La formazione e la supervisione
Tutela dell'operatore e tutela del paziente

 

di F. Cardinali - in Il destino delle comunità terapeutiche, Atti del Convegno Regionale "Le comunità terapeutiche nelle Marche: quali prospettive", Ancona, 1992

PREMESSA 1

Volersi occupare del paziente e non mettere la stessa cura nell'occuparsi della salute dell'operatore è come voler costruire un edificio senza garantirsi la solidità e la stabilità del terreno su cui porre le fondamenta. 
Sembra così ovvio, eppure troppo spesso proprio i servizi sociali e sanitari, che dovrebbero essere maestri agli altri in questa attenzione, sono i primi a non tutelare la salute dei propri operatori. Ma, come si dice, che il calzolaio vada in giro con le scarpe rotte sembra essere ancora una volta una triste verità... 
Aver deciso, tuttavia, di parlare oggi, in questo contesto, di FORMAZIONE e SUPERVISIONE significa che negli operatori sta maturando una presa di coscienza sulla necessità e irrinunciabilità del prendersi carico anche di sé stessi. E' infatti proprio all'interno di questo progetto di "tutela dell'operatore" che ritengo i due processi vadano collocati, come i pilastri portanti di un medesimo disegno. 
Non è un lusso, né un privilegio esigere attenzione alla propria salute (= benessere) come operatore: è il segno della consapevolezza che non si può dare ciò che non si ha. Non ci si può occupare del recupero e del benessere dei pazienti se non si dispone degli strumenti necessari per farlo. E voi siete i primi a sostenere che lo strumento principale del vostro intervento - lo riprenderemo meglio fra poco - siete proprio voi stessi, con la vostra capacità di favorire e garantire le condizioni perché la C.T. diventi il luogo di accoglienza e di contenimento, per la necessaria elaborazione, dei bisogni dei ragazzi con cui siete chiamati a lavorare. 
E' su questa premessa che si basa la mia relazione. Per meglio chiarire il mio pensiero l'ho organizzata in tre parti. 
Nella prima intendo richiamare alcuni degli aspetti che, a mio parere, contribuiscono a definire il contesto operativo della C.T. che si propone con tutto il suo carico di potenziale tensivo in direzione di un profondo coinvolgimento emozionale dell'operatore, sia come singolo che come membro di una équipe terapeutica. 
Nella seconda e nella terza parte - dedicate rispettivamente alla FORMAZIONE e alla SUPERVISIONE - provo a fornire alcune riflessioni su questi processi come luogo necessario in cui ricercare e costruire risposte adeguate ai bisogni di una professionalità che si esplica in tale contesto operativo.

 

I.
IL CONTESTO OPERATIVO DELLA C.T.
un contesto ad alta tensione 

 

Non è pensabile che il professionista dell'intervento in C.T. possa considerarsi, e venire considerato, come un tecnico di laboratorio che applica le sue conoscenze intervenendo in un regime di totale asepsi, nella neutralità di un fare non integrato da un sentire, per di più sostenuto da un sistema immunitario emozionale inespugnabile. E' ormai un dato acquisito che perfino di fronte alla malattia organica la persona del medico è il primo farmaco per il malato; figuriamoci in un rapporto terapeutico, quale quello che si innesca in un C.T., quanta richiesta e necessità di coinvolgimento per l'operatore nella sua dimensione di persona! 
Lo strumento terapeutico, in un contesto di C.T., è la comunità stessa. Non può essere dimenticato, però, che il singolo operatore e l'équipe nel suo insieme ne sono parte irrinunciabilmente integrante: è loro il compito di esserne i custodi, attenti e responsabili, al fine di garantirne quel funzionamento "sufficientemente buono" che solo ne fa emergere la terapeuticità. 
Essi, gli operatori, si collocano su un piano differenziato rispetto agli ospiti, appartengono ad una generazione diversa: quella che, in ambito familiare, occupano i genitori rispetto ai figli. (Parlo ovviamente di generazioni in senso funzionale e non cronologico: anzi, è proprio la mancanza dell'elemento età, come discriminante, che può rendere talora più difficile da reggere la diversità di appartenenza generazionale tra operatori e ospiti). La loro funzione è di garantire un contesto di contenimento terapeutico per chi, per contratto, chiede di poter recuperare o ri-costruire le proprie coordinate esistenziali. 
La terapia, o processo terapeutico, si snoda ed evolve lungo la strada della relazione terapeutica. Gli strumenti di mediazione (= le regole della comunità) possono svolgere la loro funzione solo se collocati e sostenuti dalla relazione terapeutica che è una relazione tra persone, con ruoli, funzioni e responsabilità chiari e definiti. 
L'operatore di C.T. non può essere collocato sullo stesso piano, per esempio, degli impiegati dei ruoli amministrativi o tecnici. (Ciò sia detto con tutto il rispetto che si deve a questi lavoratori e alla loro attività). Nessuno può negare che il rapporto con le carte, pure frustrante quanto si voglia, non mette in gioco quei livelli emozionali profondi che la relazione terapeutica chiede all'operatore come persona. Non è la capacità di gestire un bilancio o di combinare nel giusto dosaggio il ferro e il cemento: ciò che si chiede all'operatore è la capacità di cogliere e contenere, per favorirne l'elaborazione, le ansie e le angosce di chi sente i propri confini dissolti e la propria pelle incapace di garantire l'integrità e l'identità dell’io. 
L'operatore, nella sua dimensione personale di uomo pensante e di soggetto emozionale, si trova faccia a faccia con l'altro che, per definizione, per contratto, diremmo, si presenta come portatore di disintegrazione. Il gioco terapeutico è qui: il compito dell'operatore è quello di stimolare le energie presenti nei singoli e nella comunità come realtà sovraindividuale, perché siano orientate verso il lavoro di ri-costruzione che i ragazzi ospiti, per contratto, chiedono di poter fare. 

