Tradimenti e segreti. Dall’esattezza dei fatti alla verità del cuore.
Il ruolo del terapeuta. Un'ipotesi di lavoro

 

F. Cardinali, Ancona 2012

Premessa

1. Il segreto e la colpa. Storie a confronto
Laura e Luciano, il peso della colpa
Therapèuo, mi prendo cura (di me)
Carla, un carico che non le appartiene
Maria e la sua famiglia

2. L’ascolto della verità
La verità e il tempo
Il contesto della trasformazione
La verità senza pietas

3. Dalla colpa al perdono
Il peso della colpa…
… e la via del perdono

Per concludere: L’esattezza dei fatti e la verità del cuore

 

Sommario

Sempre più di frequente nella clinica ci troviamo di fronte a segreti che contengono storie di ‘tradimenti’.

Il nostro pensiero è coniugato troppo spesso sul registro del fare e dell’agire. La concretezza e un atteggiamento pragmatico guidano le nostre scelte operative con il rischio che le norme dell’agire sono collocate ‘altrove’ rispetto al bene dell’individuo. “Si deve dire la verità” diventa una specie di norma assoluta e rigida che oltrepassa la ricerca del ben-essere delle persone che ne sono coinvolte. La verità diventa una ‘cosa’, una specie di idolo cui si rischia di sacrificare tutto, e tutti.

 Pur rendendosi conto che non è un atteggiamento diffuso questo, né intuitivo, l’autore, attraverso tre storie che vengono dalla clinica, invita a riflettere sul compito del terapeuta: accompagnare il paziente in un viaggio che, attraverso l’incontro con se stesso, lo porti a scoprire la differenza tra l’esattezza dei fatti e la verità del cuore. Perché sappia trovare la forza necessaria per rispettare il “suo” segreto, e attivare un sano processo di contenimento, che diventa perdono – strada maestra verso la pace interiore. E per non mettere sulle spalle dell’altro ciò che non gli appartiene.

 

* * *

 

Premessa

 

Molte volte la clinica (e la vita!) ci fa incontrare storie di tradimenti, episodi di infedeltà. Incontri virtuali, fantasie o realtà che si mescolano e si confondono. Sesso senza amore, amori o innamoramenti platonici. Sms e chat sui quali costruire nuovi castelli, abitati da meravigliosi principi o principesse. Come a dire che il bisogno di evadere dal principio di realtà che il quotidiano ci pone davanti sta costruendo sempre nuove vie per trovare soddisfazione. La tecnologia sembra aver potenziato gli spazi di fuga e di libertà. Salvo poi a ritrovarsi, nella maggior parte delle volte, con il vuoto nell’anima e con il peso della colpa.

Storie. Storie di coppie e storie di famiglie. Storie di uomini e di donne in dialogo, tra loro, e con la vita. Tra silenzi e parole, nell’eterno viaggio, mano nella mano, con madonna libertà[2], carica del suo fascino e della sua seducente ebbrezza. Libertà. Che è capacità di scegliere e possibilità di sbagliare, capacità di riconoscere il proprio errore e possibilità di correggersi. Capacità di incontrare la luce che ci guida nel cammino della vita, ma anche possibilità di perdersi nell’oscurità e nel disorientamento. E quando incontriamo l’errore, che farne? E della colpa, poi? La psicologia ci parla di sensi di colpa, le religioni di peccato, le leggi di reato. Quali strategie per sopravvivere?

Credo che dobbiamo fare innanzitutto una distinzione.

Se il nuovo incontro s’inserisce in un ‘nuovo’ progetto di vita e ci fa cogliere che il vecchio progetto, quello costruito in precedenza, è esaurito ed ha finito il suo percorso, chiarezza e onestà di donne e uomini liberi chiedono che si parli apertamente di ciò che sta succedendo, perché insieme si possa trovare una strada percorribile per salutarsi. Perché quanto si è costruito e condiviso negli anni possa ricevere riconoscimento e rispetto da parte di ciascuno. Strada non facile, al punto da dover ricorrere, tante volte, a un aiuto professionale (terapia di coppia, mediazione familiare, per es.). Ma obiettivo da ricercare, perché il dolore di una separazione non sia paralizzante rispetto al passaggio che la vita ci sta proponendo.

Il problema che ci poniamo qui, invece, è che fare di una storia finita, più o meno consumata dal tempo, e come gestirla nel momento in cui sentiamo che il nostro desiderio è quello di ritrovare e consolidare il progetto originario. Quando cioè ci rendiamo conto che quanto abbiamo vissuto è stato solo un ‘momento’ di disorientamento, breve o lungo, superficiale o intenso, ma comunque disorientamento. Da superare. È guardando a queste situazioni che vogliamo chiederci cosa fare di una storia che ancora fa sentire tutto il peso ad una psiche stanca e disorientata. Tanti sono i pensieri che affollano la mente e tante le domande.

La proposta, in queste pagine, è di ascoltare questi pensieri, e le domande che li accompagnano, e provare a fornire loro dei punti di riferimento attraverso i quali orientarsi. E ci chiediamo del ruolo che lo psicoterapeuta dovrebbe assumere – dal mio punto di vista, naturalmente! – quando gli viene richiesto un aiuto professionale, per provare a dipanare certe matasse ingarbugliate.

 “Dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità” significa forse raccontare all’altro tutto quanto è successo? Con quale scopo, però? Onestà vorrebbe che io ne parlassi con il mio partner. In fondo l’ho tradito, ho condiviso tempi e pensieri (e sesso?) con un'altra persona. Ho percorso strade che non ci appartenevano. Ma non rischio, così, di mettere sulle sue spalle qualcosa che non gli appartiene, con il solo scopo – non dichiarato – di alleggerire il peso per ciò che ho fatto e che grava ancora sulla mia anima[3]? Per chiedergli il perdono, forse. Ma il perdono per cosa? Perdono per quello che gli ho fatto. Ma come può perdonare, l’altro, qualcosa che non conosce, non nel senso che non sa, ma nel senso che non lo conosce in tutto il suo significato? Perché l’altro gli attribuirà il significato che vede dal ‘suo’ punto di osservazione. Non sarà mai il significato che io vedo, che vedevo allora, quando vi ero dentro. Ora anche per me il significato di quanto è successo sta cambiando o è già totalmente cambiato. E la verità dei fatti (= l’esattezza dei fatti) fino a che punto corrisponde alla verità del cuore?

