Considerazioni sull'ospedale psichiatrico di Ancona

 

Gabriella Guidi, Tesi di diploma, Scuola Superiore di Servizio Sociale, 1972

Indice:

1. Andando indietro
2. L’ingresso
3. Il parafulmine
4. Cartella clinica
5. Licenziamenti
6. Le guardie
7. Appendice: la comunità terapeutica

 

Avvertenza:

Le note, parte integrante del lavoro, 
scritte in paragrafi rientranti e carattere più piccolo,
sono inserite nel testo.

 

 

* * *

 

 

Nel cortile cè un susino
Quant'è piccolo, non crederesti
Gli han messo intorno una grata
perché la gente non lo pesti
Se potesse crescerebbe
diventar grande gli piacerebbe
Ma non servono parole
quel che gli manca è il sole
Che è un susino, appena credi
perché susine non ne fa
Eppure è un susino e lo vedi dalla foglia che ha

 

(Bertolt Brecht)

 

 

1

ANDANDO INDIETRO

 

 

Le grandi case d'internamento na­scono nel XVII secolo negli stessi luoghi che un tempo ospitavano i lebbrosi. La loro composizione è estrema­mente eterogenea: agli alienati si associano vagabondi, sifilitici, libertini, omosessuali, eretici, atei, dissolu­ti, dissipatori, bestemmiatori, alchimisti. Come si spie­ga il verificarsi di un fenomeno così bizzarro?

"In tutta l'Europa l'internamento ha lo stesso si­gnificato, almeno originariamente. Esso costituisce una delle risposte che vengono date dal XVII secolo a una crisi economica che investe tutto il mondo occidentale nel suo insieme: ribasso dei salari, disoccupazione, rarefazione della moneta: un insieme di fatti dovuti probabilmente a una crisi dell'economia spagnola... Malgrado tutti i provvedimenti che sono stati presi per evitare la disoccupazione e la caduta dei salari, la povertà non cessa di aumentare nel paese" (M. Foucault, Storia della Follia, pag. 105).

Per le migliaia di senza lavoro l'internamento è la soluzione ideale: garantisce il loro controllo, impe­dendo eventuali agitazioni e sommosse, e costituisce una riserva di mano d'opera a buon mercato nei periodi di pieno impiego e alti salari.

"L'età classica utilizza l'internamento in un modo equivoco e per fargli rappresentare una doppia parte: riassorbire la disoccupazione, o almeno cancellarne le conseguenze sociali più vistose, e controllare le tariffe quando rischiano di diventare troppo elevate. Agire alternativamente sul mercato della mano d'opera e sui prezzi di produzione. In realtà non sembra che le case d'internamento abbiano potuto efficacemente dare i risultati attesi. Se esse assorbivano i disoccupati era soprattutto per nasconderne la miseria ed evitare gli inconvenienti sociali e politici della loro agitazione; ma nel momento stesso in cui li si chiudeva in una officina obbligatoria, si aumentava la disoccupazione nelle regioni vicine o nei settori si­milari. Quanto all'azione sui prezzi non poteva che essere artificiale, perché il prezzo di mercato otte­nuto in tal modo era sproporzionato al prezzo di co­sto reale, se lo si calcola in base alle spese che l'internamento stesso rendeva necessarie... Se si giudica­no solo per il loro valore funzionale, la creazione delle case d'internamento può sembrare un fallimento" (Foucault, pag. 110).

 

Ma quella che ai nostri occhi smaliziati appare come una precauzione sociale abbastanza ingenua dell'industrializzazione nascente o una dialettica maldestra della produzione e dei prezzi, "possedeva allora il suo reale significato in una certa coscienza etica del lavoro in cui le difficoltà dei meccanismi econo­mici perdevano la loro urgenza a vantaggio di un'af­fermazione di valore" (Foucault, pag. 111). Il lavoro viene vissuto come una panacea infallibile, la soluzione generale e il rimedio a tutte le forme di miseria. Questa per­de il suo senso mistico, il Povero non è più la mani­festazione di Dio sulla terra, lo Sposo della Chiesa, colui nel quale è possibile rintracciare l'immagine più cara e fedele del Cristo. Egli diventa, per la classe dominante, l'Altro, il Colpevole. E lo si as­crive al Regno del Male nella misura in cui non si piega all'ordine impostogli dall'alto. La Riforma aveva sì stabilito che l'uomo si salva solo per la sua fede, ma le opere finiscono ugualmente per diventare una testimonianza di questa fede e della conseguente benevolenza del Signore: il Ricco, per il fatto di essere ricco, è il Prediletto.

Naturalmente non viene meno il dovere cristiano di assistere, ma ancora più impellente si fa il bisogno di reprimere; sussiste ancora la carità, ma è vissuto con ugual forza l'impulso a punire. Del resto la carità esce dalla sfera del privato. L'atto umanita­rio del singolo può persino esser visto come il se­gno di una negatività (concedere l'elemosina a un mendicante vuol dire tradire quell'ordine o quella idea di ordine ai quali egli è d'impedimento). La carità è "affare di Stato".

L'ozio non ha maggior fortuna della povertà. In men che non si dica la società lo riconosce come il vizio per eccellenza.

"Lavoro e ozio - scrive ancora Foucault - hanno trac­ciato nel mondo classico una linea di separazione che ha sostituito la grande esclusione della lebbra. L'asilo ha preso il posto del lebbrosario nella geografia dei luoghi maledetti come nei paesaggi dell’universo morale. Si è ripreso contatto con i vecchi riti della scomunica, ma nel mondo della produzione e del commercio. In questi luoghi dell'ozio maledetto e condannato, in questo spazio inventato da una società che decifrava nella legge del lavoro una trascendenza etica, la follia comparirà di nuovo e crescerà ben presto fino al punto di annetterli. Verrà un giorno in cui essa potrà raccogliere que­ste piaghe sterili dell'ozio per una sorta di anti­chissimo e oscuro diritto ereditario" (M. Foucault, pag. 114)

L'archetipo dell'asilo moderno si deve, come è noto, a Tuke e Pinel, che verso la fine del '700 "spezzarono le catene" dei pazzi, separandoli dai criminali con i quali si trovavano rinchiusi. Ci si pone così un altro interrogativo: quale destino era capitato alla vasta schiera di miserabili e oziosi che popolavano le case d'internamento?

 

Ancora una volta troviamo una prima risposta nell'esame delle necessità economiche. "Nell'economia mercantilistica - infatti - non essendo né pro­duttore né consumatore, il povero non aveva posto: ozioso, vagabondo, disoccupato, non apparteneva che all'internamento; sistema in cui si trovava esiliato e come astratto dalla società. Con l'industria na­scente che ha bisogno di braccia, egli fa parte di nuovo del corpo della nazione" (Foucault, pag. 469). Il Ricco non si santifica più per mezzo del Povero; più semplicemente, tramite lui, campa ed esige per­tanto la sua liberazione, concedendogli in cambio una rivalutazione morale. La stessa legge impone u­na storia differente per il malato: se il miserabile può reinserirsi in quanto lavora, nessuno può togliere all'alienato la sua funzione di peso morto.

Si legge in uno scritto del tempo (1787) appartenente a Coqueau: “La miseria è un peso che ha un prezzo; si può attaccarlo a una macchina e la farà funzionare; la malattia è una massa di cui non ci si può impadronire; non si può far altro che sopportarla o lasciarla cadere: essa intralcia di continuo e non aiuta mai” (Foucault, pag. 474).

 

Per la prima volta, dunque, nel mondo cristiano, la pazzia viene separata dalla miseria e acquista una vi­ta autonoma. Vittima come il povero del sistema in cui vive, l'alienato troverà persino in lui un carnefice, come vuole l'amara dialettica che lega lo sfruttato all'escluso. La morale e la religione cedono alla scien­za il compito di giustificare questa esclusione.

 

 

 

2

L'INGRESSO

 

 

L'ospedale psichiatrico di Ancona ha un bell’aspetto: grandi viali, alberi secolari, aiole perfettamente mantenute. Ad una così felice struttura fi­sica si deve aggiungere l'impressione di ordine e tranquillità che ricava il visitatore occasionale quando si aggira per i cortili e gli androni quasi sempre deserti. Si può arrivare a provare una certa punta d'invidia per gli sconosciuti ospiti di questa villa silenziosa. (Ma il silenzio può voler dire un sacco di cose e nel nostro caso ha il valore e l'odore della mancanza di vita).

 

(7) Cfr. la testimonianza di Vigevani, Contro la psichiatria, pag.142.Egli afferma: “Il luogo di questi arbìtri e queste violenze si presenta materialmente di solito come una serie di padiglioni e di edifici recintati in un'area anch'es­sa chiusa da muri o da reti; il tutto è organizzato in modo che dall’esterno sia difficile rendersi conto di ciò che avviene internamente. A volte prati e viali alberati fanno apparire questi luoghi come piacevoli luoghi di cura”.

 

Anch'io, la prima volta che entrai in manicomio, per quanto fossi prevenuta, giudicai favorevolmente gli edifici e la loro disposizione, lo sfruttamento razionale dello spazio e la presenza del "verde". Ne feci anzi partecipe il medico con il quale avevo fissato l'appuntamento e che mi doveva fare da guida, ricevendone per tutta risposta una specie di ghigno.