A questo aspetto, che delinea la peculiarità e l'impegno del lavoro terapeutico della C.T., credo debbano essere aggiunti, oggi, due punti particolari da prendere in considerazione in tutta la loro portata, se si vuol cogliere più a pieno il potenziale tensivo. 
Il primo, pure piuttosto vecchio nel tempo, tuttavia riconfermato, mi pare, dalle varie disposizioni di legge che via via si sono succedute, nasce dal fatto che, se pure da una parte c'è una presa di coscienza maggiore della complessità del problema "tossicodipendenza", dall'altra, però, si continua nel pensiero e nella prassi di una delega quasi totale alle comunità (più o meno coadiuvate dal servizio pubblico). Ora, questa delega, anche se su un piano di pura razionalità - direi, quasi, ragionevolezza - voi siete i primi a sostenere che non si può accettare, su un piano emozionale, però, [essa] ha buon gioco nell’alimentare sensi di inadeguatezza, autopercezioni di inutilità di fronte al continuo estendersi del problema, quando non addirittura sensi di colpa perché incapaci di risolverlo 2
L'altro aspetto, più nuovo e ancora troppo recente per non subirne lo sconcerto, è l'intrusione dell'AIDS. Con esso è entrata a forza la MORTE come ospite a pieno diritto della C.T., come compagna visibile nel cammino di ricostruzione e parte ineliminabile nel progetto terapeutico. Nel Viaggio a Ixtlan (Castaneda, 1972) don Juan ricorda che la morte cammina al nostro fianco restando qualche passo dietro di noi, che è pertanto necessario, ogni tanto, voltarsi indietro per farci conoscenza, così da non esserne sorpresi e impauriti quando essa ci raggiunge. Io credo che nella C.T., oggi, la morte si è presa il permesso di non rispettare più questa distanza di sicurezza: essa cammina fianco a fianco, dorme nello stesso letto e siede nella sedia accanto. 
Il compito di contenere la tensione che essa porta con sé, dentro la casa della comunità, nella mente dei ragazzi e delle loro famiglie, perché possa diventare terapeutica, appartiene alla comunità stessa. Ancona una volta, però, non possiamo che riconsiderare e richiamarci la funzione contenitiva che l'équipe terapeutica è chiamata a svolgere nella comunità. 
Ora, la complessità e il carico di questa funzione di contenimento e di stimolo, di accoglienza e di promozione, in un contesto di contatto quotidiano con la sofferenza, pongono l'operatore singolo, e l'équipe nel suo insieme, in una situazione di stress emozionale che, quando non sufficientemente gestita e priva di un luogo di accoglienza adeguato, sfocia in quella condizione di logoramento personale e di impoverimento delle capacità terapeutiche che chiamiamo sindrome del burn-out. Impoverimento emotivo, perdita d’interesse, cinismo, irritabilità a fior di pelle, insofferenza, chiusura intellettuale, tensioni continue tra colleghi, appaiono come tante tessere di questo quadro sindromico.  * * *   
Per comprenderne a pieno la funzione e per non perderne il carattere di necessità per gli operatori, è in questo contesto che io ritengo si debbano collocare sia la richiesta e l'offerta di FORMAZIONE che l'intervento di SUPERVISIONE. 
Pur nella consapevolezza che i due processi si sviluppano su aree contigue, con momenti di confluenza e d’integrazione, credo tuttavia che sia necessario operare una buona definizione per avere ben chiaro che cosa si può chiedere e qual è l'obiettivo che ci si propone di raggiungere, prioritariamente, attraverso l'uno o l'altro di questi programmi 3.

