Matrimoni e coppie di fatto.
Appunti per un confronto
F. Cardinali - Lettera aperta alla rivista Terapia Familiare, luglio 2007
Caro Direttore,
da mesi ormai si susseguono tante prese di posizione, a volte rigide, altre più attente, sul tema delle cosiddette coppie di fatto. In un clima politico logorato dalla ricerca dello scontro ad ogni costo (= qualunque cosa facciano quelli dell’altra parte è sbagliata) corriamo il rischio di ritrovarci ‘schierati’ da una parte o dall’altra senza esserci neanche concessi un momento di riflessione per ascoltare davvero le nostre ragioni e le ragioni degli altri.
Da qualche mese a questa parte ho avuto modo di parlare di questo tema in più occasioni e in situazioni differenti; ho incontrato tante persone, anche di diversa estrazione socioculturale. Mi ha colpito, e un po’ sorpreso per la verità, quanta disinformazione o scarsa conoscenza accompagna in genere questa problematica, anche in persone che diremmo di buon livello culturale. Mi riferisco, solo per farti qualche esempio concreto, ad incontri con colleghi psicoterapeuti, medici o psicologi, con gli allievi delle nostre scuole di specializzazione, con insegnanti e, non ultimo, con certa parte dei miei confratelli sacerdoti. Un aspetto positivo tuttavia ho potuto constatare: come la poca conoscenza è accompagnata il più delle volte dalla ricerca di maggiore informazione e dal desiderio di confronto con altri pensieri per costruirsi una propria idea e un proprio convincimento.
Ho pensato di inviarti questi appunti anche se qualcuno potrebbe obiettare che Terapia Familiare si occupa di clinica e di ricerca, non di questioni sociali o politiche (sia pure nel significato reale di ‘ciò che attiene alla vita della pòlis’). Ma so la tua attenzione al sociale come pure la tua attenzione alla famiglia quando, in particolare, ci tieni a ricordare che ‘prima viene la famiglia, solo poi viene la terapia familiare’… Quanto ti scrivo vuol essere un contributo alla riflessione che stiamo facendo nel nostro paese sulla famiglia, appunto, e sui diversi modi in cui essa può costituirsi.
Mentre ti ringrazio per l’attenzione e l’ospitalità, un’ultima osservazione. Ho cercato di restare in un linguaggio da uomo-della-strada: mi piacerebbe che questi pensieri non arrivassero solo agli specialisti che abitualmente leggono la nostra Rivista, ma che possano essere un’occasione per favorire un confronto anche tra e con i non-addetti-ai-lavori.
- Come avvicinarci ad un discorso sulla famiglia
Un primo punto da evidenziare credo sia il doverci ricordare che quando usiamo questa parola – famiglia – in realtà non le attribuiamo un significato univoco, non sempre, cioè, parliamo della stessa cosa.
Quando i politici o gli esperti di diritto ne parlano, immancabile viene il riferimento alla Costituzione della Repubblica, che “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29), e a tutte quelle disposizioni di legge che costituiscono il diritto di famiglia. Sociologi e psicologi la guardano per sottolineare il valore sociale e psicoaffettivo che la famiglia contiene e veicola. Quando a parlarne sono gli uomini di chiesa, essi fanno riferimento al concetto di famiglia che la chiesa è venuta strutturando lungo il corso dei secoli nel tentativo di porsi in ascolto del ‘progetto di Dio’, quale ci viene indicato da quella Lettera, così straordinaria, ma anche così ampia e ancora non completamente compresa, che è la Bibbia.
Quando come persone parliamo della famiglia, il nostro pensiero va all’esperienza personale, al fatto che ciascuno di noi è nato e cresciuto in una famiglia. La nostra famiglia d’origine diventa il nostro punto di riferimento. Nel bene e nel male. In tutto ciò che di ‘buono’ (nel senso che ci ha fatto e ci fa star bene) o di ‘meno buono’ (che ci ha fatto e ci fa star male) vi abbiamo trovato nel passato e vi troviamo ancora oggi. La nostra esperienza diventa così importante da colorare in positivo o in negativo anche i nostri pensieri e ragionamenti, quelli che crediamo essere oggettivi, liberi, cioè, dai nostri stati d’animo.
