Un disabile in famiglia. La forza della speranza.
F. Cardinali - in Appunti, n. 3/1991
Una catastrofe
E' un dramma. Forse il più inaccettabile per un genitore. Senz'altro il più temuto. Provate a chiedere ad una donna incinta che cos'è che le fa più paura pensando alla sua gravidanza, vi sentirete rispondere: "Avere un figlio che non sia sano". Chiedete ancora a lei e a suo marito: "Come vorreste vostro figlio", vi sentirete ancora rispondere: "L'importante è che sia sano e libero".
Eppure anche questo può capitare. E' capitato in tutte le famiglie con un figlio handicappato.
Meno importa che l'handicap sia già presente alla nascita o che insorga successivamente, per una malattia o un trauma; meno importa che esso sia fisico o psichico; meno importa perfino il livello di gravità, almeno in un primo momento. Ciò che conta è che handicap è sinonimo di catastrofe. Lo è per i genitori; lo è per i nonni; lo è per tutti i familiari; zii, zie, fratelli... lo è perfino per i vicini e per tutti coloro che conoscono o conosceranno questa famiglia, che verrà indicata, d'ora in poi, come "quelli che hanno quel figlio..." (le parole che seguono possono essere le più diverse, a seconda di chi lo dice e a chi lo sta dicendo: 'handicappato', 'poverino', 'con quel problema', 'minorato', 'disgraziato', ecc.).
La forza della speranza
Oramai è successo. Come dopo un terremoto si va alla ricerca delle persone e delle cose ancora da salvare, così, con il coraggio della speranza, la vita poco a poco riafferma la sua forza e riprende quello spazio che la morte, attraverso la malattia, sembrava averle usurpato.
Comincia così una nuova storia. E' una storia di ricerca, di speranza che tenta di prevalere sulla disperazione, una storia di dolore e di sofferenza: la via crucis di una famiglia che sa di dover salire il suo calvario, alla ricerca di qualcuno che possa alleggerirle il peso di una croce il cui significato rimane ancora lontano dalla comprensione e, come ogni altra croce del resto, estremamente difficile da accettare.
Ciò nonostante andiamo avanti. Da uno specialista all'altro, da un servizio all'altro, da una cura all'altra, sempre nella speranza di ridare a sé stessi e al proprio figlio una ragione per vivere.
La solitudine
Lungo la strada, però, ci si ritrova da soli. Gli altri ti dicono che ti stanno vicini, che ti capiscono, che soffrono con te. Ma a loro è concesso ciò che tu non puoi permetterti: si possono concedere un tempo e uno spazio in cui non c'è l'handicap, la disgrazia. Tu non puoi. Ventiquattro ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni l'anno e per tutti gli anni che vedi di fronte, tuo figlio è un handicappato: tuo figlio.
Allora vai alla ricerca delle ragioni, delle cause, ma senti che più ne cerchi, più te ne suggeriscono, più ne senti dire, meno ti convincono, ma soprattutto meno ti senti consolato. La tua mente e il tuo cuore cercano ancora una risposta che non riescono a trovare.
La tua mente, pian piano sembra farcela: ti dicono che tu non c'entri per niente in quanto è accaduto, che non hai nessuna colpa, che questi fatti purtroppo avvengono ed è capitato a te come poteva capitare - com'è già capitato e come capiterà ancora - ad altri. Cominci a fartene una ragione. Il tuo cuore, però, si ribella, non può accettare che un bambino debba pagare un così alto prezzo per vivere, meno ancora può accettarlo se questo bambino è tuo figlio.
Senti che neanche tuo marito (o tua moglie) ti capisce fino in fondo; neanche tuo padre, tua madre, i tuoi suoceri riescono a sentire quello che senti tu. E ti ritrovi solo con i tuoi pensieri.
Per non parlare dei tuoi progetti.
L'avvenire di un'illusione
I progetti. Chi non fa progetti sui propri figli! Siamo spesso così attaccati ai nostri pensieri e ai nostri disegni su di loro da arrivare perfino a non accorgerci quando li portiamo ad ascoltare più noi che loro stessi: come se dimenticassimo, tutto in una volta, che la loro vita appartiene a loro e non a noi. Come se dimenticassimo che a noi essa è stata non data, ma "affidata in custodia" in attesa che essi siano in grado di prenderla nelle loro mani e di spenderla nella realizzazione dei loro progetti.
Chi aveva progettato qualcosa per un figlio, pensandolo handicappato? Di certo nessuno. Eppure ora ci si deve fare i conti.
Tutto sembra crollare. Il suo avvenire. "Che farà da grande?" è una domanda che tutti ci facciamo pensando ai figli, ma quella che si fa il genitore di un handicappato assume un significato tutto particolare. E' un po' come se si chiedesse: ce la farà da grande? Come farà quando non ci saremo più noi? Chi penserà a lui? Come lo tratteranno?
E di nuovo il ciclone che si è abbattuto su questa casa sembra ritornare, come in un vortice inarrestabile. Non solo il presente, ma anche il futuro è segnato dall'handicap. E' come un cielo grigio, denso di pioggia, che non se ne vuole andare; è un cielo che ha dimenticato; la minaccia incombente ha diffuso ovunque il suo colore.
Che progetti possiamo fare? Ti accorgi che le attese, le speranze, i sogni, i desideri, i progetti - tutto quanto insomma dà significato alla vita degli uomini - a te è come se fosse negato. A te, come a tuo figlio. La famiglia comincia così, pian piano, ad entrare in un'altra dimensione: la difesa ad oltranza.
