita sia stata chiamata in causa anche nella clinica. E’ con gratitudine che ripenso alle persone, alle famiglie che nel tempo hanno condiviso con me il loro dolore e mi hanno chiesto di condividere un po’ di strada verso l’attivazione di un possibile dialogo con la vita/morte. Sono state per me preziose compagne di cammino verso la possibilità di ospitare, in me stesso, con maggiore coraggio e consapevolezza, queste due dimensioni della vita – il vivere e il morire – e il dialogo che, credo, ininterrottamente le unisce.
Un senso di gratitudine particolare sento nella mia anima verso alcuni ‘pazienti’ che sono venuti da me in un modo un po’… eterodosso. Penso al bambino[29] di Irene, venuto a salvare sua madre da una strada in cui stava perdendo sé stessa; al bambino di Caterina, frutto di un incontro impari tra lei ed un professionista molto più grande di lei, ma più di lei spaventato da quanto stava succedendo; al bambino di Stefania, che sarebbe dovuto rimanere fuori casa, perché per lui non poteva esserci spazio nella famiglia che sua madre aveva già con il marito e gli altri due figli; al bambino di Romina, quaranta anni, finalmente madre, ma che il suo compagno/non compagno, separato/non separato, con tre figli che non sanno con chi devono vivere, tanta è la confusione tra i loro genitori, non ha voluto.
Un pensiero guida costantemente il mio incontro con le persone che si trovano di fronte a questa esperienza. Aiutarle a ritrovare dentro di sé il loro bambino e a poterne sentire la presenza nella loro vita. La presenza, in realtà, c’è già con tutta la sua carica di rimorsi e sensi di colpa; il lavoro che proviamo a fare è quello di trasformare questa presenza quasi persecutoria in una vicinanza che è presenza di vita, meglio ancora, presenza e vicinanza nell’amore. Riattivare un dialogo con il bambino-non-nato. Questo dialogo, guidato e costruito nella relazione terapeutica, permette a questa donna (e al suo uomo, quando si lascia coinvolgere nel lavoro) di sentire che il ‘suo’ bambino è un suo alleato, l’ha già perdonata ed ora le è vicino perché anche lei possa giungere a perdonare a sé stessa. Ogni volta cerco di ascoltare, con ciascuna di loro, la voce di questo bambino perché è senz’altro una voce che ha tanto da dire e da insegnare.
Dice Caterina: “Quando ero lì, in ospedale, ho sentito ad un certo punto che gli stavo dicendo ‘Perdonami se non ti faccio nascere. Ma io ho tanta paura, non ce la faccio da sola…’” e mentre lo dice la nostra stanza si riempie di un pianto inconsolabile. Ascoltiamo il suo pianto. Quando le chiedo se possiamo fare un po’ di posto alla voce di suo figlio mi guarda sorpresa e, man mano che qualche parola tra me e lei comincia ad uscire, si apre alla consolazione e il dolore alla meraviglia. Non aveva mai pensato di poterci parlare e di poter sentire che il suo bambino vorrebbe essere non più il suo ‘persecutore’ che la rimprovera per ciò che gli ha fatto, ma il suo ‘angelo’[30] che le vive accanto e l’accompagna nei giorni della vita.
Questi bambini, che hanno esaurito una dimensione della loro esistenza nei pochi giorni di vita nel corpo-mente delle loro mamme e nel segreto dei loro cuori disperati, devono essere entrati così profondamente nella mia anima da riportarmi, quasi inconsapevolmente, a ritrovare in me la storia della mia nascita. L’attenzione alla voce di questi bambini nati-non-nati, così vicini alla vita e alla morte, credo mi abbia portato a ritrovare la voce di un altro bambino, a me molto vicino anche se lontano nel tempo, me-bambino e la mia vicinanza alla vita e alla morte.
Se pure è pensiero condiviso, almeno da certa parte della psicologia, che “il nostro venire al mondo, cioè il vivere, è subito connotato anche come sensazione di morte” (Fornari, 1985, p. 222), credo di poter dire, ora, che tra me e lei il dialogo deve essere iniziato molto presto, dato che mi è stata vicina fin dai primi momenti di vita, quando ero ancora nell’utero di mia madre.
Cinque anni prima che io nascessi, i miei hanno avuto il loro primo figlio che, però, è rimasto appena un giorno con loro: si sono salutati, poi lui se n’è tornato da dove era venuto. Forse la fatica per nascere era stata troppo grande. Tra lui e me c’è stata la guerra di mezzo: mio padre è stato richiamato e mandato a combattere “per la patria”. Undici mesi dopo il suo ritorno sono arrivato io. La gravidanza è stata buona, ma il timore che anche questo bambino se ne sarebbe potuto andare come aveva fatto l’altro è stato un compagno fedele che non ha mai abbandonato la mente dei miei genitori. L’ombra della morte era lì, accanto e insieme alla speranza della vita.