Senza dire una parola mi accompagnò in un reparto, lo attraversò velocemente e, aperta una porticina, mi mostrò una ventina di malati costretti nei pochi metri quadrati di un cortile.

I più, quasi completamente svestiti o con le "uniformi" massacrate dall'attività febbrile e inutile delle mani, erano immobili per terra, a fissare le pareti intorno ad essi. Non si accorsero nemmeno del nostro ingresso, il viso stravolto e rigido in una smorfia indecifrabile. Non si riusciva a riconoscere in loro sesso ed età.

Altri si avvicinarono - alcuni strisciando - per guardarti e toccarti. Uno di loro insisteva ripetutamen­te nel chiedere qualcosa, ma non riuscivo a comprendere a che cosa alludesse. Fu il medico a decifrare il suo linguaggio e a spiegarmi che desiderava del danaro. Naturalmente sorpresa (e anche piuttosto impaurita, per tutto ciò che vedevo), meccanicamente stavo estraendo degli spiccioli dalla borsa quando il medico mi fece cenno di no: Non glieli dia, se lo mangerebbe - commentò. E aggiunse: Quello che vede laggiù giocare con la terra preferisce i topi, invece!

 

Rimasi male di fronte a quel cinismo, ma esso servì a liberarmi del tutto da ogni residuo delle mie illu­sioni iniziali e in seguito, quando venni a conoscenza della decisione presa da quel medico di abbandonare la sua attività di psichiatra (decisione discutibile, ma pur sempre una precisa testimonianza di accusa), capii che il suo atteggiamento nascondeva il quotidiano riscontro della propria impotenza a modificare una real­tà istituzionale così orribile.

La maggior parte dei medici conosciuti durante le mie visite in ospedale, reagisce in maniera assolutamente diversa. In genere vengono schiacciati dalla loro stessa autocritica e, presa coscienza dell'assurdità del loro tradizionale ruolo di carcerieri, non fanno altro che languire nelle loro stanzette di reparto, rifiutandosi di continuare a svolgere seriamente un lavoro che serio non è, ma senza la capacità di portare sino in fondo una critica delle strutture e un'azione di rinnovamento.

 

I grossi fermenti, teorici e pratici, che hanno investito la psichiatria negli ultimi anni, all’estero e soprattutto in Italia, hanno suscitato sì la scintilla del dubbio e l'abbandono di prese di posizione troppo facilmente rassicuranti, ma non sono riusciti a far prevalere, sugli interessi economici e di prestigio contrastanti, la salute e la vita dei degenti. La tranquillità e la sicurezza hanno lasciato il posto all'apatia, al vittimismo, alla pura denuncia verbale.

Quando uscimmo dalla "gabbia delle tigri" - così sembra essere chiamato quel posto dagli 'addetti ai lavori’, ricevetti questa delucidazione: Vede, signora, questi sono cerebropatici, per la maggioranza. Hanno lesioni organiche e non sono propria­mente dei "malati di mente". Avrebbero bisogno di una assistenza specializzata e capillare, in appositi istituti, ma li tengono qui. Forse perché servono a conservare una certa immagine della malattia mentale! Non possiamo far altro che aspettare che muoiano. Ce ne sono tre affetti da tubercolosi, attualmente, e guardi dove vengono curati: in stanze umide e... coi topi! L'ideale, per guarire dalla Tbc, non trova?

 

In effetti gli ambienti (eravamo nel reparto 8 uo­mini) erano malsani e decrepiti: assenza totale di luce, mura screpolate, nessuna suppellettile, il mobi­lio ridotto ai letti e a qualche vecchio armadio cadente.

 

(8) La condizione dei reparti il trattamento riservato ai degenti peggiorano incredibilmente quando si passi dai reparti aperti a quelli chiusi. I reparti vengono ordinati numericamente (fino all’8) seguendo, in linea generale, il criterio della ‘pericolosità’ del malato. Il reparto 9 contiene i ‘cronici tranquilli’.

 

I malati iniziarono a venirmi incontro (la scena si ripeterà in ogni reparto - a prescindere da quello dei "cronici tranquilli" - con assiduità). Ero una novità, un'estranea che veniva dal mondo dei "sani". La curiosità, la noia per una vita insignifican­te senza speranza, il desiderio di una sigaretta o semplicemente dello scambio di quattro chiacchiere sono le molle che li spingono ad attorniarvi a riempirvi di domande e suppliche.

 

(9) Ma questo comportamento ha anche un significato più profondo, individuato da Goffman: “Nel mondo esterno egli (il malato) era in grado di decidere, senza pensarci troppo, come bere un caffè, se fumare una sigaretta e quando parlare, diritti che, all’interno di una istituzione possono risultare problematici. Presentate all’internato come possibili, queste piccole conquiste sembrano avere un effetto reintegrante, dato che stabiliscono un rapporto con il mondo perduto e riducono i sintomi che testimoniano il ritiro del paziente da quel mondo e dal suo sé. L’attenzione dell’internato – soprattutto all’inizio – viene a fissarsi su queste gratificazioni sostitutive, da cui resta tanto ossessionato da passare l’intera giornata, come un fanatico, pensando al modo di ottenerle, o in attesa del momento in cui gli verranno concesse” (Asylums, pag. 77)

 

Preso da parte un degente, il mio sincero accompa­gnatore (e iniziatore!) mi fece rilevare alcune cica­trici che aveva in testa, i segni delle botte inflittegli dai suoi stessi compagni "perché era un tipo che stava sempre fra i piedi". Ma per qualcuna di quelle percosse mi fece intendere che si poteva risalite ad un'altra paternità: che lo chiedessi agli infermieri...

 

 

 

3

IL PARAFULMINE

 

 

Dove lo sfruttamento è più primitivo, l'uomo vede atrofizzate le sue funzioni più elementari, quando addirittura e più semplicemente, non muo­re (ci riferiamo, evidentemente ai paesi cosiddetti sottosviluppati e alla realtà della fame); dove lo sfruttamento usufruisce di tecnologie più avanzate e ideologie più sottili, colpisce soprattutto o anche la vita di relazione.

 

(10) “Il lavoro alienato, che trasforma la vita specifica dell’uomo in un mezzo per ricercare la sua sopravvivenza fisica, diviene un atto di violenza contro la duplice natura dell’individuo, ne pone in causa l’integrità psicofisica e la sopravvivenza stessa” (G. Berlinguer, Psichiatria e potere, pag. 20).

 

Trovandosi in questa situazione ostile, l'individuo può scegliere fra vari tipi di reazione: accettare l’ambiente in cui vive e ricercare per un piccolo "spazio vitale", con l'integrarsi, tuffarsi in una trasfor­mazione artificiale della realtà (ricorrendo, per es., a sostanze allucinogene o all'alcool), fuggire nella depressione e persino sopprimersi, ribellarsi. È ovvio che la classe dominante prediliga di queste scelte la prima, non voglia o non possa scoraggiare la seconda, tema la terza.

"Cataloga perciò ogni ribellione come un compor­tamento deviante, rispetto a norme che vengono giudicate eterne, e reagisce con misure politiche, cultu­rali e istituzionali che si muovono su diversi piani coordinati fra loro.

Nel campo specifico della psichiatria e della psico­logia, che collaborano in modo sempre più stretto con le altre attività repressive di ben maggior rilevanza (quali la soppressione delle libertà democratiche, il regime oppressivo della fabbrica, l'uso politico della polizia e dell'esercito, la manipolazione delle informazioni, l'autoritarismo scolastico, ecc.) si possono probabilmente distinguere tre linee di azione" (Berlinguer, pag. 73).

 

Innanzitutto la tendenza di alcuni "cani da guardia" - come li chiamerebbe Nizan - del regime a ipotizzare la distruzione della personalità non come un male, ma come un'operazione necessaria e "indolore" per sopravvivere;

 

(12) Portiamo, come esempio, il caso di D. Origlia. Egli, dopo aver riconosciuto che "le gerarchie dei valori tradizionali dell'uomo moderno sono poco o nulla adatte a ripristinare un rapporto di sintonia fra individuo e ambiente", anziché invitare alla modifica dell'ambiente, insiste sulla necessità dell’annullamento dell'uomo: "la semplice regressione (insistiamo su questo concetto) non è sufficiente, almeno non in tutti i ca­si è un meccanismo di difesa valido. Il punto più importante è quello della necessità della spersona­lizzazione, cioè della perdita di struttura dell'Io" (D. Origlia, La capacità di sopravvivere, "Panorama medico" N.5, settembre-ottobre 1968, pp.13-14)

 

in secondo luogo "la diffusione di teorie che mascherano la storicità e la socialità dei conflitti di cui è espressione non solo la malattia psichiatrica, ma ogni altra malattia che abbia una diffusione di massa";

 

(13) La critica viene mossa anche a quegli studiosi che, pur svolgendo esami approfonditi e utili sui rapporti interpersonali e l'ambiente dei malati mentali, evitano di spingere l'analisi fino alle strutture fondamentali dell'ambiente, cioè sui rapporti di produzione e di proprietà. In questo senso l'os­servazione vale per il pregevole lavoro di R. Laing, Normalità e follia nella famiglia, come per il libro di D. Cooper, Psichiatria e antipsichia­tria (Sul significato generale della cosiddetta "anti-psichiatria" rimandiamo comunque alla trattazione che ne svolge G. Scalia in "La maggioranza deviante", a cura di F. e F. Basaglia, n.43 pp.177 e segg.).L'effetto, se non lo scopo, di simili lavori, è di suggerire che una modifica sovrastrutturale della socie­tà sarebbe sufficiente a mutarne radicalmente l'assetto e l’andamento. Certo noi constatiamo "la mancanza di scuole, di ospedali, di case; la penuria di comodità, svaghi e tempo libero per i lavoratori; la carenza di civiltà e cortesia nei rapporti interumani; l'irrazionalità della produzione e della distribuzione delle merci; la severità dei rapporti con i figli; l'arretratezza delle consuetu­dini"; ma ciascuna di queste deficienze, pur nella sua particolarità, è legata ai rapporti generali di classe e potere.