 

II.
La FORMAZIONE  come processo trasformativo

 

Una buona definizione di partenza per parlare della FORMAZIONE mi pare quella che dà L. Frighi (1987): egli parla di "un processo trasformativo in cui l’ampliamento degli orizzonti culturali deriva non solo dall’apprendimento di nozioni, ma dalla capacità di legare ciò che si sa con ciò che si sente". 
Senza voler spiegare ulteriormente quanto mi pare già sufficientemente chiaro in questa definizione e, del resto, penso, ampiamente condiviso da voi, ritengo utile sottolineare i due aspetti che, a mio parere, sono obiettivi irrinunciabili in un progetto di FORMAZIONE. 
Il primo è l'apprendimento di nuove conoscenze: l'ampliamento degli orizzonti culturali avviene attraverso lo studio, inteso nel senso classico del termine, come lettura di testi ed approfondimento di un’epistemologia e la conseguente acquisizione di un'ottica scientifica e di una metodica di analisi e di intervento. 
Il secondo è che parlare di formazione significa necessariamente parlare di trasformazione dell'operatore: essa si realizza in misura direttamente proporzionale all'ampliamento delle vie di collegamento e di comunicazione tra il sapere (processo che appartiene alla dimensione dell’IO, razionale) e il sentire (processo proprio del SE', emozionale). 
Per l'operatore che decide di essere parte di un progetto di formazione, il processo trasformativo che lo trova coinvolto si traduce in processo maturativo, sia personale che, naturalmente, professionale. Saranno proprio il guadagno in termini personali e la solidità sul piano più propriamente professionale che diventano, giocoforza, tutela per l'utente e garanzia per il suo progetto terapeutico. 
Tanto più questo avviene, a mio parere, quanto più un progetto di formazione riesce a coinvolgere un'intera équipe terapeutica. Se tutti gli operatori che intervengono nella stessa comunità possono costruire un linguaggio comune, scientificamente fondato e professionalmente condiviso, il loro intervento non può che guadagnarne in coerenza educativa e in stabilità e solidità progettuale, a tutela sia della propria identità che, naturalmente, dello stesso progetto terapeutico. 
Al programma di formazione gli operatori possono dunque chiedere la possibilità di costruire le basi della propria professionalità, consolidate anche da un punto di vista epistemologico. 

Una nota. Essendo la vostra una professionalità specifica, ciò richiede o che i progetti di formazione siano specifici, o che, per lo meno, abbiano al loro interno un'area riservata all'analisi e all'approfondimento della peculiarità del vostro lavoro.
Certo che il discorso andrebbe approfondito, ma ritengo di dovermi fermare qui per oggi. Voglio solo sottolineare come queste considerazioni ci aiutano ad evidenziare, ancora una volta, quanto il lavoro per la "tutela dell'operatore" sia, allo stesso tempo, premessa e realizzazione della "tutela dell'utente".

 


III.
La SUPERVISIONE  come spazio per l'operatore 

 