Mi rendo conto che è un discorso difficile quello che mi accingo a fare, perché rischia di apparire contraddittorio rispetto a valori culturalmente condivisi, dato che l’etica della fedeltà, in una relazione di coppia, si pone come spartiacque tra il bene e il male, tra onestà e disonestà.

Il nostro pensiero però, a mio parere, è coniugato troppo spesso sul registro del fare e dell’agire. La concretezza e un atteggiamento pragmatico guidano le nostre scelte operative con il rischio che le norme dell’agire sono collocate ‘altrove’ rispetto al bene dell’individuo. “Si deve dire la verità” diventa una specie di norma assoluta e rigida che oltrepassa la ricerca del ben-essere delle persone che ne sono coinvolte. La verità diventa una ‘cosa’, una specie di idolo cui si rischia di sacrificare tutto, e tutti.

Incontreremo tre storie. La prima ci parla di Laura e Luciano, lei racconta al marito di un incontro avuto tramite una chat. La seconda ci fa incontrare Carla e Danilo: questa volta è lui che le racconta di una sua storia parallela, ormai chiusa. Incontreremo poi lo sconquasso di Maria, (e della sua famiglia) che si è vista ‘costretta’ a dis-velare un segreto conservato gelosamente per oltre venticinque anni.

 

 

1. Il segreto e la colpa: storie a confronto

 

Nascondere a chi s’ama
il giusto, è brutto.
(Euripide, Le supplici)

 

Laura e Luciano: il peso della colpa

 

Laura ha ventotto anni, Luciano trentacinque. Sposati da sette, il loro rapporto è da un po’ che sta languendo in una sorta di rimpianto su “quanto era bello all’inizio”. Ora sono stanchi, lui è preso dai suoi hobby e tutto il suo mondo sono la sua casa e i suoi animali, un cane e due cavalli. Sua moglie dovrebbe vivere come lui: al lavoro durante la giornata, poi la sera in pace, in casa, senza tanti ‘grilli per la testa’ (come fare una cena con amici, uscire per andare al cinema, o al mare, e cose di questo genere).

Due anni fa in questa coppia entra un uomo che Laura conosce in una chat: dopo un po’ iniziano a sentirsi anche per telefono, finché un giorno decidono di incontrarsi. Ma lei non si sente tranquilla, e il loro incontro, unico incontro, non avrà alcun seguito. Il tutto finisce con una specie di contatto sessuale veloce e senza nessuna partecipazione o un minimo di passione o di piacere da parte sua. Ciò che ne ricava è solo un pesante senso di colpa, con se stessa e nei confronti di suo marito. Il senso di colpa, però, non si attenua neanche un po’, nonostante che questa storia venga immediatamente chiusa e che con il suo interlocutore non ci sia più nessun contatto. Lei non sa perdonarsi una cosa del genere e l’unica strada che riesce a intravedere per alleggerire tanto peso è di parlarne con il marito e raccontargli ‘la verità’.

Da quel giorno la loro vita diventa un inferno. Decidono così di venire in terapia.

Lei non sa spiegarsi perché ha fatto “quella cosa”; suo marito non sa capire che cosa possa aver significato per la sua compagna un gesto di quel genere. Per lui è alto tradimento. Ora i suoi pensieri sono “Ma mi avrà detto tutto? Cos’è che non mi ha raccontato? Cosa mi tiene ancora nascosto?”. Poi “Come faccio a fidarmi di una donna che è stata capace di una cosa del genere?”. E ogni volta che Laura è un po’ più seria, il suo pensiero è “A chi pensa adesso? Si saranno risentiti e non me lo vuol dire?”; e ogni volta che Laura è meno seria e un po’ più sorridente, il suo pensiero diventa “Ma allora l’ha rivisto? Se è tanto contenta!”. Quando poi vanno letto e lui desidera far l’amore e lei non se la sente “Se non vuol far l’amore con me, allora vuol dire che l’ha fatto con lui o, sicuramente, che sta pensando a lui”; se poi, invece, Laura ci sta “Lo vorrà fare per stare davvero con me o per farsi perdonare per quello che mi ha fatto?”. Se poi una sera è Laura a prendere l’iniziativa, allora “Perché vuol far l’amore con me? Così pensa che la lascerò in pace con lui…”. Quando poi, una volta attraversati tutti questi pensieri, si ritrovano uno nelle braccia dell’altra, ecco riapparire il fantasma, quasi uno spettro da un altro mondo, che si frappone di nuovo e lo blocca “Sta abbracciando me o lui?”; di certo Laura sente che Luciano si blocca e quale può essere la sua reazione se non di irrigidirsi a sua volta? Ma quale migliore conferma, allora, che “Era proprio vero che stava pensando a lui…”?

Il telefono! Se suona il telefono a casa “Chi sarà? Chi era? Che voleva?”. Lei glielo dice. “Ma sarà vero?”. E se dall’altra parte non risponde nessuno, cade la linea, o hanno sbagliato numero… Il telefonino! Questa diavoleria della tecnica che permette di essere rintracciati sempre e dovunque… sì, sempre e dovunque, perché se il telefonino è spento o non è raggiungibile “Allora sta con lui!? Allora non è vero che è finito tutto!?”.

 “Tu mi devi raccontare tutto, per filo e per segno. Solo quando mi avrai detto tutto quello che è successo fra voi, io potrò stare tranquillo”. Poi, però, invitato a riflettere su queste parole, si rende conto che nessuno mai lo potrà rassicurare che sua moglie gli ha detto proprio tutto: lei gliel’ha detto, gliel’ha giurato. Piangendo, gridando, con un fil di voce, di giorno, di notte, per strada, durante la cena, a letto, il mattino appena alzati, di notte quando, ancora svegli, Luciano le chiede “ma mi devi raccontare tutto”. Ma non basta. Non c’è più pace nel cuore di Luciano. E non c’è ancora pace nel cuore di Laura: lei pensava che dirlo a suo marito le avrebbe fatto trovare la soluzione – o, che poi è la stessa cosa – l’assoluzione ai suoi sensi di colpa. Lei pensava, sperava che suo marito l’avrebbe aiutata a dimenticare. Lei non lo sa, ma in realtà ciò che sperava era che Luciano l’avrebbe potuta ‘perdonare’.