 

infine la vo­lontà della classe dominante di allontanare da sé le contraddizioni, relegandole nelle istituzioni specializzate.

 

Scrive Basaglia ne "La Maggioranza deviante" che l’istituzione psichiatrica, nata come luogo di protezione e cura del malato di mente, si tramuta nel luogo istituito per la protezione della società, dagli elementi che ne disturbano l'andamento sociale. L'istituzione psichiatrica non è più il luogo dove si definisce l'oggetto del la psichiatria, ma dove si relegano gli indesiderabili, con motivazioni spesso per lo più estranee alla malattia (Op. cit. pag. 83).

 

Poiché il malato mentale rappresenta "la faccia perdente del capitale", la testimonianza di un rifiuto o, almeno, di un fallimento del nostro sistema di vita, è necessario nasconderlo, isolarlo in uno spazio concreto "per illudersi di essere al sicuro". Ammonisce Dostojevski nel "Diario di uno scrittore" che non ci si persuade del proprio buon senso chiudendo il prossimo in manicomio. E nota con tristezza Simone de Beauvoir, in La forza delle cose, come se ci fosse sempre bisogno di un altro da odiare per darci il senso della nostra innocenza.

 

Eppure è proprio questo il principale meccanismo psicologico che sottostà all'esclusione. "Di fronte alle sue paure e alla necessità di assumersi le proprie responsabilità, l'uomo tende ad oggettivare nell'altro la parte di sé che non sa dominare: ad escludere l'altro che ha in sé come sua contingenza. È un modo di negarla in sé, negando l'altro; di allontanarla, escludendo i gruppi in cui è stata oggettivata. È la scelta di un mondo manicheo dove la parte dell’uno è sempre recitata dall'altro, appunto dall'essere escluso; dove solo in questo escludere affermo la mia forza e mi differenzio.

 

(16) F. e F. Basaglia: Un problema di Psichiatria Istituzionale, l'esclusione come categoria sociopsichiatrica, Rivista Sperimentale di Feniatria, Vol. XC, f.6, 1966; cfr. anche Goffman, Stigma, L'identità negata. Nella prefazione a cura di R. Giammanco si legge: La malattia, il comportamento deviante, l'inferiorità sociale e intellettuale non sono i termini dialet­tici di un'unità storica; i loro opposti non sono sa­lute, comportamento giusto ed eguaglianza. Lo sono al livello del controllo ideologico, ma in realtà il sa­no si definisce solo in quanto non presenta le caratteristiche del malato, l'inferiore (brutta parola, in pubblico) in quanto non partecipa a nessun livello alla gestione del potere.

 

Irrecuperabile per la produzione (tranne casi significativi di boom economici o guerre, durante i quali i manicomi stranamente si spopolano), il malato mentale esercita, per un fenomeno grottesco, una funzione positiva per il mantenimento dello status quo, proprio in quanto rinchiuso. Potremmo immaginare così il ragionamento inconscio del cittadino libero: Se quelli sono malati, dunque io, che sto fuori, sono sano. E come me sono sani tutti coloro con i quali vivo.

La sua esclusione, insomma, è indiretta conferma della mia sanità e funge da strumento di coesione per i membri di uno stesso gruppo. Ciascuno di noi sente oscuramente che tutto l'apprendimento di un comportamento "sano" e una faticosa e sempre fragile conquista nei confronti del disordine psichico. Quest’ultimo è vicinissimo, ma nascosto: sempre represso, ma dietro la porta. Ecco che il manicomio si identifica con il bisogno stesso di ren­dere chiara e distinguibile la categoria dei comportamenti "abnormi". Il fatto che "i matti" siano discriminati e finiscano dentro gli ospedali definisce i confini della normalità e premia le immagini dei comportamenti "accettabili". L'apprendimento della normalità non è qui la semplice ricerca di un equilibrio, ma la rassicurazione reciproca dell'appartenenza a un mondo dove ogni cosa deveessere controllabile e sensata. Chi paga il prezzo dovuto per mantenere la propria saluta psichica sa, oscuramente, che il proprio sacrificio è troppo elevato per non costituirsi subito in privilegio" (G. Jervis, Crisi della psichiatria e contraddizioni istituzionali in "L'istituzione negata" a cura di F. Basaglia, pag. 302).

 

 

 

 

4

CARTELLA CLINICA

 

 

(18) Questa dovrebbe costituire la storia del malato anteriore al suo ricovero, evidentemente tracciata a fini terapeutici, puntando cioè l'attenzione su quegli eventi psichici e sociali che possono aver causato l'esplosione di un atto psicotico. In pratica, però, risulta una raccolta di notizie scarne e lapidarie - comunque sterili - prese in prestito qua e là, redatte frettolosamente (generalmente dal medico di guardia, indaffarato per le cose più varie e quindi con scarso tempo a disposizione, su quanto gli riferiscono coloro che, accompagnando il futuro degente, si trovano presenti in quel momento), spesso non aggiornate, quasi sempre infide, mai verificate. Ne riportiamo un esemplare tra i meno squallidi:«Padre morto a 71 anni. Madre a 70. Ha tre fratelli e una sorella. Il padre aveva subito ricovero in ospedale psichiatrico per alcoolismo. Normali i primi atti fisiologici e lo sviluppo intellettivo. Non ha prestato servizio militare perché lavorava a Parma come operaio di miniera (di ferro). Sposato a 35 anni. Ha una figlia. Nel '39 lavorava ad Ancona. Nel '50 andava a lavorare a Milano come pavimentista. Le difficoltà economiche e l’impossibilità a mantenere i famigliari provocavano i primi disturbi a carattere depressivo per cui veniva ricoverato».L'uomo a cui appartiene questa "ricca" cartella è in manicomio, a parte brevissimi periodi di dimissione, dal 1951 (ed è probabile che vi resterà fino alla fine dei suoi giorni). Da allora pochi cenni anagrafici e qualche telegrafica notizia della sua vita (che noi possiamo facilmente immaginare densa di disagi e sofferenze - basti riflettere sui continui spostamenti e sui tipi di lavoro svolti) hanno costituito tutto il bagaglio a disposizione dello staff curante per comprendere meglio la malattia! Nell'esempio qui riportato esistono dei veloci riferimenti alle componenti socio-economiche considerate come principali matrici della perdita dell'equilibrio psichico; ma noi riteniamo fatale, per il suo destino di degente, la frase iniziale che si riferisce al precedente ricovero del padre. Prova ne è che in tanti anni nessuno si è preoccupato di arricchire e approfondire il suo passato.(Può essere utile registrare il fatto che le cartelle attualmente in vigore sono state notevol­mente ridotte rispetto alle precedenti. Questo calo di dimensione -giustificato con il ricorso a motivi tecnici, per la presenza di un centro meccanografico non rivela per caso un nascosto e inconscio disinteresse per il malato? Se non è così per quale motivo è stato diminuito lo spazio riservato alle "osservazioni" a vantaggio di quello riservato alla "terapia" (notoriamente destinato a un monotono ripetersi di semplici sigle e nominativi di medicine?).- Il testo di questo paragrafo è costituito da un vivace stralcio di una conversazione registrata con il prof. Mancini, vice-direttore dell'O.P. anconetano, sull’argomento.

 

Il giorno tale improvvisamente entrò in escandescenze, ruppe un vaso, eccetera, gridando - che so - "siete pazzi!" e via dicendo. Così si marca l’inizio della malattia mentale! Il malato sguscia improvviso, come fosse una cosa inevitabile -"tanto gli doveva venire" - e così si rinuncia a sapere...