Quando viene il tempo di partorire, questa volta decidono per il ricovero di mia madre in ospedale. E’ ora di nascere, ma sembra che poi io non ne fossi tanto convinto. Hanno preso il forcipe e ‘con le buone maniere’ mi hanno detto che, dopo tutto, non sarebbe stato così male cambiare ambiente… Mi chiedo se allora anch’io non avessi sentito – come sentivano mia madre e mio padre – che quel canale che dovevo attraversare, pur breve per i testi di ostetricia e per gli addetti ai lavori, era troppo lungo per me e il timore dei miei genitori, che vi avrei potuto fare ‘brutti incontri’, stava sfiorando anche la mia mente.
L’incontro tra questa parte dolorosa della mia storia e il dolore di queste giovani donne e dei ‘bambini’ che le stavano accompagnando ha permesso di riprendere e potenziare un dialogo dove vita e morte possono guardarsi e parlarsi nella reciprocità dell’ascolto. Devo dire che non è stato facile per me e, onestamente, sento che di strada da fare ce n’è ancora tanta… Ma se è vero – ripeto se è vero, perché questa è un’altra dimensione della mia ricerca personale sul senso della vita e della morte – se è vero, dicevo, che noi ci scegliamo il momento, il luogo e le persone per nascere perché vi intravediamo una buona occasione di crescita personale, mi piace pensare che tutta questa fatica non andrà perduta. Questo pensiero mi è di conforto. Come è di conforto pensare che gli incontri e le esperienze nella vita sono come tanti ‘sassolini’ che ci indicano la strada del ritorno… se possiamo condividere che “una persona che muore è come un viaggiatore stanco che ritorna a casa”[31].
BIBLIOGRAFIA
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[1] Un ringraziamento particolare a Gabriella Guidi, direttrice della didattica dell’Istituto di Terapia Familiare di Ancona, per il suo contributo all’approfondimento e al confronto su questi pensieri.
[2] Riprenderemo successivamente questo pensiero, nella seconda parte del capitolo.
[3] La famiglia è seguita da un terapeuta con la mia supervisione diretta.
[4] Dialogo da διά (dià) ‘tra’ e λόγος (lògos) ‘parola’. E’ la parola che può collocarsi nell’incontro tra due soggetti. Condizione prioritaria perché la parola trovi il luogo in cui collocarsi è che ciascuno dei due soggetti riconosca l’altro e dall’altro si senta riconosciuto.
[5] La famiglia è seguita da una terapeuta con la mia supervisione diretta.
[6] Adottare, del resto, è un processo che si fa in due: i genitori adottano il figlio, ma, perché il processo sia sufficientemente sano è altrettanto necessario che anche il figlio possa adottare i due adulti che lo hanno accolto in casa, come genitori (Cardinali, Guidi, 1997).
[7] Solo a titolo di curiosità: l’opera fondamentale di N. Copernico “De revolutionibus orbium coelestium, libri VI” è stata pubblicata a Norimberga nel 1543.
[8] In-com-prensibile = che non (in) si può prendere (prensibile) e fare proprio (con).
[9] Perdonare è parola dal tardo latino: per (rafforzativo) + donare. Nel greco antico ‘perdonare’ è συγγιγνώσκω (synghignòsko), parola formata da συν (syn) = con, insieme + γιγνώσκω (ghignòsko) = conoscere, riconoscere, comprendere; quindi ‘conoscere insieme’, essere d’accordo, essere del medesimo avviso.
[10] Sono queste le prime parole che, secondo la tradizione biblica, Dio rivolge ad Abramo (il grande patriarca dal quale discendono, secondo la tradizione, il popolo ebraico e il popolo arabo): lek-lekà “Vai verso te stesso” o “Vai a te stesso” come traduce Moni Ovadia (2002).
(N.B. Questa citazione, come tutte le altre citazioni che seguiranno, prese da testi che le diverse culture considerano ‘sacri’ (la Bibbia, il Corano, la Bhagavad-gita, ecc.), sono fatte, in questo contesto, unicamente come citazioni di un documento storico-culturale; nel pieno rispetto dello spirito di fede con cui i credenti li leggono, ma indipendentemente da esso).