 Ma Laura non sapeva due cose. La prima: che suo marito non avrebbe mai saputo perdonare qualcosa di cui non poteva cogliere il significato vero e profondo che solo lei poteva sapere (ciò che significa una cosa per chi la fa e la vive). La seconda: che solo il suo (di lei) perdono può sciogliere la sua colpa e liberarla dal ‘male’ che sente di aver fatto. Lei, cioè, ha bisogno di ritrovare dentro di sé la voce del perdono, la voce che le dice “Ti perdono, Laura”. Che significa: “Hai ancora il diritto di vivere la tua vita”.

Perché ora lei non ha più alcun diritto. I suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi desideri, tutto deve essere annullato. “Con quello che ho fatto” dice continuamente… Come può chiedere a suo marito di accorgersi di lei, di guardare a lei prima di guardare ai suoi cavalli? Come può dirgli che ha bisogno che lui si apra anche ad altre relazioni sociali, perché lei non ce la fa più a vivere come una reclusa? “Con quello che gli ho fatto!”.

Che cosa gli ha fatto? Qual è il male che gli ha fatto? L’aver chattato con questo signore o averci parlato al telefono o perfino averlo incontrato? No. Lei pensa – meglio, loro pensano – che sia questa la colpa di Laura e sia questo il torto che ha fatto a suo marito. Ma non è questo il male che ha fatto a suo marito: questo può essere il male che ha fatto a se stessa (ponendosi in una situazione di confusione e di ambiguità). Il male che ha fatto al marito è di avergli messo sulle spalle un peso che non era suo (di lui), ma che apparteneva solo a lei. Nel momento in cui gliene ha parlato, lei ha messo sulle spalle di lui il peso del proprio gesto, della propria storia virtuale. Nessuno ha il diritto di appesantire la vita di un altro mettendogli sulle spalle qualcosa che non gli appartiene.

Attenzione. Non sto dicendo che l’aver incontrato un altro uomo sia una cosa ‘buona’, o eticamente corretta, per lei e per la coppia. Un terzo, in una relazione di coppia, è sempre qualcosa di dirompente. Lo diventa perfino un bambino, quando nasce, eppure è già parte di un progetto che la coppia aveva comunque messo in campo: nonostante questo, però, i due coniugi si vedono nella necessità di ritrovare un nuovo equilibrio, un equilibrio a tre (Cardinali, Guidi 1992). L’ingresso di un terzo non progettato, non previsto, è davvero dirompente. La clinica – la vita prima ancora – ci insegna che trovarsi in una relazione a tre significa trovarsi come tra due fuochi. È assolutamente necessario, per l’equilibrio di una persona, collocare l’uno e l’altro (l’una e l’altra) in un luogo sicuro. Ma un luogo sicuro è prima di tutto un luogo ‘chiaro’.

 


Therapèuo – Mi prendo cura (di me)

 

L’aprire la domanda “cosa rappresenta l’altro/a per me” e cercare una risposta diventa necessità impellente, per non perdermi. Perché perdermi nella con-fusione dei sentimenti e dei progetti significa non sapere quale strada sto percorrendo, con il rischio di non riuscire a ritrovarmi, nella vita. E non c’è ‘navigatore’ capace di ridarmi le coordinate. Solo accettare la domanda “cosa rappresenta lui/lei per me”, e tenerla aperta nella ricerca di una risposta, mi permette di vivere.

Ma questo lavoro, in realtà, non posso farlo che da solo. Con me stesso. È il mio navigatore che ha bisogno di essere ri-sintonizzato per ritrovare la strada che voglio percorrere e arrivare al punto che mi prefiggo (= il progetto).

In questo contesto l’aiuto professionale diventa il luogo privilegiato per ascoltare la domanda e cercare di costruire la risposta. Il terapeuta diventa come un satellite che permette di ri-sintonizzare il navigatore. Sarò io, poi, a scegliere su quale strada voglio incamminarmi, quale meta mi prefiggo di raggiungere. Non è il satellite che mi dice dove andare: da lui posso essere aiutato a vedere ‘dove sono’. A fare il punto. A ri-vedere il progetto. Solo allora potrò valutare, riflettere, ascoltare, vedere dove sono e dove voglio andare.

È legittimo chiedere tutto questo al proprio partner? Non c’è il rischio che gli (le) chiedo di essere contemporaneamente il mio compagno di strada e mio genitore? Fino a che punto posso pretendere che comprenda il mio sbandamento, il mio disorientamento? Lui (lei) è parte in causa, il terzo che è entrato (ho – abbiamo? – fatto entrare) nella nostra vita, passando attraverso me, non può avere lo stesso significato per me e per lui (lei). Riprenderemo questo punto. Ora un’altra storia.


Carla, un carico che non le appartiene

 

“Non me lo doveva dire! Non me lo doveva dire! Perché me l’ha detto? Non poteva tenerselo per sé? Che senso aveva venirmelo a raccontare? Adesso!”. Così, gridando e con il respiro appesantito dal pianto, inizia la sua seduta.

Quattro mesi dopo Carla e Danilo compariranno davanti al giudice. Lei ha deciso per la separazione, Danilo non avrebbe voluto.

Cos’era successo?

Un anno fa Danilo torna a casa. È uno dei suoi ritorni periodici. Questa volta, però, è più stanco del solito. Non ce la fa più ad andare avanti così, è triste, sconsolato, privo di stimoli per vivere. Eppure è un uomo di successo: lavora nel mondo accademico e non gli mancano certo riconoscimenti. Il lavoro lo porta a vivere fuori casa gran parte del tempo: la sua famiglia, la moglie e un figlio ventenne, vive in una cittadina di provincia mentre lui risiede quasi stabilmente nella grande città. Adesso è triste, chiuso, non mangia e dorme a fatica. In una categoria diagnostica lo diremmo ‘depresso’. Ma depresso perché? Carla pensa che sia uno dei suoi periodi bui. Gli capitava anche in passato, è una caratteristica che l’ha accompagnato fin dalla giovinezza. Passa qualche giorno, ma le cose non cambiano. Danilo è sempre più triste e chiuso. Finché un giorno chiede a Carla di poter parlare. Sono soli in casa e Danilo le apre il suo cuore.

Due anni fa ha avuto una storia con una donna molto più giovane di lui: lui cinquantenne, lei poco più di venti. Una storia durata oltre un anno. In segreto. Nella grande città. Ora Natascia l’ha lasciato. E lui decide di parlarne con Carla nella speranza di trovare in lei un aiuto, un sostegno in un momento per lui tanto difficile.