Se a questo fatto potessimo porre maggior attenzione, certe nostre prese di posizione, soprattutto quelle così rigide che non ammettono repliche, potremmo evitarcele ed evitarle ai nostri interlocutori. Perché tutti parliamo di dialogo, ma quante volte ci poniamo di fronte agli altri con la ferma convinzione di possedere ‘la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità’… senza il coraggio di metterci in ascolto dell’altro (= il diverso da noi, quello che non appartiene al nostro partito, alla nostra chiesa, alla nostra classe sociale o alla nostra cultura) con il pensiero che anche lui qualcosa di buono e di nuovo ci può dare, se solo siamo capaci di ascoltare veramente, almeno un po’.
Con questa premessa ecco alcuni pensieri sui quali aprire un confronto nel tentativo di cercare insieme una verità che ci permetta di migliorare la nostra civile convivenza. Ho chiaro che anche i miei pensieri sono ‘condizionati’ dalla mia storia personale, dall’incontro con il confessionale e dal mio lavoro di psicoterapeuta, nella clinica e nella didattica, che quotidianamente incontra e accoglie la sofferenza del vivere, in particolare quella sofferenza che abita le nostre case e rende a volte così difficili le relazioni in famiglia.
- Matrimoni di serie A e matrimoni di serie B?
Quando si decide di condividere la vita è implicito un pensiero: ‘per sempre’. Iniziare con il pensiero ‘finché dura’ è come dire di voler entrare in casa, ma in realtà si decide di restare sulla porta. Né dentro né fuori. Non ci stai certo bene.
Sposarsi significa dirsi ‘per sempre’. Certo, sappiamo che potrà anche non essere così, ma un pensiero nascosto, sempre presente però, almeno come augurio e speranza, è che ‘se questo vale per gli altri, non sarà così per noi due’. Tale pensiero è così forte, anche se non detto, che quando una coppia si trova a dover affrontare una separazione, questo momento è sempre accompagnato da un senso di fallimento e di grande sofferenza. Fallimento rispetto ad un progetto, il progetto che nasce, appunto, con le parole ‘per sempre’.
Anche quando due persone decidono per la convivenza? Sì. Nelle profondità dell’anima è così: anche quando si interrompe una convivenza è con il fallimento di un progetto che ci si trova a fare i conti: è qui l’origine della sofferenza che accompagna la separazione.
Cosa spinge una coppia a scegliere tra matrimonio e convivenza?
Tra le diverse componenti che portano verso la decisione di scegliere la convivenza piuttosto che il matrimonio, due appaiono come le più frequenti. La prima nasce spesso dal pensiero che un periodo di convivenza è una buona ‘prova generale’ per capire meglio se potremo farcela a vivere bene insieme; in altre parole, se siamo proprio fatti l’uno per l’altra. Una seconda ragione trova le sue radici nella situazione economica: fare un matrimonio costa un sacco di soldi, adesso non possiamo permettercelo, poi si vedrà. Sempre nel rispetto di queste scelte, dobbiamo però dirci che non è certo una cerimonia da divo di Hollywood che rende più bello il matrimonio: la bellezza e la gioia di un matrimonio non sono proporzionali allo sfarzo che l’accompagna. Rispetto alla ‘prova generale’ dobbiamo purtroppo dire che l’esperienza ha dimostrato ormai da tempo che i matrimoni fatti dopo un periodo di convivenza non si sono dimostrati più stabili degli altri.
Al fondo credo che possiamo dire che ciò che fa la differenza nella scelta tra matrimonio e convivenza è la dimensione più o meno esplicita – quindi più o meno consapevole – del progetto. Decidere per il matrimonio significa assumersi un impegno non solo l’uno verso l’altro all’interno della coppia, ma anche di fronte alla comunità di cui si è parte, e nello stesso tempo chiedere che la comunità stessa ci riconosca nella nuova dimensione di coppia/famiglia. Di fronte alla comunità civile (sempre) e di fronte alla comunità dei credenti (quando si decide per il matrimonio religioso).
Perché un uomo e una donna che vogliono metter su famiglia non possono sposarsi? Sposarsi non significa, in fondo, dirsi reciprocità (= l’uno verso l’altro) nell’amore e nell’impegno di portare avanti la vita insieme e nello stesso tempo chiedere il riconoscimento di questa decisione da parte della società di cui siamo parte? Riconoscimento che significa non solo arricchire e ampliare in una dimensione sociale l’impegno reciproco, ma anche porsi nella condizione di ricevere aiuto e sostegno.