[11] Scrive E. Morin: “Per tutta la vita non sono mai riuscito a rassegnarmi al sapere parcellizzato, non sono riuscito a isolare un oggetto di studio dal suo contesto, dai suoi antecedenti, dal suo divenire. Ho sempre aspirato ad un pensiero multidimensionale. Non sono mai riuscito ad eliminare la contraddizione interna. Ho sempre sentito che alcune verità profonde, antagoniste tra loro erano per me complementari, senza smettere di essere antagoniste. Non ho mai voluto ridurre a forza l’incertezza e l’ambiguità” (1990, p. 3).
[12] La parola SPIRITO origina dal latino ‘spiritus’ che significa ‘soffio’, ‘respiro’ [“spiritum auferre” (Cic.) significa ‘togliere la vita’, “spiritum ducere” (Cic., Liv.) significa ‘respirare’, ‘vivere’]. La parola ‘respirare’ è parola composta da ‘spirare’ (= soffiare, vivere, respirare) e il prefisso ‘re-’ (che indica il ripetere). Nella lingua greca la parola corrispondente è pneàma (pnèuma) che significa ‘soffio’, ‘soffio di vita’, ‘respiro’, ‘alito’; è parola e concetto diverso da ψυχή (psyché) ‘anima’, speculare [contrapposta] a σώμα (sòma) ‘corpo’. L’ebraico רוה (ruhà) significa ugualmente ‘soffio’, ‘vento’, ‘respiro’, e ‘spirito’. Il sanscrito ‘Prana’ è ‘respiro’ e ‘spirito’, ‘forza vitale’ o ‘energia vitale’.
Senza voler approfondire - non essendo questa la sede - ho indicato queste citazioni come uno stimolo ad osservare e comprendere come parlare di spirito (quindi di spirituale, spiritualità) significa in realtà parlare di una dimensione essenziale della vita, come parlare di respiro, di alito. L’etimologia delle parole ci invita a riflettere come la dimensione spirituale della vita è dimensione intrinseca alla vita stessa: coltivare questa dimensione è come partecipare allo spirito/respiro dell’universo.
[13] “La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato. Essa è l’oppio del popolo” (C. Marx, Zur Kritik der hegelshen Rechtphilosophie. Einleitung, 1842. Tr. it. Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, in Scritti Politici giovanili, Torino, 1950).
[14] Dall’avvertenza editoriale introduttiva a “L’avvenire di un’illusione”: “Nel presente scritto l’idea religiosa, di cui Freud aveva studiato l’origine, è definita come un’illusione, la quale può avere una funzione positiva per taluni singoli individui, e anche per l’insieme dell’umanità nella sua storia passata, ma che non può reggere ad una rigorosa critica scientifica, ed è destinata quindi a soccombere con il progredire della civiltà” (in S. Freud, Opere vol. X, Boringhieri, Torino1977, p. 433).
[15] Essere credente non significa ‘credere in una dottrina’ o credere che esiste un Dio che non si sa dove stia o cosa ci stia a fare; essere credente significa scoprirsi in una relazione d’Amore – più precisamente ‘tendere verso’ questa relazione – con la fonte e lo Spirito della Vita, sia pure nella sofferenza della fede in continuo dialogo con la ricerca e il dubbio.
[16] Un’osservazione analoga debbo fare in riferimento alla sovraesposizione mediatica che in questi ultimi anni sembra favorita e ricercata in ogni modo da parte di chi, nella chiesa, ha il compito di guidare i credenti nell’apertura del cuore al messaggio evangelico. Questo voler ‘apparire’ comunque e dovunque, e con modalità che esprimono più potere che servizio, a mio parere - lo dico con sofferenza, da credente e da sacerdote impegnato in un cammino di conversione ‘da cattolico a cristiano’ -, non solo non favorisce, ma diventa facilmente un ostacolo per chi si dà cura di coltivare una dimensione spirituale nella vita, sia egli non credente che credente.
[17] Nel linguaggio comune è usata spesso la parola ‘laico’ contrapponendola a ‘credente’. In realtà non è un uso corretto. Nel suo significato originario la parola laico (dal greco λαικός (laikòs) ‘del popolo’, da λαός (laòs) ‘popolo’) è contrapposta a chierico, persona che è parte del clero (da κλήρος (klèros) ‘sorte’, ‘eredità’, da cui κληρικός (klerikòs) ‘che riguarda l’eredità’, ‘che ha l’eredità’; quindi, per traslato, ‘clero’ ha assunto il significato di ‘parte eletta’ in quanto ‘partecipa all’eredità’). Nel significato autentico della parola tutti i credenti sono laici; non sono laici coloro che appartengono al clero, coloro cioè che hanno ricevuto l’ordinazione sacerdotale.