Il mondo di Carla crolla. Quest’uomo, suo marito, che lei conosce da trent’anni, è stato capace di vivere una storia parallela. La loro relazione non era mai stata così lineare e tranquilla in tutti questi anni, ma ora una storia così non se l’aspettava proprio. Lei è offesa, offesa per il tradimento, ma ancora di più, lei dice, “perché è venuto a piangere da me, a gettarmi addosso la sua depressione perché la sua amante l’ha lasciato. Ha voluto vivere questa storia? Ora si tenga la sua depressione! Non sono mica sua madre…”. Inconcepibile per lei. Tanto inconcepibile che decide di lasciarlo. Poi ci ripensa, vuole sapere. Ma sapere non basta. Allora cerca. Internet, chat, mail… tutto serve. Come una ‘dipendenza’ che le aggredisce l’anima. Scopre la password, entra nella sua posta, legge, rilegge. Un’ossessione. Una dipendenza.

“Ma non ha deciso di separarsi?”, “Sì, ma non me lo doveva fare! Con una di vent’anni poi. Mi ha offesa, mi ha messo davanti la mia vecchiaia, i miei cinquant’anni. È vero, non è mai stata una grande passione la nostra, ma io mi vedevo già con lui, una volta in pensione. Abbiamo comprato una bella casa, grande, due anni fa. Magari stava già con lei… Come ha potuto? Sarebbe stata la casa dove ritrovarci, farci compagnia. Ora ha mandato tutto a puttane…”


I pensieri del terapeuta

 

Carla ha ragione. Danilo avrebbe dovuto tenere per sé quello che era successo e aprire con se stesso il libro dei conti. Danilo è in analisi da qualche anno, ma il suo terapeuta non è stato in grado di tutelarlo. Lui avrebbe voluto recuperare il rapporto con la moglie. Ma non poteva essere questa la strada: quella di andare a piangere da lei e raccontarle tutta la storia. Non poteva chiederle di accoglierlo come il ‘figlio prodigo’.

Il figlio prodigo del Vangelo è il padre che lo accoglie. Non il fratello. Lo sapeva bene quel maestro di psicologia ante-litteram, Gesù di Nazareth, quando ce l’ha raccontato[4]. Lui conosceva molto bene l’animo umano. Il padre che accoglie appartiene a un’altra generazione: lui è il genitore e ad un genitore si può chiedere di trovare dentro di sé la forza di perdonare a un figlio che scappa e poi chiede di ritornare. Non è facile neanche per un padre o una madre, certo, ma l’essere genitore tante volte ci chiede di essere ‘grandi’ o, se vogliano usare una parola poco tecnica e pure un po’ fuori moda, essere capaci di gesti e atteggiamenti ‘eroici’.

La terapia familiare ci sottolinea continuamente la necessità di non confondere gli spazi generazionali e di rispettarne i confini. Il pensiero strutturale di Minuchin su questa tematica è punto di riferimento fermo e ineludibile. Genitori e figli appartengono a due generazioni diverse, il rapporto è impari. Un partner, come un fratello, appartiene alla stessa generazione: il rapporto è ‘alla pari’.

La funzione del terapeuta è funzione ‘genitoriale’. Per questo la relazione terapeutica è relazione che cura. Perché è relazione che accoglie. Il dolore, la perdita, la colpa, l’incapacità di dare la parola al disorientamento, tutto questo trova un luogo di ascolto nella relazione di accoglienza che un terapeuta sa offrire.

Certo, possiamo anche pensare che in fondo il gesto di Danilo è stato un gesto di onestà e sincerità verso sua moglie: va da lei e le racconta ciò che è successo dicendole che ora tutto è finito. E le chiede di poter ritornare. Così sembra. Ma con questo pensiero rischiamo di restare alla superficie di tutta la storia.

La storia di Danilo apparteneva a lui. Sua era stata la scelta di giocarsi la ‘libertà’ accettando il rischio di far incontrare la propria vita con quella di un’altra donna. Accettando, così, il fascino di un sogno che non sarebbe stato disgiunto dal peso della colpa. Se il suo terapeuta fosse stato in grado di aiutarlo a trovare la ‘sua’ verità, lo avrebbe tutelato dall’abisso della con-fusione: quella di cercare in sua moglie una madre accogliente e comprensiva. Carla non poteva cogliere il significato di un incontro che suo marito aveva consumato con un’altra donna. Le sue spalle non potevano reggere un peso che non le apparteneva. Né avrebbero potuto reggerlo in seguito. Il fantasma di Natascia si sarebbe frapposto tra loro, tra pause di silenzio e momenti di angoscia quando una qualunque difficoltà lo avesse fatto riemergere.

 


Maria e la sua famiglia

Io non detesto i re.
Che governino pure gli uomini,
ma a patto che siano più saggi degli uomini.
(K. Gibran)

Figura 1: genogramma[5]

 

Un giorno Maria, in uno degli incontri di gruppo cui partecipa anche il figlio Claudio, si sente dire da Gabriele, la guida del gruppo – un uomo che lei considera un punto di riferimento, un ‘maestro’ – che è giunto il momento di dire a suo figlio “la verità”. Maria sa di che verità si tratta, lei ne aveva parlato con Gabriele qualche tempo prima nel tentativo di alleggerire un peso che abitava la sua anima. Queste parole sono per lei un’indicazione che non lascia spazio a dubbi, anzi, le arrivano come parole di liberazione rispetto al peso che la opprime e rivolgendosi al figlio gli rivela che suo padre, l’uomo che insieme con lei l’ha cresciuto in tutti questi anni, non è suo padre. Lei era rimasta incinta di lui nell’incontro con un altro uomo.

Sconcerto, confusione, incredulità si agitano nel cuore di questo giovane che a venticinque anni, all’improvviso, si vede togliere dalla sua vita colui che gli ha dato la possibilità di crescere, di sentirsi contenuto nell’affetto e nelle attenzioni, colui che ha retto le sue ribellioni di adolescente, che gli ha permesso con il suo lavoro di studiare all’università. In poche parole, colui che per tutta la vita gli è stato ‘vero’ padre. I giorni che seguono si riempiono di pensieri che invadono la mente e il cuore e non lasciano più il tempo del respiro e il fluire della vita sembra interrotto.

L’insistenza del figlio e la spinta del maestro portano alla rivelazione del nome del padre biologico. E Claudio, anch’egli guidato dal maestro, l’ha contattato, rivelandogli di conoscere tutta la verità. Ma Luigi ha la sua famiglia ora. Di tempo ne è passato davvero tanto. Troppo. E lui neanche sapeva.

