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Riprendiamo da domenica scorsa, con un’osservazione. In tutto il resto del Primo Testamento (la parte della Bibbia scritta prima della nascita di Gesù) non si fa nessun cenno al racconto di Genesi 3. Lì è scritto e lì rimane. Uno tra i tanti. Quando i profeti rimproverano il popolo per l’infedeltà all’alleanza fatta con Dio, mai fanno riferimento a questa storia. E neppure in gran parte del Nuovo Testamento (i testi nati dopo la resurrezione di Gesù) se ne parla. Il Battista vede in Gesù colui che prende su di sé il peccato del mondo. Ma il riferimento non è a questo racconto, né qui né in tutto il Vangelo. Il Maestro mai ne ha parlato. Un richiamo a questa storia lo troviamo per la prima volta con Paolo, nella Lettera ai Romani. Sarà ripreso successivamente da Agostino (V sec.). E da qui in poi avrà sempre più spazio nella riflessione teologica. Domanda: se fosse stato così significativo, non è strano che Gesù non ne abbia mai parlato? Non era uomo da tacere sulle cose fondamentali.
Riprendiamo il racconto. Tre sono i personaggi, più uno: il serpente, la donna, l’uomo; poi il Dio creatore. Il Signore Dio pianta un giardino (in greco paràdeisos, paradiso) e pone al centro due alberi, l’albero della Vita e l’albero della Conoscenza del bene e del male. Nel linguaggio semitico dire il bene e il male, i due opposti, significa la totalità. Dunque è l’albero della conoscenza del mondo.
Ci chiediamo: perché il Creatore avrebbe dovuto proibire all’uomo la conoscenza, dal momento che proprio Lui ha posto questa capacità e questo bisogno/desiderio nel cuore della sua creatura? Conoscere è il desiderio profondo che abita la mente umana, è l’energia che ci permette di sviluppare il pensiero, di crescere nella conoscenza della realtà. Ha origine qui la scienza, lo strumento che ci guida nell’incontro con noi stessi e con il mondo di cui siamo parte. Il mito però ci mette in guardia: se da una parte conoscere è capacità straordinaria della nostra mente, questa comporta anche il rischio di farci... montare la testa. Fino a pensarci come Dio.
Continua il testo: dopo che hanno mangiato dell’albero, si aprirono i loro occhi. E cosa vedono? Vedono che è ora di lasciare il giardino/paradiso. La tradizione ci ha portato a leggere tutto questo come il risultato di una colpa, il peccato originale, e di una punizione. Ma ne siamo proprio sicuri? E se invece questo racconto ci volesse parlare del passaggio dall’infanzia all’età adulta? Passaggio fisiologico, cioè naturale e necessario, che ciascuno deve fare se vuole vivere.
Qualche considerazione. Dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza, l’uomo e la donna si accorgono di essere nudi. Da bambini non proviamo vergogna nell’essere nudi; è usciti dall’infanzia che scopriamo il senso del pudore. Non c’è nel bambino attrazione sessuale; nell’adulto è questa l’energia che permette la trasmissione e la prosecuzione della vita. Il bambino non ha bisogno di lavorare per vivere, ci sono i genitori; da adulti se non lavori non mangi. Una bambina non ha la capacità di mettere al mondo; la donna adulta scopre questa potenza, e nello stesso tempo ne sperimenta la fatica. Con il parto e tutto quanto l’accompagna: allattamento, cura, attenzioni che crescere un figlio richiede. Il bambino non conosce la morte. Sì, ne conosce la parola, ma non sa cosa sia. È da adulti che la scopriamo, che la cogliamo come parte della vita.
Ecco. La vita nel giardino è la vita dell’infanzia, l’età dell’oro di cui parlano altri miti: lì entrambi sono serenamente nudi, non hanno bisogno di lavorare, non c’è la fatica, né il dolore, né la morte. È da adulti, cioè fuori dal giardino, che incontrano tutto questo. E il Creatore, com’è compito di ogni buon genitore, indica loro che è arrivato il momento di andarsene di casa (il mito, che parla per estremi, dice che li caccia dal giardino). Non possono restare eterni bambini. Ora sono adulti. È ora che si prendano cura di sé e del mondo che è loro affidato.
Aveva detto Dio se mangiate di quest’albero morirete. Ma non muoiono. Una minaccia a vuoto? No. La morte è arrivata, infatti. Ma chi muore non sono l’uomo e la donna, ora adulti. Chi muore sono i due bambini che erano. È l’infanzia che non c’è più. Ora sono diventati grandi, si sono aperti i loro occhi, ed è giunto il momento di lasciare la protezione della casa paterna (il giardino/paradiso) e di camminare con le proprie gambe.
Il racconto si chiude con un ultimo gesto d’amore. Il Creatore, padre-e-madre affettuoso, si preoccupa di dare loro un vestito per il primo viaggio fuori-casa. D’ora in poi saranno loro a doverseli procurare, con il lavoro d’ogni giorno.
Vede, Alberto, la storia di Adamo ed Eva, prototipi (non progenitori) dell’uomo e della donna, è la storia di tutti noi, chiamati dalla vita a uscire dall’infanzia (il paradiso terrestre, l’età dell’oro) e ad entrare nell’età adulta.
(2. fine)
(1. E se invece...)
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