Una domanda, a questo punto, rimane aperta: perché abbiamo bisogno di una nuova forma da dare a un ‘patto’ reciproco le cui dimensioni oltrepassano la sfera solo privata e personale? Certo che un uomo e una donna possono liberamente decidere di condividere la vita, di viversi l’un l’altro come coppia, e di non sposarsi. Ma se questa vuole essere una scelta privata, che senso ha chiederne un riconoscimento formale da parte della società? Se invece c’è il desiderio di riconoscimento, dal momento che per averlo basta presentarsi di fronte ad un rappresentante della società (il sindaco) e dire ‘noi siamo marito e moglie’, perché allora non farlo? Non ci sono impedimenti di legge: anche in presenza di un precedente matrimonio è sufficiente una sentenza di divorzio per avere libero accesso al nuovo matrimonio. Il cosiddetto ‘riconoscimento delle coppie di fatto’ – qualunque nome gli vogliamo dare, Pacs, Dico, Cus… - non rischia di diventare una sorta di matrimonio di serie B, sia nella reciprocità tra i due partner che nel valore sociale del progetto?
- E le coppie omoaffettive (omosessuali)?
Un punto, invece, ha bisogno, a mio parere, di essere guardato con maggiore attenzione. La possibilità di un riconoscimento della coppia omosessuale (omoaffettiva). Provo a spiegarmi.
Chi sono gli omosessuali? Proviamo a ricordarcelo: sono quelle persone il cui orientamento affettivo, quindi sessuale, è verso una persona del suo stesso genere. Un uomo trova il completamento di sé nell’incontro e nell’amore con un altro uomo e una donna lo trova nell’amore con un’altra donna. Fino a metà del secolo scorso si pensava che questa fosse una malattia psichiatrica, quindi da curare. Oggi il mondo scientifico (della medicina e della psicologia) è d’accordo nel ritenere che non si tratta affatto di malattia, ma di uno stato che nulla ha a che vedere con concetti quali devianza, anormalità, patologia o quant’altro. Si tratta solo di riconoscere una situazione di differenza. Ma differenza non significa anormalità (= non normalità). Qui dobbiamo fare tanta attenzione: molto spesso il concetto di normalità che noi usiamo è un concetto statistico: ciò che noi riteniamo normale è ciò che fa la maggioranza, ‘normale’ diventa il comportamento della maggioranza (è evidente, per esempio, che se la maggioranza ruba, prima o poi viene visto come ‘normale’ il fatto di rubare…).
Omosessuali si nasce o si diventa? E’ una domanda cui non siamo in grado di dare, allo stato attuale delle conoscenze, una risposta univoca. Certo è che l’orientamento affettivo-sessuale verso una persona dello stesso genere non è espressione di malattia, non è il risultato di un’educazione sbagliata, non nasce da relazioni distorte o perverse vissute in famiglia o altrove. Soprattutto non è una colpa (in senso psicologico) né un peccato (in senso religioso). Gli omosessuali non sono [solo] quelli del gay-pride, quelli, cioè che vanno in piazza per esibire una sessualità senza regole e senza confini. Senza rendersene conto, purtroppo, queste persone non fanno che alimentare un’immagine distorta dell’omosessualità, favorendo e potenziando, così, nella maggioranza dei cittadini quell’atteggiamento di emarginazione e di rifiuto verso chi vive questa situazione.
Perché allora non dobbiamo riconoscere ad una persona il cui orientamento affettivo-sessuale è verso un soggetto dello stesso genere il medesimo diritto che riconosciamo alla persona il cui orientamento affettivo-sessuale è verso un individuo di genere diverso? Perché non può vivere le sue relazioni affettive nel rispetto delle stesse ‘regole’, fatte di diritti e doveri (come tutti), che definiscono le relazioni di coppia tra gli esseri umani?
Se un uomo e una donna mettono su famiglia hanno la possibilità di vedere riconosciuta la loro decisione e la loro unione sposandosi (in comune o in chiesa, a loro libera scelta). A mio parere sarebbe un atto di civiltà riconoscere anche a chi decide di condividere la vita con una persona del suo stesso genere – perché è in questa relazione affettiva che trova il completamento di sé – la possibilità di vedersi riconosciuta dalla società questa decisione e questo impegno. Non vogliamo chiamarlo matrimonio? Non credo sia questo il vero problema. Vogliamo chiamarlo Pacs o Dico o Cus o in qualche altro modo? Una unione, un patto di civile solidarietà, un patto di convivenza, in cui l’uno possa dire all’altro il ‘per sempre’ di un amore e di una condivisione. La società di cui siamo parte ne prende atto e dà un riconoscimento all’unione e al progetto di due uomini o di due donne, così come riconosce l’unione di un uomo e di una donna: con le medesime regole in vigore per tutte le coppie (casa, pensione, malattia, assistenza reciproca, per es.; stato civile, tempi da rispettare in caso di separazione o divorzio, ecc… proprio come per le coppie eterosessuali).