 

(19) "L'attuale dottrina psichiatrica definisce il disordine mentale come qualcosa che può avere le sue ra­dici nei primi anni del paziente; che mostra i segni della sua presenza nell'intero corso della vita e invade quasi ogni settore della sua attività. Nessun punto particolare del passato o del presente, viene così a trovarsi fuori della giurisdizione psichiatrica. Gli ospedali psichiatrici istituzionalizzano burocraticamente questo mandato così vasto, basando la cura del malato essenzialmente sulla formulazione della diagnosi e sull'interpretazione psichiatrica del suo passato. La cartella clinica evidenzia chiaramente questo mandato. Si tratta infatti di un dossier dove non si registrano mai le circostanze in cui il paziente ha dimostrato di essere in grado di affrontare dignitosamente e con successo difficili situazioni di vita, né vi si segnala la media di comportamento della sua condotta passata.Uno dei suoi scopi è dimostrare i diversi modi in cui il paziente è "malato" e la ragione per la quale era stato giusto rinchiuderlo in ospedale ed è tuttora giusto tenervelo rinchiuso. Il che viene attuato ricavando dal corso della sua vita un elenco di fatti che hanno o potrebbero avere un valore "sintomatico".Vengono citate le disavventu­re dei genitori o dei fratelli che potrebbero far pensare a una tara familiare. Vengono segnalati fatti precedenti in cui il paziente dimostrò un "disturbo di giudizio" o qualche alterazione emo­tiva; si descrivono situazioni in cui agì in modo strano, tale da poter essere giudicato da un pro­fano come un immorale, pervertito sessuale, debo­le, infantile, sconsiderato, impulsivo, pazzo. Vi sarà descritto, inoltre, lo stato al momento del suo ingresso in ospedale - momento non certo facile e calmo per lui. (Goffman, Asylums, op. cit. pp.182-183).E, più avanti, lo stesso autore, afferma: "Si può dire che i fatti registrati nella cartel­la clinica sono esattamente quelli che il profano considererebbe calunniosi, diffamatori, portatori di discredito. Si deve anche osservare che il personale ospedaliero, a tutti i livelli, non riesce, in genere, a trattare questo materiale con la neutralità morale proclamata necessaria, in dichiara­zioni mediche e diagnosi psichiatriche, ma partecipa invece con il tono e con i gesti (se non con altri mezzi) alla reazione tipica dei profani verso questi atti".

 

Il considerare la malattia mentale dal suo sorgere repentino è perfettamente coerente con la teoria accademica della psichiatria la quale, nel tentativo di negare una causalità di ordine sociale, si soddi­sfa di vegetare in una specie di biologismo fatalistico. La verità è che la cartella clinica mira a stabilire chi è già stato malato di mente nella fa­miglia del ricoverato. Allora il medico è contento! La regola vuole che la malattia sia di origine "biologica.

 

(20) Segnaliamo che ancora oggi, a quanto riferisce G. Jervis, "la maggioranza dei professori universitari, con gli stessi gesti dei loro predecessori dell'Ottocento, conducono il malato di mente nell'anfiteatro della lezione e lo "dimostrano" agli studenti, così come esibiscono un fegato cirrotico sul tavolo anatomico: i movimenti, i voca­boli del malato continuano ad essere dei "fatti", non delle azioni situate in un contesto". (G. J., Crisi della psichiatria, op.cit., pag. 309).Nonostante le premesse illuministiche tipiche della nascita della psichiatria moderna e l'influsso del positivismo, si afferma la psichiatria "medica” o "organicistica", per la quale il comportamento del folle è abnorme in quanto non è che la manifestazione esterna diretta di una malattia delle funzioni superiori del sistema nervoso. Il malato è visto come un "dato", il suo comportamento come un "fatto". Invero il concetto stesso di comportamento sembra continuamente svanire dalle categorie interpretative dello psichiatra: il ma­lato di mente è un'entità isolata che funziona soltanto (e funziona male), non si comporta. La psichiatria cede sempre più al gusto delle classificazioni e sottoclassificazioni, dei "bizantinismi nosografici" mentre il malato è costretto all’abbrutimento e alla perdita della propria identità, "assente" in questo gioco masturbatorio che lo riguarda così da vicino, sempre identico all'immagine che "gli altri" vogliono per lui e perciò campo d'esperimenti ideale, ma anche atto d'accusa e contraddizione per ogni "teoria" che non modifichi la sua non-vita.

 

Ma se un malato mi fa: Mi son sempre ritenuto incapace di tutto, mia madre mi ha sempre detto che non capisco niente, mio padre ha fatto di tutto per impedirmi ogni cosa, per andare fuori, per avvicinare qualcuno.

 

(21) Si tenga presente, come crediamo faccia l'autore del testo, la già menzionata analisi del Laing sulla famiglia; ugualmente, più avanti, là dove si insiste sulla violenza che compenetra tutte le cose, ci sem­bra evidente il riferimento a Cooper: "Al centro del nostro problema sta la violenza..." così inizia la sua opera principale, anch'essa ricordata.

 

All'esterno per lui esiste solo ratto e violenza, ratto e violenza... Un in­dividuo cresciuto e vissuto in questo modo per tanti anni... Ci meravigliamo poi che agisca in maniera violenta, che faccia un passo psicotico per liberar­si da tutto ciò? E ci griderà: SIETE PAZZI! e non avrà ragione...?

 

(22) Ci sembra di poter concludere che la cartella clinica, lungi dall'essere ciò che dovrebbe, costituisce una "pezza di giustificazione" che l'istituzione si appiccica per motivare in qualche modo il ricovero."Così come il malato si costruisce la storia della propria vita, selezionando gli avvenimenti più ottimistici e lusinghieri per poter presentare un'immagine di sé accettabile agli altri; la cartella clinica sembra intenzionata a individuare gli elementi più negativi, gli avvenimenti più vergognosi, i fallimenti più nascosti per costruire un quadro del malato che egli non potrà mai riconoscere come sua immagine". (F. B. Ongaro, Commento alla "Carriera morale del malato mentale", in Che cos'è la psichiatria? a cura di F. Basaglia, Edito dall'Amministrazione Provinciale di Parma, pag. 271)

 

 

 

 

5

LICENZIAMENTI

 

 

Su circa ottocento malati (tanti ne contiene l'ospedale psichiatrico anconitano) ben centocinquanta potrebbero "ufficialmente" essere dimessi eppure rimangono "dentro".

Quando diciamo "ufficialmente" intendiamo riferirci al parere favorevole espresso dal Direttore in relazione al decorso della malattia - e al conseguente calo di "pericolosità".

 

(23) Come si sa, la motivazione originaria per il ricovero si basa sulla pericolosità -per sé e per gli altri - e sul "pubblico scandalo" che il "malato" può rappresentare.

 

Ed è, quella del Direttore, l'unica diagnosi che conti realisticamente. Infatti la legge che regola il funzionamento dei manicomi risale al 1904 e rispecchia fedelmente la rigida struttura gerarchica della società che la promulgò. Il direttore è a capo della piramide e possiede i pieni poteri: dalla comple­ta autorità sul servizio sanitario interno all’alta sorveglianza su quello economico, dall'"esercizio del potere disciplinare sul personale dipendente" alla "cura morale dei ricoverati".

 

(24) V. Art. 28 del Regolamento sui manicomi e sugli alienati

 

Per ciò che concerne "il licenziamento" di un degente, nessun medico o gruppo di medici può sostituirsi alla sua capacità e competenza nel dichiararne idoneo un ricoverato.

Ora, le norme prevedono diverse modalità di dimissione:

a) si può attestare che il malato non è più tale, cioè che è completamente guarito. (Ma non ri­sulta - a memoria di medico - che in tanti anni si sia mai verificato un solo caso di guarigione totale!);

b) il degente può essere dimesso "in esperimento": è sufficiente che un familiare o altri per lui certifichi di essere disposto a prendersi cura dell’"alienato in via di guarigione";

 

(25) Art. 66: " Se la famiglia si rifiuti di ricevere l'alienato licenziato in via d'esperimento, il direttore ne informa il procuratore della Repubblica, il quale provvede immediatamente alla nomina di una persona incaricata di prendere cura dell'alienato in via di guarigione. L'Amministrazione provinciale corrisponde, ove occorra; a tale persona una congrua retta per il mantenimento e la cura dell'alienato. Uguale retta potrà essere corrisposta alla famiglia che non abbia mezzi sufficienti per la cura e il sostentamento di esso”.Ma il costume burocratico ha naturalmente cancellato dalla sua tradizione una simile prassi!

 

c) il paziente può essere lasciato "a custodia domestica": la procedura è molto complessa. Si deve inoltrare domanda al Tribunale (al quale, in ultima istanza, spetta di dare il nulla-osta), avendo in precedenza ottenuto il consenso di un medico locale di impegnarsi nella cura, e la garan­zia del sindaco che chi fa domanda "è in grado di custodire e curare il malato in casa". Infine è da allegare lo stato di famiglia.

 

(26) Si legge, in un avviso distribuito agli inte­ressati, in calce: "Occorrendo anche il parere della direzione e le informazioni dei Carabinieri del paese, che vengono chieste dal Tribunale d'ufficio, e dovendo il Tribunale riunirsi per decidere, si consiglia, dopo presentati i documenti, di attendere COMUNICAZIONI dal Tribunale o dalla Direzione dell'Ospedale per evitare viaggi e spese.(Se non altro la Direzione dimostra una certa delicatezza per le disagiate condizioni economiche delle famiglie dei reclusi, risparmiando loro spese e viaggi inutili!).

 

Mentre per i primi due casi la responsabilità viene assunta (totalmente nel primo, parzialmente nel secondo) dal direttore, nell'ultimo essa è demandata ai poteri costituiti - giudiziario e poli­tico - nonché ad un altro medico estraneo all'istituzione e alla psichiatria. Costoro, regolarmen­te, si dimostrano assai restii e diffidenti a concedere l'autorizzazione, ed è comprensibile. "Per quale motivo - ci faceva rilevare un primario di reparto - il Procuratore della Repubblica o il Sindaco o un qualunque altro medico (per giunta non psichiatra) dovrebbero sobbarcarsi un onere di cui il direttore, che conosce meglio di qualunque altro (si fa per dire) il degente, non ha vo­luto saper nulla? E così rimandano la palla (ma dietro la palla c'è un uomo!) ai "tecnici" del manicomio".

