23 nov 2008
Gli insegnamenti della vita (2)
La settimana scorsa abbiamo incontrato Alessio, un bambino di soli tre anni che sta vivendo, mano nella mano, con un tumore che l’accompagna fin dalla nascita. Aiutati dalle parole del nonno, c’eravamo lasciati con lo sguardo su questo bambino, intravvedendo in lui un piccolo grande maestro di vita per i suoi familiari e per noi che l’abbiamo incontrato.
Non è certamente un pensiero facile da accogliere. Di fronte alla sofferenza, tutti abbiamo paura e ci ritroviamo pieni di domande. E senza una risposta soddisfacente. Quando poi a star male è un bambino, il nostro cuore si ribella ancora di più e non riesce a trovare parole che possano dare una giustificazione e portare un po’ di luce e di conforto che diano quiete alla nostra anima.
Uno dei pensieri che l’umanità ha costruito, nel tentativo di darsi una ragione della sofferenza, ci dice che sono le anime più evolute che vivono i percorsi più difficili.
Questo pensiero, che un’anima possa essere più progredita, o più evoluta, è condiviso prevalentemente da coloro che vedono la vita che stiamo vivendo qui, ora, su questa terra, come parte di un cammino assai più lungo nel tempo, e che ogni anima percorre, anche ritornando sulla terra, fino al raggiungimento della pienezza della vita stessa.
Oggi questo pensiero appartiene più ad alcune filosofie/religioni dell’oriente (il buddismo, l’induismo, per es.). Ma anche tra noi non sono pochi coloro che ci si ritrovano e lo guardano come una possibile visione della vita.
Proviamo ad ascoltarlo e ad entrarci per un momento. Senza averne paura. Perché questo pensiero non offende nessuno né manca di rispetto a quelle filosofie di vita o religioni che non lo condividono. Magari possiamo ricordare che all’origine era un pensiero presente anche tra gli stessi cristiani. Solo ad un certo punto, infatti, la chiesa ha sentito la necessità di distaccarsene perché lo vedeva, a ragione o a torto, non conciliabile con il pensiero della resurrezione (siamo ad oltre 500 anni dagli inizi del cristianesimo, al Concilio di Costantinopoli). Man mano, quindi, noi occidentali ce ne siamo sempre più distaccati.
Fin dall’antichità, comunque, questo pensiero appartiene anche alla nostra cultura. Nel V-IV secolo a.C., nella Grecia antica, alcuni miti raccontavano che le anime erano come in un mondo nel quale si riposavano dopo una vita vissuta sulla terra e dopo questo periodo di riposo, più o meno lungo, ritornavano per un altro ciclo di vita. Questo ritorno avveniva con un progetto da realizzare, consapevoli che, attraverso la realizzazione di tale progetto, avrebbero percorso un’altra tappa verso la liberazione. Per passare dal mondo dell’aldilà al mondo di qui l’anima doveva attraversare un grande fiume, il Lete (questa parola in greco significa ‘oblìo’): bevendo quest’acqua, l’anima dimenticava tutto ciò che aveva vissuto prima, dimenticava perfino il progetto con il quale aveva deciso di tornare sulla terra. La fatica di ogni uomo/donna, la fatica del vivere, era proprio quella di riscoprire tale progetto e attuarlo. (Con il nostro linguaggio noi oggi diremmo: riscoprire la propria vocazione e viverla).
In India questa visione della vita era presente prima ancora, fin dall’VIII-VII secolo a.C. In una delle lingue più antiche, il sànscrito, si usa la parola samsàra che significa appunto “trasmigrazione”, cioè ciclo di nascita e morte. Il ciclo che definisce la nostra vita in questo mondo, che è, per il buddismo in particolare, il mondo della sofferenza e dell’impermanenza.
Ascoltare questa filosofia di vita ci porta, dunque, a vedere in tutte quelle persone (bambini e adulti) che incontrano problemi tanto pesanti e dolorosi delle anime evolute che, attraverso lo svolgimento di un compito più difficile, possono apprendere meglio e di più, e giungere più speditamente alla liberazione e alla pienezza della vita. Non fanno così, del resto, i bravi maestri che dànno agli allievi migliori i compiti più difficili, consapevoli che, attraverso un grande impegno, si ha un apprendimento maggiore e più approfondito? E la vita è la nostra grande maestra, una brava maestra!
Ma chi decide il progetto con il quale veniamo al mondo?
Alcuni pensano che sia una scelta autonoma, legata all’evoluzione personale: come se un’anima, venendo al mondo, decidesse il cammino da percorrere e il compito da svolgere in questa vita (così, abbiamo visto, è in certe filosofie di vita che non contemplano la presenza di un Dio). Altri, per lo più i credenti, si ritrovano meglio in un pensiero che vede tutto questo all’interno di un progetto d’amore che Dio, Padre e Madre di tutti, intende realizzare, con ciascuno dei suoi figli.
Forse non sapremo mai quale idea è più vicina alla verità. Magari potremmo provare anche a far dialogare tra loro questi due pensieri, senza vederli necessariamente contrapposti...
Per gli uni e per gli altri, credo, importante è non perdere le occasioni che la vita ci dà. Le nostre anime, tutte (= noi tutti), sono in evoluzione. Se questa avvenga in più tempi da vivere su questa terra o in un tempo unico, può anche restare una domanda aperta: ciascuno può coltivare il pensiero che sente più utile alla sua crescita personale.
In un testo del VI-V sec. a.C. è scritto: “Non disprezzare la correzione del Signore. Il Signore corregge colui che egli ama, come fa un padre con i figli più cari” (Proverbi 3, 11-12). Ciò che è importante, dunque, è provare a vedere che gli insegnamenti che la vita ci propone, anche attraverso le esperienze più dure, sono la strada da percorrere per arrivare alla liberazione, cioè alla pienezza della vita - che, per i credenti, si chiama Dio.