Tre mesi fa muore Roberto, il marito di Maria. Gli ultimi tre anni sono stati molto duri per quest’uomo che si è visto gettare addosso tutto il peso di una storia che non conosceva. E che non gli apparteneva. Oggi Giacomo, l’altro figlio, non si dà pace. Lui sente di essere rimasto l’unico a difendere il padre di questi due figli. Da tutti. Dal fratello che, non riuscendo più a vederlo come padre, non ha potuto neanche permettersi, in questi ultimi anni, di lasciare che il suo bambino potesse frequentare il nonno in santa pace. Dalla madre che lui vede ‘persa’ nella storia di Claudio. “Mio padre è morto – dice – ed io sono rimasto senza padre. E senza fratello. E mia madre? Perché ha fatto questo? Che senso aveva?”. Non gli rimane che prendersela con il maestro: “Ha voluto fare uno scoop. Sai come fanno questi santoni. Per loro un gesto di questo genere movimenta tutta la folla che li segue. Uno scoop… sulla pelle nostra”.

Tante sono le domande che dovremmo porci di fronte a questa vicenda. Prima fra tutte, però, dobbiamo trovare la forza per chiederci chi è il padre di Claudio. È il padre di cui ci parla la biologia o non piuttosto colui che l’ha cresciuto in tutti questi anni? È difficile, credo, nutrire dubbi al proposito. Padre e figlio si diventa nella frequentazione e nella cura reciproca e quotidiana. Non è certo l’azione di un momento che fonda e costruisce una paternità.

Riprenderemo questo pensiero. Andiamo avanti, ora, con le nostre riflessioni, facendoci accompagnare in particolare dalla storia di Maria e della sua famiglia.

 

 

2. L’ascolto della verità

Gli dice Pilato: “Che cosa è la verità?”.
Detto questo, uscì di nuovo verso i giudei.
(Vangelo di Giovanni)

 


La verità e il tempo

 

La vita degli esseri umani è immersa nel tempo. Questo ne dà le dimensioni, i colori, i significati. Se non consideriamo il suo progredire, rischiamo di ritrovarci in una dimensione falsa. Succede così che quella che chiamiamo ‘verità’ può diventare il suo contrario.

Un’esperienza elementare può aiutarci a comprendere. Se a trent’anni guardiamo una foto di quando di anni ne avevamo soltanto tre, certo ci riconosciamo in quella foto, ma solo perché l’abbiamo già vista tante volte e ci hanno detto che quel bambino siamo noi. Ma chi non sa è assai difficile che possa riconoscerci: il tempo ha operato grandi cambiamenti e trasformazioni.

“In tutti i filosofi antichi il tempo risulta strutturalmente connesso al movimento” (Reale 2004, pag. 329). Verità questa che, per altra strada, ci propone anche la fisica moderna. Un tempo statico è un pensiero inconcepibile. Il nostro agire avviene nel tempo. È così forte questo pensiero che quando ci troviamo a ripensare qualcosa che ci è successo o che abbiamo fatto accadere tempo fa, poco o tanto che sia, e proviamo a valutarlo con lo sguardo di cui siamo capaci oggi, quel fatto, quell’avvenimento assumono un significato diverso. Per coglierne il significato autentico ricostruiamo i luoghi, le relazioni, andiamo a ricercare nella nostra memoria le persone che allora erano con noi, quali erano i nostri progetti, i nostri pensieri prevalenti. Attiviamo, cioè, un processo di contestualizzazione, nello spazio e nel tempo. Quando non attiviamo questo processo, il rischio di attribuire a quel fatto un significato che allora non gli apparteneva è rischio reale e pericoloso. E il pericolo è grande e la trappola rischia di essere mortale. Per gli affetti e per le persone che vi si trovano coinvolte.

 


Il contesto della trasformazione

 

Due aspetti che non possiamo dimenticare quando incontriamo episodi di vita. Il primo: la verità di un fatto è la verità che gli appartiene quando esso accade. Tempo e spazio – il contesto – ne definiscono la cornice e le dimensioni. L’altro: un fatto appartiene, nella sua pienezza, a chi lo compie. Chiunque altri ne è fuori.

Maria è rimasta incinta con un uomo che non è suo marito. Il significato di quell’incontro appartiene a lei (secondo aspetto), per di più, a quella Maria di venticinque anni prima (primo aspetto). Allora lei aveva un bambino di tre anni, con il marito era un momento difficile. Cosa stesse cercando nell’incontro con l’altro, solo lei può dirlo con se stessa, con tutti i limiti, poi, di una consapevolezza certo non piena. Da quell’incontro è iniziato un processo biologico, la fecondazione di un ovulo maturo all’interno del suo corpo.

So che suona riduttivo parlare di ‘processo biologico’, trattandosi dell’inizio di una nuova vita. Ma se pure è vero che un ovulo fecondato ha in sé tutte le potenzialità di una vita[6], è altrettanto vero che la mente e il cuore degli esseri umani hanno bisogno di aprirsi a questo processo biologico per farlo diventare un processo umano. E nel caso di Maria questa trasformazione è avvenuta. Al punto tale che ne è nato Claudio, il suo secondo figlio.

Quest’ovulo fecondato, giorno dopo giorno, si pone alla ricerca di qualcuno con cui dialogare. In questa ricerca incontra Maria e accanto a lei trova l’uomo con cui lei sta condividendo la vita: il marito Roberto. E così i due decidono di aprire la loro casa ad una nuova vita. Aspettano un bambino, il secondo figlio. È nella loro casa che il processo di trasformazione ha luogo. È qui che si apre lo spazio necessario perché un processo biologico diventi vita umana, e il bambino che nascerà potrà incontrare una madre e un padre.

Ora a Maria si pone un problema. Parlare con Luigi? Parlare con Roberto? Cosa dire? E a chi dire? Una scelta deve farla. Lei vive con suo marito, la storia con Luigi non è una grande storia e non merita che per essa si butti all’aria la famiglia. La decisione è presa: il bambino sarà figlio suo e di suo marito. Il segreto dell’incontro rimane nel suo cuore.

 Può il cuore di una donna reggere un segreto così grande? Più semplicemente, può il cuore di Maria reggere questo segreto? Lei sa che questo le appartiene. È un segreto grande, ma condividerlo significa farne emergere tutta la forza dirompente e nessuno ne ricaverebbe una qualche utilità. Non suo marito, non il loro primo figlio, Giacomo, che ha solo tre anni. Né questo bambino che sta crescendo dentro di lei. I segreti pesano, ma per loro natura essi chiedono di essere tenuti ‘separati’[7], da parte, conservati in luogo ap-partato e sicuro.