E la supervisione? E' anche questo uno spazio necessario, o non diventa piuttosto un lusso o una moda? 
Per SUPERVISIONE con una équipe di C.T. io intendo il luogo in cui le tensioni dell'operatore come singolo e dell'équipe terapeutica come insieme - tensioni che nascono dal contatto quotidiano con la sofferenza (mentale e fisica) che essi vivono all'interno della comunità - trovano la possibilità di essere accolte, distanziate ed elaborate. 
Il luogo, cioè, in cui l'operatore può prendersi cura della propria igiene mentale. 
La supervisione è lo spazio per l'operatore, è il suo tempo, è il tempo che può dedicare a sé stesso nella sua dimensione professionale, cioè di persona-che-svolge-una-professione. 
Egli è chiamato in causa come tale, vale a dire come professionista dell'intervento con il tossicodipendente e con la complessa problematica che questi porta con sé. Non è la sua dimensione privata (di marito, moglie, figlio, madre o padre...) che viene coinvolta; per lo meno non lo è direttamente. E' questo un punto sul quale è utile fare chiarezza. 
Anche con questo scopo, nell'intento di definire ancora meglio il mio pensiero sulla supervisione in una C.T., proviamo a operare un confronto con due altri processi che pure condividono con essa delle aree comuni, ma che non possono con essa venire confusi: la psicoterapia e la consulenza. Una non sufficiente chiarezza in questo settore si rivela tanto più pericolosa quanto più rischia di essere nascosta e, quindi, non colta dalle parti che la pongono in essere. 

Supervisione o psicoterapia?  

La PSICOTERAPIA è il luogo del contenimento delle ansie e delle angosce del paziente. Il terapeuta è colui che accoglie la sofferenza dell'altro per elaborarla, insieme con lui, quindi potergliela restituire deprivata di tutti quegli aspetti distruttivi che essa conteneva - "digerita", potremmo dire, o metabolizzata - in modo che la persona possa riappropriarsene una volta che ne è avviata la trasformazione da energia di morte in energia di vita. 
Nell'accompagnare la persona lungo questo processo il terapeuta sa di poter lavorare e di dover lavorare sia con le parti adulte del paziente che con le sue parti infantili. Anzi, è proprio attraverso la ri-visitazione e la ri-costruzione di queste ultime che si può ri-avviare quel processo di crescita che esperienze della vita eccessivamente stressanti, rispetto all'energia di cui l'individuo poteva disporre in quella fase del suo ciclo vitale, stavano rischiando di bloccare. 
Può l'operatore chiedere al supervisore di essere accolto come paziente? Può un'équipe terapeutica chiede di essere accolta non più come équipe-terapeutica-che-opera-in-una-C.T., ma come gruppo-in-terapia? 
La richiesta può anche nascere nel corso della supervisione. Questo avviene tanto più in condizioni in cui l'operatore, non avendo già fatto o non avendo in corso una sua terapia personale, non ha ancora potuto trovare per sé un "luogo" dove poter assimilare ed elaborare l'esperienza della propria ansia, depressione, invidia e di tutte le emozioni relative a quell'insieme di conflitti che abitano il suo mondo interno, in modo da poterli tollerare, sia nel suo quotidiano che nel rapporto con gli utenti e i colleghi della comunità; rapporto che, proprio per le sue peculiarità, agisce riattivando o riacutizzando certe problematiche personali non risolte, né accettate. 
Il rapporto di supervisione in un settore dove le componenti emozionali hanno un peso di gran lunga maggiore di quello che hanno le tecniche, lo scivolamento verso il terapeutico (come richiesta, da parte degli operatori, o addirittura come proposta non detta da parte del supervisore stesso) è sempre in agguato. Oppure si verifica, come tentativo di uscita di sicurezza, che, proprio per esorcizzare questo pericolo, si evita il contatto con le proprie emozioni e ci si difende dalla possibilità/necessità di farle scendere in campo. E' certo un tentativo destinato a fallire, tuttavia esso è anche piuttosto comune... 
Il supervisore, dal suo punto d’osservazione "meta-" rispetto al gruppo, può cogliere aspetti del mondo interno del singolo operatore e i giochi collusivi dell'équipe terapeutica con cui essi, gli operatori, proprio perché collocati su un piano diverso, non riescono a lavorare. Ciò tuttavia non lo autorizza a rapportarsi agli operatori come a pazienti. 
Io credo sia compito del supervisore saper accogliere la richiesta degli operatori e garantire, nello stesso tempo, il rispetto dei confini "contrattuali". Sono i confini dati dal mandato di lavorare con le parti adulte dell'operatore e con le potenzialità terapeutiche dell'intera équipe. La sua funzione di super-visore è quella di essere un collega più esperto che lavora con altri colleghi: è solo la sua esperienza professionale e il suo rispetto per la professionalità altrui che gli consentono di strutturare un contesto di contenimento per le tensioni che nascono negli operatori dall'incontro quotidiano con la sofferenza del tossicodipendente e con le difficoltà della vita di comunità. 

Supervisione o consulenza?