Il muro di cinta
Il bambino con l'handicap diventa così il centro di ogni attenzione, il polo che attrae ogni energia. La famiglia si chiude intorno a questa persona più debole come a volerla difendere dai pericoli della vita e come a voler difendere sé stessa dalle esperienze di rifiuto e di solitudine che ha dovuto fin qui raccogliere. E' il rischio della morte, del suicidio, lento, ma efficace, perché inesorabile. Tutto si fa per questo bambino e qualunque cosa si può realizzare va fatta per lui.
Perfino gli altri figli rischiano di essere messi da parte, o comunque in secondo piano. C'è magari un fratellino, di pochi anni anche lui, ma da quando in casa è entrato l'handicap lui deve diventare improvvisamente grande e autosufficiente, da ogni punto di vista, perfino nei suoi bisogni affettivi. I genitori si sentono di dover dare tutto al più sfortunato, come se un bambino che ha un fratello handicappato non avesse lo stesso diritto e lo stesso bisogno di attenzione e di affetto che ha ogni altro figlio.
Che dire poi dei genitori? Se già è così difficile conservare e alimentare uno spazio di coppia tra i coniugi quando cominciano a venire i figli, figuriamoci in una situazione come questa. Ogni richiesta di attenzione che un uomo può fare alla sua donna o una donna al suo compagno viene vissuta come un furto ai danni di questo "povero figlio". I due coniugi cominciano a non frequentare più gli amici, a non andare a casa degli altri e a non invitare gli altri in casa propria, come se dovessero vergognarsi di qualche cosa. Rischiano di chiudersi sempre più in loro stessi, di paralizzare i loro sentimenti, il loro affetto, il loro bisogno di tenerezza, di sesso, di attenzioni.
Un handicap sull'handicap
Il gioco diventa sempre più pesante. E pericoloso.
Le difficoltà di conservare uno spazio per i coniugi, come marito e moglie; le difficoltà di un fratello nel trovare una risposta ai suoi bisogni di attenzione e di affetto; i problemi che nascono nell'uscire di casa e nell'entrare in relazione con gli altri; questo, e altro ancora, ci appare come un nuovo handicap che s'innesta su quello già presente. E' un po' come se i problemi sapessero solo produrre altri problemi.
Certo che tutto questo non facilita il recupero. Se già la vita sembra richiedere tanta energia per superare quei momenti difficili che incontriamo, in una situazione così si ha la sensazione, molto spesso, che l'energia si esaurisca. Eppure non ci si può arrendere. Il recupero, la ripresa, la riabilitazione, la crescita attendono che si salga, come su un treno, per procedere verso la vita.
Proprio perché il recupero, la ripresa, la riabilitazione, la crescita sono possibili. E' il recupero della speranza e del senso della vita il cui significato non si può lasciar nascondere dietro la maschera dell'handicap.
Dietro la maschera
Dietro la maschera dell'handicap c'è una persona. La maschera può essere spessa, brutta, pesante, ma è sempre una maschera: è necessario guardare oltre per trovare chi vi è nascosto.
Allora pian piano si comincia a sentire che l'handicap - che prima sembrava esaurire tutta un'identità - può essere oltrepassato e la scoperta è grande. C'è una persona. E' una persona con un handicap, ma è prima di tutto una persona.
Scoprirlo è un cammino lungo, difficile, ma inevitabile. E' inevitabile per la famiglia. E' inevitabile per tutti gli altri.
Ancora ce ne difendiamo, a volte. Se ne difendono gli uomini della politica; se ne difendono gli operatori della sanità; possono difendersene i datori di lavoro, gli insegnanti, le persone comuni. Ma è una difesa: è un non voler vedere, anzi, un non voler guardare, perché consapevoli che guardare oltre la maschera ci fa incontrare una persona. Una persona come siamo persone noi. Con un cuore, una mente, dei desideri, dei bisogni, perfino dei progetti...
A questo punto non possiamo più dire e dirci "è un handicappato". Dovremo dire, e dirci "è una persona" che appartiene alla stessa umanità cui apparteniamo noi ed è parte della stessa società di cui noi siamo parte, con gli stessi diritti che riconosciamo a noi stessi.
Per chi è arrivato a leggere fin qui...
Due cose.
La prima. Mi rendo conto che è un viaggio difficile quello che vi ho fatto fare. E' un viaggio che io stesso ho dovuto fare da quando ho incontrato nella mia vita quelle persone che prima sentivo diverse da me, come appartenenti ad un'altra razza, meglio - anzi, peggio - ad un'altra specie.
Il viaggio si è fatto più arduo perché siamo entrati negli spazi privati delle persone: gli spazi dei sentimenti. E ci siamo entrati pensando. Forse ci è meno difficile cogliere le difficoltà esterne che una famiglia incontra al momento di accompagnare il proprio figlio nelle varie tappe della vita: quando va a scuola, quando deve andare per strada, quando cerca un posto di lavoro, quando cerca un'assistenza adeguata e un aiuto per le necessità quotidiane... E' certo più difficile coglierne il mondo interno.
La seconda. Abbiamo cercato di muoverci nelle aree del pensiero. La capacità di farlo è la ricchezza dell'uomo.
Spesso ci chiediamo "cosa fare" per dare un aiuto a queste persone. Allora cerchiamo di inventare soluzioni, di creare progetti, di organizzare servizi.
Quasi mai, però, ci chiediamo "cosa pensare". Un fare non alimentato da un pensare è vuoto. Come vuoti rischiano di essere, purtroppo, tanti interventi sull'handicap: tecnicamente belli e "scientificamente" corretti, ma senza un'anima che li sostenga. Vuoti, senz'anima.
Forse ancora ci fa paura pensare che un giorno ce la faremo a scoprire che la presenza degli handicappati non è solo un peso o una disgrazia per l'umanità, ma anche una ricchezza...
APPUNTI, periodico del Gruppo di Solidarietà di Moie di Maiolati (Ancona), settembre 1991.