È facile, dunque, comprendere perché l'80% dei dimissionari sia "messo a custodia domestica" (si dice così in gergo ospedaliero: messo. Anche il linguaggio tradisce ripetutamente la concezio­ne del malato-oggetto o del "malato-pacco"). In pratica ha pochissime probabilità di uscire.

Di coloro "messi in esperimento", poi, molti non hanno famiglia o non conoscono - letteralmen­te - nessuno. Sono in genere persone assai anziane, che hanno dietro (o sopra) le spalle una permanenza lunghissima in ospedale. L'istituzione li ha completamente "spolpati" e non sentono neanche più l'esigenza della libertà;

 

(27) "È qui superfluo dilungarci in descrizioni - ormai ovvie - dello stato di passività, apatia, di disinteresse in cui vivono i malati nei nostri ri­coveri. Esso è stato riconosciuto come una forma di regressione, venuta a sovrapporsi alla malattia originaria, a causa del processo di annientamento e di distruzione cui i malati sono sottoposti dalla vita dell'asilo. Basti dire che il perfetto ricoverato, all'apice di questa carriera, sarà quello che si presenta completamente ammansito, docile all'autorità degli infermieri e del medico; quello che in de­finitiva, non complica le cose con reazioni personali, ma si adegua supinamente all'autorità che lo tutela; autorità che solo attraverso la negazione di ogni impulso e bisogno personale di chi gli viene affidato, si garantisce l'efficienza e il buon andamento dell'istituto" (F. Basaglia, La libertà comuni­taria come alternativa alla regressione istituzionale, in "Che cos'è la psichiatria?", op. cit., pag.33)

 

tanto più, lo ripetiamo, che non posseggono alcun contatto con il mondo esterno.

 

(28) A questo punto emerge un altro aspetto molto triste della questione: il comportamento del "mondo esterno" nei confronti dei ricoverati in grado di uscire. Spesso sono le stesse famiglie a non desiderare il rientro di un parente malato. Mancanza di denari, "fastidio", interessi economici, "abitudine” al­la sua assenza, sono le motivazioni principali addotte a giustificazione del rifiuto. O giocano in questo assurdo meccanismo questioni personali.(Si tenga presente che la maggioranza dei ricoverati, appartiene al sottoproletariato o è di origine contadina – un’inchiesta, da noi condotta sul reparto 8 uomini e 8 donne ha portato alla luce che più dell'80% dei ricoverati appartiene a codeste classi sociali. Coloro che non provengono dalle grosse sacche di miseria delle grandi città, abitavano in piccoli paesi).Così è di quel sindaco che, minacciato da X perché questi non trovava lavoro (atto che lo portò all'ospedale psichiatrico), rifiutò poi di appoggiare le sue dimissioni per vendetta.Così è di quella moglie che, "rifattasi una vita" con un'autorità locale, impedisce al marito Y di uscire.Così è di quel maresciallo dei carabinieri che, non gradendo il colore politico delle idee di J, lo lascia marcire in manicomio. Eccetera.(Queste informazioni devono essere attendibi­li: le abbiamo, infatti, ricavate da confidenze di medici e infermieri, che non avevano alcun interesse a mentire. Anzi, il degente che abbiamo indicato con la lettera Y, venuto a conoscenza del fatto - che egli però finge di ignorare - ha subito un pesante aggravamento della "malattia").

 

 

 

6

LE GUARDIE

(intervista)

 

 

- Qual è il tipo di vita che si conduce nell'ospedale?

1° infermiere. Il discorso su quelle che sono le forme attuali dell'O.P. andrebbe portato avanti fino all'abbattimento dell'ospedale stesso e su questo ci si è trovati anche tutti d'accordo in sede di commissione di studio. È chiaro però che se la cosa rimane bloccata al comitato di studio è perché non c'è sensibilità da parte di un certo gruppo di infermieri né una presa di coscienza da parte dei medici, che non si assumono le proprie responsabilità. Infatti non basta dire: non vogliamo questo e quest'altro. Oppure affermare che certi "matti" non devono essere ricoverati, quando poi si registra che al reparto 8 sono stati ricoverati - giorni fa - due malati, uno di 97 e uno di 95 anni, che soltanto per far­li muovere bisogna sollevarli con le mani!

 

- Perché succedono queste cose?

1° inf. Perché questa è la mentalità dei medici. Io invece dico (e con me un gruppo di infermieri che la pensano come me) che questo reparto po­trebbe essere liberalizzato nella massima parte perché sono dei malati arrivati a un punto tale di cronicizzazione, che il reparto diventa, la soglia della camera mortuaria. (Si allude al reparto in cui viene registrata l'intervista: il 9, ovvero quello dei "tranquilli"). Anzi, dal punto di vista, umano li abbiamo già uccisi, mentre se fossero stati trasferiti in un altro ambiente, migliore...

 

- Come vivono in questo reparto?

1° inf. Qui fanno un tipo di vita amorfa, vege­tativa (pausa) veramente deprimente. Vede, qui ci sono 57 morti che se ne stanno continuamente seduti e si alzano solo per svolgere le loro funzioni naturali. Inoltre il rapporto tra malato e malato non esiste. Sì e no qualche parola se si cerca di spostarli perché, come ripeto, il loro stato di cronicizzazione è talmente avanzato che sono ridotti a una totale rassegnazione, (pausa) e nel memento in cui uno sprazzo vitale illumina loro la situazione in cui si trovano, tentano di suicidarsi.

 

- Tutti i medici che abbiamo avvicinato si sono dimostrati insoddisfatti della situazione ospedaliera. Per quale motivo, dunque, non si riesce a superare i particolarismi, a creare un blocco omogeneo per cambiare aria?

1° inf.  La risposta che do io come infermiere è che c'è poca sensibilità da parte dei medici, (pausa) e poi ci sono i loro grossi guadagni: dal momento in cui la pancia è piena ci si adagia completamente e non si reagisce più. Certo non tutti i medici hanno lo stesso stipendio e questo serve a dividerli. Se si realizzasse realmente una situazione collaborativa tra infermiere e medico, certamente l'infermiere si metterebbe -in toto- dalla parte della nuova psichiatria e di una nuova conduzione dell'ospedale psichiatrico. Invece si registra il contrario. Ne è un esempio il licenziamento di un infermiere che, in sede di assemblea, ha avuto il torto di dire: È ora che questi medici scendano dallOlimpo. Questo dimostra che le cose non si cambiano solo a parole. Bisogna cambiarle sul piano operativo, dimostrare insomma che è possibile una conduzione diversa.

 

- Voi vi sentite carcerieri? È possibile non es­serlo, se si lascia immutata l'attuale struttura?

2° inf.: Anche se a parole si può dire di pensarla, diversamente, si verifica, nei medici e nel perso­nale, una certa "abitudine" alla situazione, cioè gli anni ristabiliscono un qualcosa che diventa cro­nico. Infatti la critica alle vecchie strutture è stata posta - in massima parte - da chi non conosceva l'ospedale e appena arrivato ha visto con chia­rezza le cose che non andavano e che ai "vecchi" sembravano ovvie. Il discorso sull'assuefazione vale anche per l'infermiere. È vero che esiste una punta d'avanguardia, ma c'è anche "una coda" alla quale dei nuovi metodi non interessa niente. Del resto ogni esperienza nuova comporta problemi e difficoltà maggiori, maggiori rischi, (pausa) ma mentre ci può essere per gli infermieri qualcosa che li assolva - date le scarse cognizioni sul piano tecnico - per il medico è diverso.

3° inf.: Il personale è costretto ad essere carceriere... Se si eliminassero una volta per tutte queste regole fasulle! Ci dovrebbe essere la possibilità di vivere con l'ammalato, di conoscere i suoi problemi, i suoi desideri, le sue apprensioni... per dargli una mano.

 

- Ma che cosa le impedisce di farlo?

1° inf.: Le regole, no!? Per esempio, alcuni anni fa, alcuni di noi si prendevano uno o due ammalati, assumendosi la responsabilità che la legge dava loro e che il direttore loro trasferiva, e li portavano fuori.

 

- E adesso non più?

1° inf.: Adesso le cose sono cambiate. Vengono liberalizzati solo i malati sicuri al 100%, cioè i vecchi ecc., mentre per gli altri è sufficiente un accenno di tentato suicidio sulla cartella clinica perché non vengano più liberalizzati. Comunque la voce esterna che dichiara inumano il comportamento degli infermieri è falsa o, per lo meno, ingiusta. Se a volte l'infermiere pretende dei si­stemi coercitivi non è perché li senta o li voglia, anzi, prima si batte perché questi sistemi non vengano adottati (pausa) ma se vengono minacciati... Recentemente ci si è voluti accusare di avere imposto al reparto 7 le inferriate alle finestre, e proprio da parte del direttore il quale, prima dice: "se fugge qualcuno vai in galera domani" e poi si lamenta del comportamento dell'infermiere, che è costretto a prendere le sue precauzioni! Comunque qui dentro nessuno dirà no all'apertura dei reparti, purché gli altri membri del personale e soprattutto i medici si assumano le proprie responsabilità per una gestione diversa. Ma se ti promettono la galera...

2°inf.: Sa cosa succede in questo e in qualche al­tro reparto? Il medico arriva, si affaccia, alla porta e fa: “c’è niente?”.Tutto il peso dell'anda­mento dei reparti ricade su di noi.