Sento parlare qualche volta di "supervisione sui casi". Se ne parla quando un'équipe terapeutica sente il bisogno di confrontarsi con un professionista esterno, sulla situazione di uno o più d'uno dei ragazzi ospiti della comunità. E' una richiesta legittima. Anzi, il bisogno di integrare le proprie conoscenze con quello che altri, per la loro specifica competenza, ci possono offrire, credo sia il segno della serietà e competenza con cui si affronta il proprio lavoro. 
Questo, però, non è supervisione: è quello che in medicina o in psicologia chiamiamo consulto o consulenza. 
Può il supervisore essere utilizzato anche per una consulenza? Io credo di sì. Non solo, ritengo che una consulenza simile possa diventare, in generale, ancora più ricca di quella che può offrire un consulente del tutto esterno. 
Discutere un caso con il supervisore può offrire all'équipe l'opportunità di analizzare più livelli di complessità: quello che appartiene al ragazzo e quello che appartiene ai vissuti propri di ciascuno degli operatori, e dell'équipe nel suo insieme, in relazione ai problemi che accompagnano l'intervento terapeutico su quel caso. Poter evidenziare e sciogliere gli elementi confusivi che, attraverso i processi introiettivi e proiettivi, impediscono di coglierne l'appartenenza genuina, significa raggiungere un livello di comprensione assai proficuo per pensare e attuare un buon intervento terapeutico. 
E' un modo questo che permette alla supervisione e alla consulenza una buona integrazione reciproca. 
Non è sempre possibile, né sempre opportuno, credo. Ma non possiamo approfondire oltre in questa sede.

 


APPENDICE
alcuni problemi aperti 

 

Vorrei lasciarvi, infine, con due domande che, a mio parere, non si possono eludere quando si progetta un corso di FORMAZIONE o si avvia un intervento di SUPERVISIONE. 

1. Da dove nasce la richiesta [di formazione o di supervisione]? Cioè: all'esigenza di chi essa risponde? Dell'ente gestore della C.T., del responsabile tecnico della C.T., degli operatori? Risponde essa ad un bisogno dei singoli operatori, dell'équipe nel suo insieme? 
Voi siete i primi a sostenere che il tossicodipendente che non sceglie la C.T., ma vi entra perché forzato dalle circostanze, non può confluire in un processo terapeutico, al punto che rischia di trasformarsi in ostacolo anche per il resto del gruppo. 
E l'operatore che non sceglie la formazione o la supervisione come parte integrante del suo lavoro, che non riconosce la necessità di un momento di consolidamento e verifica degli elementi che fondano la sua scelta professionale o quella di uno spazio per sé stesso come professionista dell'intervento nella tossicodipendenza?

2. Che ruolo gioca la gratuità dell'offerta? Questa è una dimensione assai seducente, per la verità... ma è anche apportatrice potenziale di germi di disimpegno, quindi di fallimento.  * * * 

Un'ultima cosa. Ho accettato con piacere l'invito a venire qui, oggi, a questo vostro primo seminario. Mi piacerebbe proprio poter discutere con voi di queste mie riflessioni: esse sono il segno di dove io sto adesso rispetto a questi temi. Se il mio processo di formazione potrà continuare, sarà anche per il vostro contributo di oggi. Grazie. 

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1 Nel presentarvi queste considerazioni mi sono preso il permesso di dare un po' meno spazio al discorso sulla FORMAZIONE - argomento, in genere, abbastanza trattato nei vari seminari - per approfondire un po' di più il tema della SUPERVISIONE - argomento, a mio parere, piuttosto trascurato o comunque trattato con troppa minore attenzione -.
2 Questo, in realtà, avviene quando "va bene"! Perché, a quanto mi risulta, la maggior parte degli operatori del settore si trova in condizioni lavorative di precariato, con in più la certezza che i ritardi con cui l'ente pubblico (USL, Regione) fa fede ai suoi impegni di pagamento si traducono addirittura in ritardo, quando non in mancanza, di stipendio! 
Credo di dovermi associare, in questa sede, all'invito che da più parti viene fatto agli Amministratori a riflettere assai seriamente sul rischio di inconsistenza operativa di tanti progetti se non viene affrontato questo aspetto basilare del problema. 
3 Non credo ci sia tanto bisogno di chiarezza concettuale, quanto, piuttosto, di chiarezza emozionale ed operativa.