Ma il segreto può chiedere anche di voler essere condiviso. E lo fa quando fa sentire la sua voce con una forza che ri-porta turbamento al cuore di chi lo conserva. È un momento difficile questo, perché solo una scelta attenta e oculata della persona su cui puoi con-fidare ti concede di con-dividere il peso che opprime l’anima. Un terapeuta, un sacerdote, un ‘grande’ amico possono prestare una spalla su cui appoggiarsi e con cui sostenere, alleggerendolo, il peso troppo forte da reggere con le sole proprie forze. Ma il terapeuta, il sacerdote, il grande amico sanno che quanto viene loro confidato non appartiene a loro, non possono disporne come vogliono. Nessuno di loro potrà mai condividerlo con altri. Ripeto. Nessuno di loro potrà mai condividerlo con altri.

Sono passati più di venticinque anni. Maria pensa in cuor suo di aver trovato una persona di cui fidarsi. Lei frequenta un gruppo: fanno meditazione, reiki, yoga. In questo gruppo lei vorrebbe portare anche i figli: Giacomo non ne vuol sapere, Claudio la segue. La guida di questo gruppo diventa man mano il suo ‘maestro’. “A lui posso confidare questo segreto che ho tenuto solo per me in tutto questo tempo”, lei pensa. E un giorno gliene parla.

Chi le può fare una colpa? Il bisogno di condividere è umano e non c’è nulla da ridire. Se non, forse, un richiamo alla prudenza. Ma come fare ad essere prudenti quando il peso che stiamo reggendo è tanto forte? Ogni volta che Maria guarda suo figlio in lei sembra rinnovarsi il conflitto di venticinque anni fa, e ora le pare di aver trovato un luogo in cui questo conflitto potrebbe essere sciolto o, almeno, con-diviso.

Ma il suo maestro sa insegnare una buona tecnica di meditazione, forse, una buona tecnica di yoga, ma sembra non saper ‘ascoltare’ il dolore di un’anima che gli si affida. Per lui dialogare con i sentimenti dell’anima sembra essere come insegnare una buona tecnica per perfezionare un’asana[8]. E in nome della ‘verità’ fa un disastro. Lui non sa vedere che la storia di Maria appartiene a Maria. E a Maria soltanto. Non a suo figlio. È lei che ha incontrato Luigi in quel momento della sua vita e ha vissuto quell’incontro per quello che allora significava per lei e per loro due. Il tempo successivo aveva restituito a ciascuno di questi due giovani, Maria e Luigi, la libertà di riprendersi la propria vita e di costruirsi una storia. Nuova per Luigi. Da recuperare con il marito per Maria. Il tempo aveva cambiato oramai i giochi e le relazioni. Il significato di quell’incontro è ormai mutato e non possiamo non tenere conto della trasformazione che il tempo, appunto, ha permesso e costruito.

In nome della ‘verità’, dicevamo. Ma quale verità? Credo che sia questa la domanda centrale che dovremmo aprire come terapeuti (e come persone). Perché la verità di un fatto deve essere a servizio del bene delle persone che ne sono coinvolte e non viceversa. In altre parole, prima dovremmo prenderci cura delle persone che si affidano a noi e del loro bene, poi, solo poi, possiamo preoccuparci del rispetto della verità oggettiva – cosiddetta ‘oggettiva’. Perché rispetto ai ‘fatti’ meglio sarebbe usare la parola esattezza, piuttosto che verità. Perché il concetto di verità è molto più ampio del concetto di esattezza.

Ci dicevamo sopra come il “Si deve dire la verità” diventa una specie di norma assoluta e rigida che oltrepassa la ricerca del ben-essere delle persone che ne sono coinvolte. La verità diventa una ‘cosa’, una specie di idolo cui va sacrificato tutto – e tutti. Dev’essere stato questo pensiero, più attento alle cose che alle persone, che ha portato il ‘maestro’ di Maria a far sì che lei dicesse al figlio Claudio una ‘verità’ di cui lui non solo non aveva bisogno, ma che sarebbe poi diventata per lui – e per tutte le persone direttamente coinvolte – fonte di dolore. Insuperabile e distruttivo. Un dolore che ha reso vano il sacrificio di venticinque anni di conservazione di un segreto il cui significato poteva essere colto solo rimettendo indietro l’orologio del tempo. Ma questa, lo sappiamo bene, è un’operazione che a noi umani non è consentita.

 

 
La verità senza ‘pietas’

 

Sia pure dette in un contesto diverso, mi appaiono significative le parole che scrive Nietzsche negli ultimi tempi, prima che la sua mente cercasse riposo nella malattia: «La verità non è qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo (…). Introdurre la verità come un processus ad infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa che sia in sé fisso e determinato» (Nietzsche 1887-88).

Di fronte al pianto di Giacomo, questo giovane uomo immerso nel dolore della solitudine e assordato dal rumore dello scoop che ha invaso la sua vita, mi tornano le parole di Céline (1957) che, partecipando, ammirato, all’agonia del cane che aveva riportato con sé dalle glaciali contrade della Danimarca, ammette «ciò che danneggia l’agonia degli uomini è il tralalà; l’uomo, malgrado tutto, è sempre su un palcoscenico, anche il più semplice». Commenta Milan Kundera «A chi non viene in mente la macabra commedia delle “ultime parole famose”? È  così: anche in punto di morte l’uomo è sempre su un palcoscenico. Anche ‘il più semplice’, anche il meno esibizionista, perché non sempre è lui a porsi su un palcoscenico. Infatti, quando non è lui a farlo, sono gli altri [che ve lo pongono]» [9].

Nel nostro caso, una donna, con un dolore nel cuore che aveva saputo custodire per tanto tempo, consapevole che una volta dis-velato avrebbe, con la sua carica dirompente, frantumato un equilibrio costruito in tanti anni di riservatezza e di rispetto per gli affetti della sua famiglia, questa donna, dicevo, si è vista catapultata sul palcoscenico della verità. Ma di una verità che niente aveva di vitale, perché era solo la verità dei fatti (= l’esattezza), ma del tutto lontana dalla verità del cuore.

