VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

30 giu 2024

In margine al G7 e alla recente Conferenza per la Pace

Pax romana

Ricordo gli anni di scuola: con orgoglio gli insegnanti ci presentavano Roma, la nostra storia. Vedere sulla cartina che il mondo assumeva sempre più il colore dell’impero, era una bella vista. Quando poi, con Augusto, finalmente regna la pace, non nascevano dubbi nella nostra mente di undici dodicenni: così sarebbe potuto e dovuto restare il mondo. Un pensiero critico, in verità, non era stimolato neppure nel secondo ciclo. Gli anni del ginnasio. Dubbi sulla giustezza e legittimità dell’impero non erano in menu. La pax romana, come poi la chiamerà Seneca, era quanto di più bello ci potesse essere: la dominazione di Roma sul mondo, garanzia di pace universale e di concordia tra i popoli. Un particolare, però, ci sfuggiva. Né i nostri insegnanti ci guidavano nel coglierlo. Come faceva a espandersi così facilmente quel colore dell’impero sulla cartina? Piuttosto semplice, pare. Un qualche generale, il cui nome sarebbe rimasto nei libri di storia, partiva, alla testa delle sue legioni, e andava alla conquista di nuovi territori. Conquista. Cioè morte violenza distruzione devastazione, insieme a stupri incendi aggressioni d’ogni genere. Fino a quando il nemico di turno non veniva sconfitto e i suoi capi, prigionieri, ostentati nel trionfo dell’eroe vincitore. Chi di noi, giovanissimi studenti, si metteva mai nei panni dei vinti? Del resto, nelle interrogazioni in cui il prof, sadico, si divertiva a far camminare il suo dito sul registro fino a fermarsi proprio davanti al tuo nome, era il nome del vincitore che dovevi sapere: i perdenti… avevano perso.

Calgaco, comandante caledone, quando i romani di Agricola invadono la sua regione, al nord della Britannia, dichiara: «Rapinatori del mondo, i Romani, dopo aver tutto devastato, non avendo più terre da saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero. Rubare, massacrare, rapinare, questo essi, con falso nome, chiamano impero e là dove fanno il deserto, lo chiamano pace (Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant)».[1] Una volta conquistata la nuova terra, infatti, Roma vi porta le sue leggi, le sue legioni, i suoi governanti. È la Pax romana.

 

È a questa pace che è andato il mio pensiero ascoltando le recenti dichiarazioni del signore del Cremlino. Proposta di pace le chiama: si tiene tutti i territori conquistati, il governo che l’Ucraina vorrà darsi dovrà essere concordato, e mai, da nazione libera, potrà aderire alla Nato. Anche ora, come allora, l’invasore dove fa il deserto lo chiama pace.

Mosca, brutta copia di Roma? E sì che sono passati duemila anni da Augusto, ma la storia sembra ripetersi. Del resto, poco meno di cent’anni fa un altro signore, il cui nome è sui libri di storia, partiva alla conquista di nuovi territori per costruire la sua pace. La pace della razza ariana. E tutti sappiamo com’è finita. Come sappiamo la fine che anche l’impero romano andrà a fare. Nonostante il monito di Virgilio: Tu regere imperio populos, romane, memento. Ricorda, popolo di Roma, tu devi governare il mondo.[2]

Non è questo che sostiene oggi Putin? Con la benedizione di Kirill, figlio, come lui, del Kgb. «Dal punto di vista spirituale e morale l’operazione militare speciale è una guerra santa, in cui la Russia e il suo popolo, custodendo l’unico spazio spirituale della Santa Russia, svolgono la missione di baluardo in difesa del mondo dall’assalto del globalismo e dalla vittoria dell’Occidente caduto nel satanismo».[3] Così assurda è questa pretesa che mi chiedo come sia possibile che anche un’intelligenza appena normale possa cadere così in basso. Ma lo sappiamo, il potere offusca la mente. E perfino quel po’ di ritegno che quando stai per dire un’assurdità ti dice di fermarti, scompare. E la proposta di pace diventa: io sono pronto a fare la pace, e come si fa lo dico io.

 

Due, sempre, sono gli scogli: il primo, per fare la pace bisogna essere in due; l’altro, la pace si fa con il nemico. Anche quando le sue pretese arrivano assurde. Ecco l’area d’intervento della politica. Di chi sa porsi come mediatore. Offrendo all’uno e all’altro un luogo d’ascolto e cercando di costruire dove i nemici sono impigliati nel distruggere. Dalla Pax romana alla Russkij mir (pace russa), allora?

Una delle parole più difficili nelle relazioni umane è compromesso. Così difficile che spesso la connotiamo in negativo. Eppure è nella capacità di costruirlo che sta tutta l’arte della mediazione. E senza di essa nessuna pace si può costruire. È più facile dare fondi, in cibo o armamenti, all’uno o all’altro. Molto più impegnativo è sedersi al tavolo della mediazione. Con ciascuno dei due che ti pretende dalla sua parte. È solo la forza, la costanza, il desiderio profondo di costruire, che può sostenerti. Questo il mondo della politica ha bisogno di riscoprire.

 

[1] Tacito, Agricola

[2] Virgilio, Eneide

[3] Concilio Mondiale del Popolo Russo, 2024

 

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V'invitiamo a leggere anche: Le ragioni dell'altro 2024,  La verità e la non violenza 2024,  Eirenopoioi 2023 (con i relativi rimandi)