Dovrei chiedere scusa a me stessa per aver creduto sempre di non essere abbastanza, scrive Alda Merini. Credere di non essere abbastanza è qualcosa di ben conosciuto nel pensiero femminile. Figlia, madre, moglie, donna. Chi si sente pienamente all’altezza della situazione? Il punto è che l’essere o il non essere abbastanza, lei non se lo dà da sola. Il prevalere del pensiero maschile nella costruzione della cultura la mette in posizione subalterna: è l’altro che decide dove lei deve arrivare. E se all’asticella fissata non arriva, lei per prima si dirà di non essere abbastanza. Perché lei pure ha fatto sua questa legge: anche nel suo pensiero trova scritta la sua subalternità.
Ma all’inizio non era così. Così, almeno, dice il mito delle origini. Guardiamo.
«Il serpente era accorto più di tutti i viventi del campo che il Signore Dio aveva fatto. E disse alla donna: “Davvero che Dio ha detto: Non mangerete da ogni albero del giardino?”, disse la donna al serpente: “Del frutto degli alberi del giardino noi mangeremo, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Di esso non mangerete e non lo toccherete, altrimenti morirete”, disse il serpente alla donna: “Non morirete. Perché Dio conosce che il giorno in cui voi mangerete da esso, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza. Prese del suo frutto e ne mangiò. Poi ne diede anche al suo uomo, che era con lei, ed egli mangiò. Allora si aprirono i loro occhi e conobbero di essere nudi».[1]
Tre personaggi: il serpente, la donna e l’uomo. Chi sono? Cosa rappresentano? Dobbiamo ricordare che siamo davanti ad un mito. I miti sono come i sogni dell’umanità. Sogni che nelle diverse culture l’umanità costruisce e ascolta. Il sogno è come un film di cui io sono regista e attore. I personaggi che lo popolano, oltre che soggetti che prendo dalla vita quotidiana, sono parti di me. E come in un sogno io, attraverso le vicende e le parole, parlo con me stesso e di me stesso, così è nel mito: l’umanità rappresenta se stessa e dialoga con se stessa.
Il serpente, dice il testo, è tra tutti gli animali del creato il più accorto. In lui cogliamo la nostra accortezza. Saggezza, assennatezza. È questa nostra parte, la mente, che inizia il dialogo. E l’inizia con una domanda. Tra tutti i viventi, nostri coinquilini sul pianeta terra, noi soli siamo in grado di farci domande. Domande sul senso delle cose. Sul senso della vita. È la capacità di farci domande che permette la conoscenza. La ricerca. Ci fa costruire e dare significato al nostro stesso esistere. Quale parte di noi ascolta la domanda e accetta di entrare nel dialogo? Che è confronto, messa in discussione.
La donna. È il femminile dell’umano, l’anima, che ha in sé la forza di accogliere la domanda e di entrare nel confronto. Lei ascolta. E risponde. All’inizio temeva che aprirsi alla conoscenza del bene e del male, cioè alla conoscenza del mondo, potesse essere pericoloso. Poi però ascolta. Riflette. Allora vede che il frutto che dà conoscenza è buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza. Cioè discernimento. E si apre alla ricerca. Accetta il rischio: mi farà morire o mi farà vivere? E decide per la conoscenza. Cioè per la Vita. Perché la vita senza conoscenza è vuota. Non è vita umana.
E il maschile? Non apre bocca. Non parla. Non entra nel confronto. Né obiezioni né dubbi né approvazione. La parola, questa capacità che noi umani abbiamo conquistato, sembra non appartenergli. Lui ne mangiò è scritto. Non prende neppure l’iniziativa di cogliere con le sue mani il frutto della conoscenza. L’iniziativa è ancora della donna: Poi ne diede anche al suo uomo, che era con lei. Come se la parte maschile sapesse solo agire. Meglio, eseguire. Il corpo. Lei gli dà il frutto e lui ne mangia.
È un mito. Certo. Nasce oltre tremila anni fa. Ma sembra che fin da allora l’umanità abbia compreso la differenza. Con poche pennellate il maschile e il femminile emergono nella loro realtà. Anche attuale. Anche nostra, nel XXI secolo. L’uomo è nell’azione. A caccia del potere, della forza muscolare, del gioco a chi di più. Gioco drammatico che porta morte e distruzione. Ucraina, Medio Oriente… giusto per restare a noi vicini. È la donna che ha la forza di far parlare la vita. Mogli e madri hanno il coraggio di sfidare Putin o Netanyahu o Yahya Sinwar. E parlare di pace. Esigere la pace. Dalle donne hanno preso vita i movimenti di autocoscienza, di consapevolezza di fronte alle storture nelle relazioni sociali. Noi uomini siamo rimasti… a guardare. Salvo poi rimetterci a puntellare il castello, crepato e traballante, di un maschilismo ormai stantio.
Nel mito i personaggi non hanno un nome. Solo successivamente questi usciranno, Eva lei e Adamo lui. I progenitori, dice il mito. Archetipi possiamo dire noi oggi. Noi che, conquistato il dono della conoscenza, sappiamo il lungo viaggio che la nostra specie ha fatto, e ha ancora davanti, nel tempo e nella storia.
Grazie, Eva.
[1] Genesi 3,1-7
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