[18] Il significato originario della parola ‘mistero’ è ‘disegno nascosto’ o ‘segreto’; in greco μυστήριον (mystèrion) ha origine dal verbo μύω (myo) che significa “sto chiuso”.
[19] La parola Spirito traduce il greco πνέυμα (pnèuma) del testo originale: per i significati cfr. la nota 12 (naturalmente per Paolo, apostolo del cristianesimo, lo Spirito è personificato come Spirito di Dio). La parola carisma è la semplice traslitterazione del greco χάρισμα (càrisma) che significa ‘dono divino’.
[20] Platone, Repubblica, X 614A-621B (Si può leggere in Platone, Tutte le opere, a c. di G. Reale, Bompiani, Milano, 2001, pp. 1322-1328)
[21] Secondo il pensiero buddista c’è un periodo tra una vita e la successiva, meglio, uno stato intermedio tra morte e rinascita: il Bardo. Questa parola, in tibetano, significa “transizione”, intervallo tra la fine di una situazione e l’inizio di un’altra: bar (= tra) do (=sospeso, gettato). Per un approfondimento si può vedere il Libro tibetano dei morti, il cui titolo originario, in realtà, è Grande liberazione attraverso l’udire del Bardo.
[22] La parola italiana Cristo è la semplice traslitterazione del greco Χριστός (Cristòs). Questa parola è la traduzione in greco dell’ebraico םשיח (Mashiàh), it. Messìa, che significa letteralmente ‘unto’, cioè ‘consacrato [attraverso l’unzione]’.
[23] “Il popolo dei nativi americani ha sempre riconosciuto il Dio vivente, ma non lo chiamavamo ‘Dio’. Nella nostra lingua abbiamo una parola per designare il Creatore, ma la parola Dio ci lascia freddi […]. Noi lo chiamiamo ‘Colui che dà Vita’ […] Quando danziamo, seguendo il ritmo del tamburo, danziamo in armonia con il battito del cuore del nostro Creatore, quello che noi chiamiamo Vita” (Bear Heart, 1996, p. 162).
[24] La tradizione lo colloca tra i sec. VI-V a.C; Buddhàh in sanscrito significa “il Risvegliato” o “l’Illuminato”.
[25] Cfr. nota n. 18 sul significato originario della parola “mistero”.
[26] Cfr. Bibbia, Gv 11, 11-44
[27] Cfr. in particolare il racconto nel Vangelo di Marco (Bibbia, Mc 14, 33-41). Chi vorrà approfondire queste riflessioni e proverà a leggere queste pagine del vangelo potrà vedere la trasformazione di quest’uomo da prima a dopo essere passato attraverso l’esperienza della morte.
[28] Cfr. Cardinali, 1997.
[29] Mi permetto di usare la parola ‘bambino’ per parlare di gravidanze interrotte. Nel rispetto di ciò che ciascuno di noi può pensare intorno alla problematica se il feto possa/debba essere riconosciuto o meno nella sua dimensione di persona – problematica per la quale scienza e filosofia dovranno dialogare ancora per molto tempo, credo, e con un rispetto reciproco davvero profondo – la mia decisione di usare la parola ‘bambino’ scaturisce dall’incontro con l’intensità del dolore che ho sentito abitare il cuore di queste giovani donne che si sono viste ‘costrette’ ad abortire. Come se nella loro mente inizio di una gravidanza e presenza di una nuova vita non potessero che coincidere nel loro essere. Cogliere questa coincidenza non significa farla parlare a favore dell’una o dell’altra tesi, significa, invece poterla ascoltare nella dimensione di sofferenza che accompagna tale esperienza, e con ciò guardarla con grande rispetto. Ritengo sia questo, del resto, il compito di uno psicoterapeuta: ascoltare il senso e la dimensione personale di un’esperienza (il vissuto) come base per costruire una relazione di cura.
[30] La parola angelo è la semplice traslitterazione del greco άγγελος (ànghelos) che significa ‘messaggero’ o anche ‘notizia’, ‘annunzio’. Possiamo pensare ad un angelo come ad un Pensiero della Vita - o, per chi può chiamare la vita ‘Dio’, lo possiamo pensare come un Pensiero di Dio – che ci è accanto. Pensiero della Vita come del resto siamo ciascuno di noi e ogni altro essere vivente (= esistente). Questo Pensiero-della-Vita che è passato dentro il corpo-mente di una donna, perché non possiamo ora ritrovarlo nella sua presenza accanto a lei?
[31] Pensiero Zen, da T.C.Chung, 1994.