Aveva cercato una condivisione lei, un abbraccio di comprensione per tanta fatica sostenuta con la forza dell’animo, da sola, nel rispetto della vita. Ha incontrato la disattenzione (o, forse, la superficialità). L’uomo che si è avvicinato con gli abiti del maestro non è stato in grado di accogliere e di custodire, con lei, un segreto tanto doloroso, ma anche tanto vitale – finché fosse rimasto nel silenzio.

Avrà forse ragione Giacomo quando i suoi occhi non riescono a vedere, nell’atteggiamento del maestro, nient’altro che il desiderio di uno scoop? Quando vede sua madre persa dentro un gesto che ha dovuto compiere in ossequio al compito che le è stato assegnato “Devi dire la verità a tuo figlio”? Ma quale verità? Una verità senza pietas è una verità s-pietata. Una sorta di divinità sul cui altare vengono sacrificati i sentimenti più nascosti, perché più profondi, delle persone coinvolte.

 

 

3. Dalla colpa al perdono

Sono estraneo a me stesso,
e quando odo la mia lingua parlare,
le mie orecchie si chiedono
di chi sia la mia voce.
(K. Gibran)

 

Il peso della colpa…

 

Certo, il peso di una colpa – di ciò che sento come colpa – è peso duro da sostenere, a volte impossibile farcela da soli. Ma non è togliendo il velo che la colpa si scioglie. Anzi. Essa rischia di allargare lo spazio in cui vive, al punto da inquinare altre aree finora conservate immuni. Le paratie che l’anima aveva saputo costruire erano riuscite a tutelare l’equilibrio e la pace nel cuore dei figli e del marito, perfino nel cuore dell’altro uomo, Luigi – che neanche sapeva.

L’ingresso della voce fuori campo, che non apparteneva al territorio vitale di Maria e che lei considerava amico e maestro, è diventato un macigno che ha fatto tracimare le acque e crollare le paratie, senza valutare che tanta acqua avrebbe potuto portare distruzione e morte. Così è stato. Così è stato per Luciano (cfr. il primo caso clinico) che si è visto gettare addosso il peso di Laura senza poterne com-prendere tutto il significato; così è stato per Carla (cfr. il secondo caso clinico) che si è vista mettere sulle spalle, da parte del marito, uno zaino non solo troppo gravoso, ma che non le apparteneva. Troppo gravoso, appunto, proprio perché non suo.

Che cos’è la colpa? È come se nella psiche ci fosse un luogo, un angolo, tormentato: lei non è in pace, ma in collera con se stessa (Estes) per un gesto o un episodio che ha vissuto ed è rimasto scritto nella sua memoria, carico di dolore. Possiamo pensare che l’anima, lo spirito, che abbraccia e contiene la psiche si assuma il compito di trovare una cura per la sua collera e per la sua colpa. È fatica che vale la pena di affrontare, perché mentre cura la collera, ci accompagna a trovare la via del perdono. È via per la tolleranza, per ogni essere umano, per ogni creatura e per ogni emozione.

Il peso della colpa allora? Che farne? Come dialogarci? Come trovare una mano che possa aiutarci a sostenerlo, ad alleggerirlo, fino a poterne cogliere perfino gli aspetti vitali? La colpa, nella dimensione in cui non ci facciamo distruggere dal bisogno della punizione, può farci da maestra se non diventa una cosa di cui liberarci in gran fretta.

 


… e la via del perdono

 

Il compito allora diventa quello di cercare la nostra verità. La “verità che ci fa liberi”[10] è la verità che appartiene al nostro mondo interiore. Cosa stavo cercando in quel momento della mia vita? Che cosa era così forte nel suo richiamo da catturare le mie forze, interiori e fisiche, al punto da entrare in quella situazione che mi ha arrecato poi dolore e disorientamento?

Si potrebbe dire che la rabbia è il risultato di fantasmi che non riposano in pace perché nessuno se n’è occupato. “È necessario propiziarsi la psiche e continuare a offrirle il cibo spirituale, che si tratti di religione, preghiera, psicologia, sogni o altro ancora” (Estes 1992, pag. 361). Per dare pace ai fantasmi di un passato che non esiste più nelle dimensioni di allora. Nella tradizione buddista le anime dei morti hanno bisogno di essere accompagnate, dopo che hanno lasciato il corpo fisico, con il pensiero e le ‘istruzioni’ per il loro viaggio nella nuova dimensione di vita; nella tradizione cristiana esse hanno bisogno di essere accompagnate con la preghiera perché la loro purificazione sia sostenuta nel suo compiersi.

L’anima, offesa da un gesto o da un’azione che infrange un equilibrio e una parola data, ha bisogno di essere accompagnata nel suo processo di purificazione, che è processo di riappacificazione con se stessa. Ma non è sbattendo il mostro in prima pagina che si opera il cammino di purificazione. Esso è, ancora una volta, un processo da attivare e da coltivare, non un gesto compiuto una-tantum, come se si dovesse pagare un effetto bancario ed estinguere, così, ogni debito. Il debito dell’anima non si estingue con gesti plateali o con confessioni forzate. Esso ha bisogno di muoversi lungo un’opera di recupero di dignità, interiore, che diventa pace e armonia. Sarà, questo, frutto e seme di perdono.

Ma il perdono non è qualcosa che arriva nella pienezza e mette a posto ogni tensione, una volta per sempre. Occorre rientrare nella propria casa interiore, ritrovare il senso della nostra esperienza, ripercorrerla con la nostra mente, ri-vederla per ascoltare cosa ci può dire, oggi. E cosa aveva da dirci, allora. Confrontare le voci e i significati per favorirne il dialogo. Questo lavoro nessuno può farlo al mio posto.

Ancora una storia. Elena ora ha ventinove anni. Era la babysitter di Leonardo. Dopo qualche tempo Sandro, il padre di Leonardo, si avvicina a Elena e tra i due nasce una storia. Per un anno i due si frequentano, poi lei decide di chiudere. Ora sono passati tre anni, ma Elena non ce la fa più a reggere questo segreto, soprattutto nei confronti di Daniela, la moglie di Sandro, con la quale continua un rapporto di amicizia e di frequentazione. Per Elena l’incontro con Sandro era allora come un riconoscimento del suo essere donna, e donna desiderabile, da parte di un uomo più grande di lei. Suo padre? Forse, dato che suo padre, dal suo punto di vista, non si era mai accorto di questa figlia, preso com’era dal lavoro e dalle preoccupazioni della vita. Ora lei sa, perché ha potuto ascoltare la sua anima, che nessun Sandro potrà dirle quelle parole che lei aspetta ancora. Sa anche, perché il processo di riappacificazione e di perdono l’ha potuto avviare, che questa parola di ‘riconoscimento’ dovrà imparare ad ascoltarla nel suo mondo interno. È il riconoscimento che può venirle da lei stessa che le darà la dignità di donna. Non solo. Quanto più Elena potrà comprendere il significato che aveva questa storia per lei, allora, tanto più oggi potrà dialogare con se stessa e sostenere e consolidare il processo del perdono. Lei pensava, all’inizio del suo percorso terapeutico, che solo in una confessione aperta con la moglie di Sandro avrebbe potuto trovare ‘l’assoluzione’ dalla sua colpa. Ora è consapevole che se gliene avesse parlato, avrebbe soltanto accresciuto le conseguenze negative del suo gesto. Daniela mai avrebbe potuto com-prendere la sua storia con il marito: come avrebbe potuto ‘assolverla’ da una colpa che dal suo punto di osservazione non poteva che essere in-solvibile?