 

 - Gli infermieri di che estrazione sociale sono?

 2° inf.: Bassa, bassissima!

 

- Operai?

2° inf.: Neanche. È gente quasi sempre alla prima occupazione.

 

- Come si diventa infermieri?

1° inf.: C'è un corso di sei mesi di preparazione. Poca roba...

 

- E posseggono "cultura" e "robusta costituzione" come vuole la legge?

e 2° inf. ridono.

3° inf.: Voi avete detto tante belle cose... per il futuro. Ma è il presente che conta; e nel presente non si fa niente. Rimane tutto lettera morta. Avete anche parlato di un’avanguardia e di una coda, ma perché quando "la coda" fa delle richieste non le appoggiate? Qui al reparto ci sono solo cinque locali per il bagno con 57 malati e manca l'acqua calda. Come si fa a lavarli? Ho fatto più domande io... niente di niente!

2° inf.: Il fatto è che non siamo ancora arrivati a trattare i malati dei reparti chiusi almeno come quelli dei reparti aperti. È sempre la stessa storia: l'infermiere guarda il medico, lo vede assente e menefreghista e segue il suo comportamento. Se per es. in un reparto chiuso un malato mi chiede: Mi fai fare il bagno? magari gli rispondo che l'acqua non c'è - anche se in realtà c'è. Queste cose non succedono nei reparti aperti.

C'è anche da dire che, se nel reparto chiuso faccio fare il bagno a Caio e questo mi muore, magari perché non l’ho assistito, è chiaro che io sono punito a norma di legge.

1° inf.: Ci dovrebbe essere un lavoro di équipe; gli infermieri dorrebbero partecipare a tutti i livelli, non solo "sul piano dell'oro", ma anche "dell'onore", voglio dire della soddisfazione di aver fatto qualcosa di bene. Invece ti mettono sempre di fronte alla legge, che dà tutto il potere a loro. L'infermiere allora ti risponde: "amico mio, tu questo non ce lo ricoveri qui dentro, lo mandi al reparto chiuso". Chiaro? L'infermiere non ce lo vorrebbe mandare, però quando il carico è tutto sulle sue spalle...

 

 

Osservazioni

 

 

Il primo motivo di interesse di questa intervista è costituito dai rapporti che si instaurano tra medici e infermieri. Questi rimproverano a quelli i maggiori compensi, il ruolo più gratificante, l'autorità - che spesso si trasforma in abuso (vedi il caso del licenziamento dell'infermiere che osa rinfacciare ai medici la loro tracotanza) o in terrorismo (vedi il caso del direttore che minaccia la galera); l'indifferenza e la scarsa sensibilità (significativa l’immagine del dottore che si affaccia alla porta del reparto per accertarsi se ci sono novità).

Non si può certo dar loro torto, anche se a fare le spese della conflittualità esistente all'interno dello staff curante sono proprio i malati (ci sono riferimenti precisi: le recenti inferriate applicate al reparto 7, l’episodio del "bagno”, l'illustrazione vivace di questo terribile meccanismo istituzionale da parte dei due maggiori interlocutori). Importantissimo, inoltre, il rilievo del fenomeno di cronicizzazione che colpisce anche il personale curante rendendolo apatico e indifferente ("si verifica una certa abitudine alla situazione, cioè gli anni stabiliscono un qualcosa che diventa cronico"). A volte è invocata "la collaborazione" dei medici per un lavoro d'insieme. Essa è vista sempre, comun­que, come indispensabile per qualsiasi passo avanti.

 

In secondo luogo possiamo rilevare che tra gli stessi infermieri esiste una scarsa coesione. Si parla di "un'avanguardia" e di "una coda" (si osserverà come il 1° e il 2° infermiere ci tengano ad apparire "innovatori". Alla domanda iniziale siamo quasi aggrediti da "ardite" affermazioni sullo smantellamento totale delle strutture manicomiali, senza peraltro ottenere la risposta che appettavamo).

Il 3° infermiere appartiene evidentemente, a giudizio degli altri intervistati, alla "coda" e partecipa scarsamente alla discussione. In un intervento, poi, non esita a manifestare il suo disappunto per il fatto che i colleghi più giovani non abbiano mai appoggiato validamente le sue ri­chieste per ottenere l'acqua calda.

 

Infine ci vengono offerti degli "spaccati" di vita istituzionale assai istruttivi. Si pensi innanzitutto all'esistenza incolore e vegetativa dei "cronici tranquilli": il risultato inumano di una lungadegenza in ospedale. Non parlano, non si muovono, non possono neanche lavarsi, e dire che le autorità hanno fatto dipingere a tinte vivacissime le panche e i tavoli di legno disposti nel cortile! A voler essere maliziosi - e noi de­cisamente lo siamo - si potrebbe pensare a un comportamento sadico dei responsabili alla cura. A sostegno di questa ipotesi registriamo qui che nel cortile dove confluiscono - e "pascolano” i malati del 6, 7 e 8 uomini, hanno fatto costruire due campi di bocce per... negare poi le bocce con la scusa che potevano essere uno strumento di offesa! Siamo ancora più sottili! È di poco tempo fa la decisione che prevede un aumento di stipendio agli psichiatri: si vuole premiare l'ottima riusci­ta del trattamento istituzionale? Sarebbe divertente (se non offrisse reale motivo di scandalo) l'ammissione al reparto dei "pericolosissimi" dei due vecchietti ottuagenari; è decisamente una prassi assurda quella che vuole irrimediabilmente segnato il destino di tutti i tentati suicidi (è evidente che della loro vita la direzione non si preoccupa gran che; quel che le preme è di non essere investita della responsabilità della loro morte, cosa che avverrebbe se fossero "liberalizzati" nei reparti aperti. Se si uccidono - ne esistono casi frequenti, cui l'opinione pubblica ha sempre dato scarsa eco - nei reparti "coatti", questo va a tutto vantaggio di coloro che vedono l'apertura dei reparti come una pericolosa avventura: "Vedi, sì è ammazzato: io l’avevo ietto. Quando uno ci prova una volta puoi star sicuro, che ci riproverà. Quando uno è matto, è matto").

C'è un’ambiguità nella legge psichiatrica difficilmente superabile, "la custodia" viene abbinata alla cura; ma questa, per avere successo, esige l’eliminazione delle sbarre e dei guardiani; quella, per essere efficiente, non esiterà a tramutarsi in detenzione. È lo stesso fenomeno che si verifica per gli ospiti delle "case di pena", dove si pretende di punirli e rieducarli insieme. Come nelle prigioni, inoltre, anche qui il personale "assistenziale" viene racimolato nelle classi più basse della popolazione e, dopo un periodo di preparazione sbrigativa e inadeguata, viene mandato, dietro un compenso di quattro soldi, a mantenere l'ordine barbarico delle istituzioni totali.

 

(29) Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato (Goffman, Asylums, op.cit., pag. 29).

 

Nel corso dell'intervista sono corse parole come "nuova gestione", "conduzione diversa", "liberalizzazione dei reparti", "demolizione delle strutture" ecc. Tutte sottendono un riferimento alla comunità terapeutica, in quanto passo necessario e preliminare per ogni ulteriore discorso (e azione) sugli ospedali psichiatrici e in quanto esperienza attualmente viva e operante in Italia. Alle contraddizioni di fondo in cui essa si è imbattuta dedicheremo l'ultima parte di questo lavoro. Avremmo voluto concedere al problema del "che fare?" uno spazio maggiore, ma la situazione del manicomio anconitano è tale che si dimostra più utile la denuncia o il pamphlet? Piuttosto che una analisi delle prospettive future.

 

Anche la forma da noi osservata nella stesura della tesi ha, volutamente e polemicamente, una struttura a-scientifica e frammentaria. La cosa che più ci premeva era che il malato non apparisse mai come un dato sul quale poter convalidare delle ipotesi più o meno interessanti e umanita­rie. Dovevamo lasciarlo sullo sfondo, come atto di accusa permanente, senza mai coinvolgerlo direttamente: la richiesta di una sua partecipazione, sia pure come oggetto delle nostre premure e attenzioni, avrebbe costituito, da parte nostra, solamente ipocrisia e sentimentalismo. Renderlo l'oggetto di una ricerca di qualsiasi tipo - alla quale, d'altra parte non siamo assolutamente preparate tecnicamente - ci avrebbe impedito di dare sfogo alle nostre sensazioni e alla nostra rabbia. Le abbiamo preferite all'aridità del linguaggio scientifico, ogni volta che potevamo.

 

 

 

7

APPENDICE

 

 

La costituzione di una COMUNITÀ TERAPEUTICA ha una funzione e un valore inalienabili: smaschera la violenza dell'istituzione psichiatrica, dimostra la gratuità e il carattere puramente difensivo delle misure repressive manicomiali, at­traverso l’edificazione di una dimensione istituzionale diversa, dove il malato può gradualmen­te ritrovare un ruolo che lo tolga dalla passività in cui la malattia prima, e l'azione distruttiva dell'istituto poi, lo hanno irrimediabilmente fissato.