Diverso invece, a mio parere, è il discorso relativo ai figli.
Non perché una coppia omosessuale è meno capace di una eterosessuale di amare un figlio o di prendersene cura. Il discorso qui va guardato ponendosi dal punto di vista del bambino. Ogni bambino/bambina ha bisogno di confrontarsi con il maschile (che incontra nella figura paterna) e con il femminile (che incontra nella figura materna) per costruire la sua identità come persona e come soggetto, maschio o femmina (identità di genere). Non sarebbe buono per il piccolo essere privato di questa possibilità. E’ vero che ci sono bambini che crescono di fatto con un solo genitore (per la morte o l’assenza di uno dei genitori, in certe separazioni altamente conflittuali, o in altre situazioni), ma queste sono situazioni di emergenza. Va dato loro tutto l’aiuto e il sostegno di cui possono avere bisogno. Ma non credo che sarebbe sano mettere di proposito un bambino in una situazione di emergenza: non sarebbe tale una situazione in cui ‘per definizione’ sono presenti due padri senza una madre o due madri senza un padre?
Mi rendo perfettamente conto che questo è un aspetto che non può esaurirsi in quattro righe e che avrebbe bisogno di essere ulteriormente approfondito. Certo è, comunque, che non possiamo dimenticare, quando abbiamo a che fare con decisioni che coinvolgono i bambini, che è necessario porci in un atteggiamento di grande rispetto verso di loro, sapendo che essi chiedono a noi adulti di tutelarli nei loro diritti fondamentali, non avendone loro la sufficiente capacità. E nella relazione adulti-bambini dobbiamo ricordarci che non è un diritto degli adulti avere dei figli, ma è un diritto dei figli avere dei genitori.
- Oltre certe... chiusure
Una riflessione finale voglio condividere in particolare con coloro che si riconoscono in un credo religioso, in particolare nell’essere cattolici. Penso che se proviamo a riscoprire la nostra dimensione di cristiani prima ancora che di cattolici, riusciremo a porci tante più domande e a ritrovare un atteggiamento di maggior ascolto di fronte alla sofferenza. Da qualunque ragione essa tragga origine. Anche di quella sofferenza che accompagna l’omosessualità. (Riusciremo anche a non lasciarci incastrare da etichette e definizioni di parte: cattolici, laici, laicisti, teocom, teodem, integralisti di vari orientamenti… e chi più ne ha più ne metta!)
Notavo già sopra come spesso parliamo di dialogo. Io credo che non dovremmo avere paura di aprire un dialogo anche con pensieri che una parte della chiesa non condivide fino in fondo. Se parliamo di dialogo non possiamo pensare che il dialogo si possa fare soltanto con chi è d'accordo con noi o addirittura con il solo scopo di portare gli altri dalla nostra parte. Il dialogo è confronto. Il dialogo non porta confusione. Porta ricerca, ascolto, incontro, apertura verso l'altro. In una parola, ricerca e cammino verso la verità (e chi può pensare, in questo mondo, di avere il monopolio della verità?).
Il mio dubbio è che tante certezze in realtà nascondano pregiudizi e rigidità che esprimono ancora il nostro rifiuto del diverso (= di chi non fa parte della maggioranza). Su questo la chiesa – tutta la chiesa, il popolo dei credenti e coloro che svolgono la funzione di guide, i vescovi e il papa – ha bisogno di interrogarsi con coraggio e umiltà se vuole essere fedele al suo Maestro. E’ una grande responsabilità quella che ci è stata affidata. Questo atteggiamento di chiusura rischia di alimentare l’immagine di una chiesa che continua a proporre un Dio che giudica e condanna piuttosto che il volto di un Padre che è pieno di Amore verso i suoi figli. Verso tutti, proprio perché TUTTI siamo figli suoi. Non è questo, del resto, il Dio che ci ha fatto conoscere Gesù di Nazaret?
Ancona, luglio 2007
(Terapia Familiare n. 85/2007)