Partorire... e poi?
di F. Cardinali - in Quaderno Montessori, primavera 1988
In molti ospedali italiani ci si pone ormai da tempo il problema di come garantire alla donna la possibilità di partorire in modo più fisiologico, cioè 'naturale', all'interno di una struttura ospedaliera. Si parla allora di posizioni alternative alla classica e innaturale litotomica, di presenza in sala parto del compagno o di altra persona che la donna preferisce; in alcuni ospedali si è addirittura strutturata, in altri lo si sta facendo, una stanza alternativa alla tradizionale sala parto dove la donna avrebbe la garanzia di veder rispettati i suoi tempi naturali e la possibilità di sentirsi un po’ più in casa e meno in ospedale.
Questo movimento è senz’altro una buona cosa e un buon segno: tutto quanto serve a rendere ‘meno ospedaliero’ sia la degenza che il lavoro all'interno di un ospedale è segno di civiltà.
Come psicologo, però, mi si pone di forza una domanda: partorire in un ambiente a misura d’uomo e non a misura di un’istituzione è necessario che avvenga; dopo, però? Subito dopo questo parto che cosa succede?
Io penso che non si può ridurre la nascita al parto; e su questo, credo, siamo tutti d'accordo. Se mi è permesso semplificare all’osso la differenza fra questi due momenti, potrei dire che il parto è un momento, estremamente importante, ma pur sempre un momento di una nascita. Non è così semplice, anzi è piuttosto riduttivo rispetto alla verità delle cose: fare questa distinzione ci serve, però, per capirci.
Proviamo a guardare la nascita, ora, dal punto di vista del bambino.
Appena nato, subito, o dopo qualche minuto - in alcuni casi ‘fortunati’, dopo una decina di minuti - il bambino viene preso e portato via, viene lavato e viene messo, tutto solo, nel nido. Passa lì le prime ore di vita e i primi giorni. Dopo aver vissuto ininterrottamente per nove mesi insieme con la madre, dopo aver affrontato la fatica di nascere (perché anche lui fatica, insieme alla madre), si ritrova tutto solo: abbandonato?!
Chi sa cosa penserà... Certo è che improvvisamente non trova e non sente più il calore del corpo materno, il ritmo del suo cuore che lo ha cullato per tanto tempo, il suo odore, la sua voce così rassicurante: quello che può sentire è qualche strillo di altri ‘compagni di sventura’ nati poco prima di lui, o le voci, affettuose ma certo estranee, delle puericultrici o delle infermiere che lo accudiscono.
Solo dopo qualche ora, alla prima poppata, può tornare a risentire quella persona che lui già conosce e dalla quale era stato separato. Gli è concesso di starci un po’, poi di nuovo viene ripreso da mani estranee, affettuose, ma sempre estranee, e riportato nella ‘solitudine’ del nido. Lì può dormire, può piangere, ma da lì non può tornare dalla madre finché l'organizzazione del reparto non lo consente.
Tutto questo può durare due, tre giorni o anche di più: poco per noi, ma per lui sono un’eternità! Non è un gran ‘benvenuto!’ quello che gli diamo.
C’è però anche un'altra persona che ha subito una separazione altrettanto improvvisa e ‘forzata’: la madre.
Lei ora è in camera, con altre donne, e non ha più il suo bambino con sé. Certo, lei è una persona adulta, ha imparato a ragionare e la ragione l’aiuta a tollerare la separazione, appesantita dalla lontananza; il suo istinto però fatica ad accettarla. I primi momenti (ore, giorni) sono molto importanti perché questa donna possa sviluppare quello che noi chiamiamo l’istinto materno e possa così dare a sé stessa e al bambino l’aiuto necessario ad accettare la separazione che sarà, d’ora in poi, il loro nuovo stile di vita. Perché tutto questo possa avvenire è necessario che la madre e il bambino possano stare vicini, che si possano sentire attraverso il contatto pelle a pelle, odore a odore, voce a voce.
Tante crisi depressive (che impropriamente vengono chiamate "stanchezza") non insorgerebbero se un legame cresciuto per nove mesi non venisse forzatamente negato.
Certo che... se è vero che "chi ben incomincia è a metà dell'opera", la vita di un bambino separato forzato comincia proprio male; e quella di una madre non certo meno.
La separazione, ora solo iniziata, dovrà continuare in un processo che accompagnerà il bambino e l'adulto per tutta la vita nelle successive tappe evolutive. Gli stadi successivi ne favoriranno il completamento, ma l’efficacia risulterà tanto maggiore quanto più l’inizio è stato buono; fino al punto che in alcune situazioni particolari questo legame madre-figlio mal risolto lascerà un segno indelebile nella personalità del giovane e dell'adulto.
Queste considerazioni, ovvie e ormai largamente acquisite dalla psicologia e dalla pediatria contemporanee, dovrebbero portarci a incoraggiare e potenziare quei progetti miranti a favorire una riorganizzazione dei reparti di Maternità che porti al superamento dei Nidi e a creare le condizioni perché la madre e il bambino abbiano la possibilità di restare insieme (con uno spazio maggiore anche per i padri) nei giorni di permanenza in ospedale che seguono il parto.
Limitare l’intervento al solo momento del parto perché esso possa aver luogo secondo i suoi ritmi fisiologici e non affrontare contemporaneamente il problema del superamento dell’attuale regime di separazione forzata madre-bambino, mi pare un po’ come se, volendo organizzare un grande pranzo, ci preoccupassimo di servire un antipasto succulento e prelibato e costringessimo poi gli invitati a mangiare dei primi e dei secondi stantii e avariati.
In sintesi: se disporre della possibilità di avere un parto ‘naturale’ è utile, creare contemporaneamente le condizioni perché le madri e i bambini non siano forzatamente separati in questi primi giorni che seguono il parto e la nascita è assolutamente necessario.
Pubblicato su QUADERNO MONTESSORI, primavera 1988