Essa è basata su alcuni principi che, almeno inizialmente hanno avuto un forte contenuto eversivo e che hanno contribuito a eliminare il tradizionale rapporto medico-paziente. Per quanto noi si parli di C.T. "tout court", in realtà non ne esiste un modello unico, ma diverse modalità di attuazione. Tutte però (siano esse di ispirazione psicanalitica, o sociologica, o umanitaristica o politica) si rifanno a determinate caratteristi­che comuni, individuate da Clark:

1) libertà di comunicazione;

2) analisi di tutto ciò che accade nella comunità in termini di dinamica individuale e, soprattutto, interpersonale;

3) tendenze alla distruzione del vecchio rapporto d'autorità;

4) possibilità di godere di occasioni di riapprendimento sociale;

5) presenza di una riunione (generalmente) giornaliera di tutta la Comunità.

Proprio dal comma 4) possiamo prendere lo spunto per evidenziare il punto cruciale che finisce per rendere il concetto di C.T. ambiguo.

 

Secondo il processo dell'apprendimento sociale (social learning), la teoria della malattia mentale sarebbe intimamente legata a un processo di deculturazione, per cui certi attributi della personalità adulta matura, come ad es. la capacità di stare con gli altri e di interagire con essi, verrebbero presi per effetto della regressione morbosa. La situazione terapeutica comunitaria, attutendo in qualche modo (v. tolleranza del delirio, interpretazione anziché repressione, dell'acting out) gli urti dell'incontro fra l'individuo malato e gli altri, permetterebbe un processo di riapprendi­mento, di riacculturazione, il cui fine ultimo è la riabilitazione e il reinserimento nella comunità esterna, l'uso di un termine come "acculturazione" (che in genere indica l'accettazione della cultura del "signore" da parte del "servo", e può quindi essere considerato come una sorta di processo di colonizzazione), e l'insistere su una differenza fra una cultura "sana" e una cultura "malata", sembra qui riproporre, in chiave socio-psichiatrica, il recupero di un fondamentale manicheismo borghese che trova, proprio nell'alienità che separa il malato dal sano, la giustificazione alla relegazione dei "folli" fuori del commercio sociale. Ma, dopo gli studi sull'istituzionalizzazione si è anche visto come l'esclusione dal commercio sociale possa essere causa, più che effetto di de-culturazione: la cultura subumana dei "lungodegenti”, relegati da anni in manicomio, ne è, del resto, lo sbocco naturale.

Ci si rende insomma conto che, agendo nell'istituzione, il massimo che venga concesso è l'at­to terapeutico come atto integrante nei confronti della società, quindi un atto che tende a far accettare al malato il fatto di essere un eterno oggetto di violenza, a tutti i livelli. Fatto questo, non resta agli psichiatri che accettare di diventare i nuovi tecnici, delegati dal potere a gestire il terreno, sempre più vasto, delle devianze. Ogni disadattamento a questa società, sarà interpretato in termini di "malattia" e gli psichiatri saranno incaricati di sciogliere, attraverso l'accettazione della sopraffazione, i conflitti sociali. Che significato ha la “psicoterapia della famiglia", oggi tanto in voga, se non l'allargamento della devianza ad un intero nucleo familiare, che si trova, così, a cadere sotto il controllo dei tecnici, che ne devono ricomporre i ruoli più adatti ad un buon inserimento nella nostra società?

 

(1) Da più parti si guarda con esagerata speranza l'avvento della cosiddetta "politica del settore". Sarà bene, perciò, sgombrare la strada dalle troppo facili illusioni e mostrare, anche in questo caso, la parzialità e l'ambi­guità di detta "politica". Il testo è parte della relazione italiana al convegno franco-italiano di Courchevel. Primo tema: Psicoterapia istituzionale e comunità terapeutica, Considerazioni su un'esperienza comunitaria: contributo teorico e pratico a cura di F. Basaglia e del gruppo curante dell'O.P. di Gorizia."Che la politica di settore comporti il van­taggio di offrire un'alternativa al malato fra la malattia e l'istituzione psichiatrica, è un fatto fondamentale (qualora non continui però a ergersi alle spalle del servizio settoriale il manicomio, il che coinciderebbe con l'esistenza -all'interno della C.T.- di "valvole di sicurezza" che garantissero l'eventuale necessità di "isolamenti" temporanei). Tuttavia, anche nel migliore dei casi, il settore potrebbe essere la nuova faccia dell'istituzione della violenza (più mascherata e più velata degli orrori manicomiali) che, dopo aver liberato il malato mentale dalle etichette e dalle sovrastrutture istituzionali, e averlo incluso nella "norma", stabilisce di restringerne i limiti, così da poterlo mantenere sotto controllo, seppure di natura diversa.Il timore è che, se da un lato la degenerazione dell'istituzione psichiatrica ha evidenziato il carattere antiterapeutico e concentrazionale dei nostri asili, esigendone la distruzione, la politica di settore pur diminuendo il numero delle vittime destinate all'istituzione della violenza, tenda a dilatare il campo delle "devianze", assorbendole nella "malattia" e nella "terapia" necessaria. Ci si potrebbe trovare, così, in un mondo dominato dai tecnici, cui il potere darà in mano sempre maggiori possibilità d'azione, purché garantiscano l'ottundimento delle contraddizioni sociali più evidenti.Qual è, in questo caso, la posizione del settore? Non esiste, nella caccia alla prevenzione della malattia, il pericolo di definirla e oggettivarla prima del tempo, senza che mai si riesca ad agire nel cuore della violenza che non può non esserne all'origine? Non è anche il settore nel nostro stesso impasse, qualora voglia rifiutare di chiudersi nella propria ideologia, rifiutando cioè di fornire i tecnici dell'adattamento ad una condizione presentata come dato irriducibile? La nostra perplessità nasce nel momento in cui ci si rende conto che ogni nostro atto - cosciente o no - è sempre un atto politico, che tende cioè a mantenere lo status quo generale. Ci viene spesso rimproverato di voler strumentalizzare politicamente i malati mentali, ma quello di cui ci si rende conto è che i malati sono finora sempre stati politicamente strumentalizzati a favore della società dominante. (Che cos'è la teoria della natura umana come imprevedibile, se non la difesa di chi teme di essere attaccato e, avendo gli strumenti in suo potere, scongiura i pericoli potenziali, inabilitandoli?).

 

Secondo lo schema capitalistico ai subordinati viene concessa libertà di opinione e di azione purché essi, imparando le regole del gioco, rimangano all'interno dei limiti del sistema. Il carattere più criticabile del liberalismo non consiste tanto nel suo margine di illibertà, quanto nella sua tendenza all'integrazione: cioè nella falsa libertà che educa i sottoposti a porre esclusivamente richieste "ragionevoli".

Ecco dunque che la C.T. entra in una contraddizione irrisolvibile.

La stessa verità ci viene proposta, con parole diverse, da un malato che ha vissuto l'esperienza comunitaria: "È inutile che mi invitiate a partecipare alla discussione, a votare; non mi potete dire che siamo tutti uguali, voi siete i medici e noi siamo i ricoverati, e noi siamo rinchiusi e dipendiamo da voi".

 

... Voi siete i medici...

 

Il medico fa parte di una società esterna che egli può anche non condividere e non amare, ma da cui riceve quello stesso potere sociale che gli permette di essere riformatore nelle ore che passa all'ospedale. La liberazione del malato non è necessariamente la sua causa, ed egli, per lo più, non può accettare tanto facilmente di rinunciare totalmente al proprio ruolo, riconoscendo al malato di contestargli totalmente la sua presenza.

 

(2) "Alcuni aspetti formali dell’organizzazione "comunitaria" di una istituzione psichiatrica -specie quando vengono assunti, estrapolati e propagandati nel circuito del consumo popolare di massa - lasciano pensare alla possibilità che una precisa metodica comunitaria riesca a mettere il malato mentale ricoverato nelle condizioni di autogovernarsi; che la dissoluzione della struttura gerarchica verticalizzata esiti inevitabilmente in una ridistribuzione del potere decisionale nelle forme tradizionali "democratiche", parlamentaristiche; che la meta della reintegrazione sociale del malato, con la "internalizzazione del controllo" del suo proprio comportamento sociale si raggiunga attraverso una sorta di autoeducazione attiva alla socialità, che comincia dalla gestione decisionale delle immediate contingenze della vita quotidiana ospedaliera.La grossolana reazione a ogni movimento di rinnovamento istituzionale strumentalizza questa ipotesi di "autogoverno", per agitare lo spettro minaccioso di un potere malato che dovrebbe inevitabilmente prevaricare gli ordinati e rituali fini dell’istituzione psichiatrica.La entusiastica adesione a tale movimento è disposta senz'altro ad accettare, invece, idealizzandola, la possibilità di un auto-governo, tributando al malato, con un meccanismo riparatorio, un riconoscimento di maturità e razionalità che egli dovrebbe applicare, in assenza di ogni contraddizione, in una sorta di irreale "repubblica psichiatrica". Un terzo modo, più abile e più diffuso, di prospettare l'autogoverno, prevede infine un illuminato intervento esterno di guida tecnica, che persegue i suoi determinati fini "terapeutici" e che consente al malato una libertà condizionata nella gestione "democratica" delle problematiche comunitarie.Ma ciascuno di questi atteggiamenti postula come un dato a priori il possesso di un potere reale da parte del malato, e trascura di considerare se, e in quale modo, vi sia stato un reale trasferimento di potere dalle sedi tradizionali - medico, personale di assistenza - al malato.Trascurando ogni analisi concreta del processo di questo eventuale trasferimento di potere, l'autogoverno diventa un mito, strumentalizzato da parti diverse; un mito che viene a far parte di una più vasta mitologia comunitaria.È necessario infatti tenere presente fermamente che, nella situazione asilare tradizionale, il malato, all'atto stesso del suo ricovero, e poi nel corso di tutta la sua degenza ospedaliera, è privato di un qualsiasi potere decisionale, che riguardi sia la sua propria persona, sia, a maggior ragione, la gestione dell'Istituto. Un eventuale spostamento dei rapporti di forza può condizionatamente determinarsi solo in una situazione concreta e con modalità storiche particolari per questa situazione, e può originarsi solo da un atto intenzionale di rovesciamento istituzionale.Un "autogoverno" presuppone un potere, e questo deve essere in grado di tradursi in decisio­ni che valgano a confermare il potere. Allora è lecito chiedersi: quali sono le decisioni reali che si prendono in un'istituzione psichiatrica, e quanta parte in ciascuna di esse ha il malato? Una risposta perfettamente in linea con l'ideologia comunitaria potrebbe essere questa: tutti decidono, tutte le decisioni sono importanti, ma è veramente così, in una comunità terapeutica? (Un analisi dettagliata dei poteri decisionali concessi al malato si può trovare in: Mito e realtà dello autogoverno, di Antonio Slavich, contenuto in L’istituzione negata, op.cit., pag. 181 e segg.)