Anche per lei, come per Laura, per Danilo, per Maria, la sola strada per sciogliere il peso della colpa è un cammino da percorrere nella solitudine del dialogo interiore, accompagnata – se possibile – da una mano che l’aiuti a prendersi cura di se stessa. In un ‘luogo sicuro’ che sappia contenere il peso della colpa e proteggere lei e tutte le persone coinvolte in una storia di dolore.

Non è questo il ‘luogo’ della terapia?

 


Per concludere

 

L’esattezza dei fatti e la verità del cuore

Il difficile lavoro del terapeuta è proprio quello di offrire uno spazio di contenimento al dolore. E alla colpa. La sua stanza è il luogo dove il segreto può essere con-diviso, quindi custodito.

Ricordavo sopra come la funzione terapeutica è funzione ‘genitoriale’, nel senso che egli appartiene ad una generazione ‘altra’ rispetto ai pazienti. L’aiuto del terapeuta, che condivide il segreto, libera l’altro – il partner – dal rischio di doversi assumere un peso che non gli appartiene. Non è il terapeuta che ‘assolve’ il paziente: l’infedeltà rimane infedeltà, un tradimento tradimento. Compito del terapeuta è di accompagnare la persona lungo la strada della comprensione di se stessa: la strada della scoperta dei significati di quanto ha vissuto. Attraverso il processo terapeutico la persona può ridare un valore al suo senso di colpa, come una sorta di riparazione rispetto al male che può aver arrecato a sé e all’altro. La percezione della colpa e il peso che l’accompagna possono assumere il colore di un processo di riparazione. Riparazione alla ferita della psiche (psyché = anima/vita).

Lo spazio della terapia è spazio per la ricerca della verità. Della verità che solo colui cui una storia appartiene può cercare di cogliere nella sua (quasi) pienezza. È qui la differenza tra il compito del giudice e quello del terapeuta. Il giudice ricerca la verità (= l’esattezza) dei fatti. Compito del terapeuta è ricercare la verità del cuore.

Dato che i poeti e gli artisti sanno dire con poche immagini quanto noi, uomini di scienza, proviamo a dire con un’infinità di ragionamenti – che rischiano pure di intrecciarsi tra loro –, chiudiamo ora con le parole di un ‘maestro’ molto particolare.

«“Non si conoscono che le cose che si addomesticano” disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!”.
“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti” rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”. […]
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina “Ah, piangerò” disse la volpe “… piangerò”.
“La colpa è tua” disse il piccolo principe “io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”.
“È vero” disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo” disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”.
“Ci guadagno” disse la volpe “il colore del grano”. […]
E il piccolo principe ritornò dalla volpe [per salutarla prima della sua partenza].
“Addio” disse.
“Addio” disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi” ripeté il piccolo principe.
Per ricordarselo» (De Saint-Exupéry 1949).

 

BIBLIOGRAFIA

 

Cardinali F., Guidi G., “La coppia in crisi di gravidanza. Sulla necessità di ripensare l’intervento istituzionale”, Terapia Familiare n. 38/92

Cardinali F., “Il genogramma. Come rappresentare graficamente una storia di famiglia” in Andolfi M. e Cigoli V. (a cura di), La famiglia d’origine, F. Angeli, Milano 2003

Céline, (1957) Da un castello all’altro, Einaudi 1980

De Saint-Exupéry A. (1949), Il Piccolo principe, Bompiani 1976

Dostoevskij F. (1878-80), I fratelli Karamazov, Mondadori, Milano 1994

Estés C.P. (1992) Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Piacenza 1993

Green A. (1999), Queste sono le parole, Giuntina, Firenze 2002

Hillman J. (1985) Anima, Adelfi, Milano 1989

Jung C.G., (1912-1952) Simboli della trasformazione, in Opere, vol. V, Boringhieri, Torino 1970

Jung C. G. (1928) L’io e l’inconscio, in Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino 1983

Nietzsche F. (1887-88) Frammenti postumi, in Opere, vol. VII tomo II, Adelfi, Milano 1971

Reale G., Storia della filosofia greca e romana, vol. IX, Bompiani, Milano 2004

 

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[2] Si racconta che Madame Roland de la Platière, mentre veniva condotta alla ghigliottina, nel 1793, si rivolgesse alla LIBERTA’ con queste parole: “Oh Liberté, que de crimes on commet en ton nome!” (Libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome!).

[3] Al fine di evitare fraintendimenti sull’uso di questa parola che più volte ricorrerà in queste pagine, ripropongo le parole di Hillman: “Jung – scrive – vuol essere sicuro che il suo concetto di anima non venga confuso con le idee tradizionali di anima della religione o della filosofia” (Hillman 1985, pag. 97).

[4] Cfr. Luca 16, 11-32.

[5] Metto il genogramma per facilitare la lettura di questo caso clinico che vede la presenza di vari personaggi coinvolti nella vicenda. Per la lettura del genogramma si veda Cardinali 2003.

[6] È questa considerazione che fa dire ad una parte degli studiosi di bioetica che al momento della fecondazione inizia una nuova vita.

[7] La parola ‘segreto’ è dal latino secretum, participio passato del verbo secernere che significa separare; secretum = separato, messo da parte.

[8] Sono chiamate asana le posizioni che si assumono con il corpo nella pratica dello yoga.

[9] La Repubblica, 2 gennaio 2008

[10] Cfr. Vangelo di Giovanni 8, 32

 

Un ringraziamento particolare a Gabriella Guidi per la sua disponibilità a discutere le tematiche affrontate in questo lavoro.