 

Il medico ha una mentalità di uomo libero e, purtroppo, di borghese, ha un ruolo che è già compromesso con un mandato sociale custodialistico e integrante prima ancora che metta piede in ospedale. Ma, cosa ancora più grave, in ospedale egli si dedica a un'attività che, avendo ben poco di scientifico e di predeterminato, rischia sfortunatamente di rimandarlo di continuo al suo potere (che è potere sociale, politico) sul malato. Anche nella esperienza comunitaria -qualunque sia il grado di maturità raggiunto dalla comunità - starà sempre all'intelligenza medica stabilire, attraverso il riemergere dell'"autorità latente", il prevalere di interessi organizzativi seppure giustificati dalla minaccia di una possibile disintegrazione della comunità. Lo stesso Maxwell Jones sostiene che "quando certi limiti vengono raggiunti, l'autorità latente (del leader) deve entrare in azione, e fare tutti i passi necessari a che non venga minata la fiducia della comunità nelle proprie capacità di controllo".

In questo modo, quella che era sorta come un’esigenza di rinnovamento fondamentale delle istituzioni psichiatriche, cade nel pericolo di co­stituirsi, nelle diverse attuazioni pratiche e nelle conseguenti speculazioni teoriche, come un nuovo tipo di istituzione, più moderna, più efficiente, quindi più gradita al sistema, dato che in essa i rapporti di potere rimangono gli stessi.

... e noi siamo i ricoverati, e siamo rinchiusi e dipendiamo da voi...

Il fatto che la legge non consenta ai malati di uscire da soli dall'ospedale, il fatto che non siano possibili scambi produttivi e reali con la realtà socioeconomica del mondo esterno, il fatto che l'opinione pubblica continui ad essere pesantemente prevenuta nei confronti dei degenti, costituiscono un limite gravissimo alla "libertà" di cui godono i ricoverati all'interno della cerchia manicomiale, e tendono anzi a negare e futilizzare le loro conquiste.

Il malato rischia di diventare ora il "povero malato" che ha pagato per tutti, per il quale necessita progettare nuove strutture a carattere prevalentemente riparatolo. Il "cattivo" malato, la cui tutela doveva essere affidata a un sistema carcerario, rischia di diventare il "buon" malato che si tenta di reintegrare - attraverso nuove strutture terapeutiche - alla società, conservando però intatto il sistema di privilegi, prevaricazioni, paure e pregiudizi che la caratterizzano.

Tutto questo sta a significare che la pur importante distruzione della istituzione mani­comiale non è sufficiente. Non solo bisogna rovesciare (realmente!) il sistema coercitivo punitivo su cui si fonda, ma anche prendere co­scienza del piano globale sul quale il sistema gerarchico-punitivo si inserisce: il che richiede un discorso globale che abbia a precedere quello psichiatrico particolare, o nel quale il discorso psichiatrico specifico possa e­stendersi.

 

(3) "Con questo non si vuol negare che il malato mentale sia un malato. Ma, dall'esperienza che si è andati facendo nel capovolgimento di un'istitu­zione manicomiale, la malattia si rivela molto diversa da ciò che la Psichiatria e l'istituzione psichiatrica hanno finora ritenuto. Molti dei sintomi con i quali il malato è stato etichettato, si affievoliscono e sfumano al cadere delle strutture cui essi risultavano strettamente le­gati, così da richiedere un graduale lavoro di "smistamento" fra ciò che è da ritenersi il nu­cleo del disturbo originario" (F. Basaglia, Le contraddizioni della comunità terapeutica, Minerva Medica Giuliana, vol. 10, n.1, pag.22, Gennaio-Febbraio 1970).

 

Una psichiatria, dunque, che non vuole solo negarsi in quanto non-scienza, ma vuole affermarsi come anti-scienza (se per scienza si intende un'ideologia che si trova sempre a confermare i valori della classe dominante), attraverso il passaggio necessario da una posizione controtrasferale a una dialettica.

Infatti il malato mentale, ricoverato e distrutto nei nostri manicomi, non si è rivelato soltanto l'oggetto della violenza di un istitu­to deputato a difendere i sani dalla follia, né soltanto l'oggetto di violenza di una società che rifiuta la malattia mentale: ma è insieme, il povero, il diseredato che, proprio in quanto non ha alcuna forza contrattuale da opporre a questa violenza, cade definitivamente in potere dell'istituto manicomiale.

Di fronte a questa constatazione, ogni discorso puramente tecnico viene a cadere, perché non può procedere oltre se non riproponendo lo smascheramento del carattere classista della psichiatria che, all'interno dei manicomi agisce in un modo e nelle case di cura o nelle psicoterapie individuali agisce in un altro.

 

(4) In generale un rapporto dovrebbe essere tanto terapeutico, quanto più sia problematica la situazione che viene a crearsi; quindi quante più possibilità e alternative siano presenti nel tipo di relazione che si instaura. Tuttavia, se esaminiamo il rapporto psichiatrico in generale, è evidente come la reciprocità e la problematicità come requisiti necessari all'impostazione di un rapporto, esista, in parte, solo nel caso del rapporto terapeutico di tipo aristocratico (il rapporto fra terapeuta e cliente), mentre è sistematicamente negata nel rapporto istituzionale.Nel rapporto aristocratico, infatti, esiste un cero margine di reciprocità sul piano contrattuale. Nella misura in cui il malato fantasmatizza il medico come il depositario di un potere tecnico, gioca contemporaneamente il suo ruolo di depositario di un altro tipo di potere, quel­lo economico, che il medico fantasmatizza in lui. Finché il suo valore sociale corrisponde ad un valore economico effettivo, la reciprocità - seppure al solo livello dei ruoli - sussiste. Ma, una volta che questo venga esaurito, il potere contrattuale con il medico scompare e il pa­ziente si troverà a iniziare la reale "carriera del malato mentale" nel luogo dove la sua figura sociale non ha più peso né valore. Entra cioè nella dimensione del rapporto isti­tuzionale, dove questa reciprocità (seppure di natura tanto ambigua) non esiste, né la sua assenza viene in alcun modo mascherata. (dalla già citata relazione italiana).

 

Se nella realtà pratica si è riusciti a individuare che esistono due psichiatrie - quella dei ricchi e quella dei poveri - è ben difficile continuare a definire solo in termini tecnico-scientifici, ciò che è intessuto anche di motivazioni politico-sociali.

 

(5) "Se è vero che la politica non guarisce i malati mentali, si può paradossalmente rispondere che però ci si ammala con una definizione che ha un preciso significato politico, nel senso che la definizione di malattia serve, in questo caso, a mantenere intatti i valori di norma messi in discussione. Che poi che cade sotto le sanzioni più rigide nel momento in cui oltrepassa il confine, sia sempre chi non dispone di uno spazio privato dove poter esprimere - al sicuro - la propria devianza, non è che una conseguenza logica di una premessa implicita nel tipo di organizzazione sociale in cui siamo inseriti" (F. e F. Basaglia, La maggioranza deviante, op. cit. pag.32)

 

Il problema diventa: come riuscire a svincolarsi da un'attività perpetuamente confinata nei limiti del riformismo? Una volta riconosciuto che il profitto e la salute, gli interessi padronali e la distruzione delle istituzioni sono inconciliabili tra loro, che fare?

Lasciamo la risposta a quello che fu il gruppo curante dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia: "Nella misura in cui l'equipe non riuscirà a collegarsi a un movimento veramente rivoluzionario ed eversivo sul piano sociale, essa non riuscirà neppure a mutare la propria mentalità, la propria morale, la propria concezione del mondo.

Se mancherà una lotta rivoluzionaria, cioè una battaglia politica nel senso stretto del termine, l'équipe non riuscirà a forgiare gli strumenti per il proprio rinnovamento interno: resterà una équipe borghese in un mondo borghese.

Questa équipe potrà solo tendere alla pre­figurazione dei rapporti sociali di tipo diverso, ma non potrà porli in atto: il suo sa­rà un lavoro parziale e indicativo".