12 ott 2008
Il corpo, la mente, l’anima
L’anima: la ricerca di senso (2)
Due settimane fa, nel tentativo di incontrare l’ANIMA, ci eravamo soffermati su due significati di questa parola. Anima come vita e anima come una parte dell’uomo che viene distinta, a volte separata, dal corpo.
Riprendendo oggi le nostre riflessioni, possiamo dire che noi parliamo di anima per indicare quella dimensione di noi che ci mette in contatto con la nostra energia vitale. Meglio: che rappresenta la nostra energia vitale, o, meglio ancora, che è la nostra energia vitale. Quell’energia che ci fa aprire una domanda di fondo, anzi, la domanda di fondo: qual è il senso della vita e della morte? Che senso ha che io sia qui, in questo mondo e in questo periodo della storia? Con quale scopo sono al mondo e per realizzare quale piano o progetto?
Ascoltare questa domanda e tenerla aperta, anche quando non riusciamo a trovare subito una risposta, significa coltivare la dimensione spirituale della vita. La ricerca di senso.
Questa dimensione è propria della nostra specie. L’esperienza di esseri liberi, e consapevoli dei nostri pensieri e delle nostre azioni, ci colloca su un piano esistenziale così elevato che in alcuni testi antichi gli uomini hanno scritto che la specie uomo è ‘immagine di Dio’. Sempre nel mito delle origini, che abbiamo già incontrato l’altra volta, così come ci viene raccontato nella Bibbia, a un certo punto è scritto: “E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza»… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Genesi 1, 26-27). Se in queste parole il credente prova a leggere anche la profondità di un progetto d’amore che Dio ha sull’umanità e sul mondo, indipendentemente dall’essere credente o non credente, ritengo si debba comunque riconoscere che parole di questo genere sono espressione di una chiara consapevolezza che l’uomo, nel tempo, è venuto maturando rispetto alla propria ‘grandezza’.
Ma accanto a questa dimensione di grandezza abbiamo poi fatto un’esperienza che ci ha scombinato tutti i piani. Abbiamo incontrato il dolore e la morte. A questo punto è stato come se avessimo perso le coordinate: ci vedevamo così grandi da ‘somigliare’ a Dio, poi ci siamo visti tanto piccoli e indifesi di fronte al dolore, alla malattia e alla morte, da ritenerci gli esseri più infelici al mondo. Siamo arrivati perfino ad invidiare gli altri viventi, perché ci apparivano o del tutto liberi dalla sofferenza o che, per lo meno, non soffrissero così intensamente come noi. Poeti e filosofi hanno scritto tante pagine, di grande profondità, su questo nostro interrogativo. Ricordate, solo per fare un esempio, le parole che il pastore errante di Leopardi dice, parlando con il suo gregge? “O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ch’ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma più perché giammai tedio non provi…”.
E’ proprio da questa duplicità di immagine che l’uomo sperimenta di sé stesso, apparentemente inconciliabile - scoprirci tanto grandi rispetto agli altri viventi, coinquilini nel nostro pianeta terra, e altrettanto piccoli di fronte al dolore e alla morte -, che trae origine quella che abbiamo chiamato la domanda di fondo: qual è per noi il senso della vita e della morte.
Certo, di fronte ad una domanda così vasta non possiamo pensare che la risposta sia univoca. Tante risposte, meglio, tanti tentativi di risposta abbiamo costruito. Le filosofie e le religioni provano ad indicarci delle strade, ci danno dei pensieri da coltivare e approfondire. In altre parole ci indicano come un ‘pezzetto’ di verità sul senso della vita. La verità piena, probabilmente, non sarà mai completamente raggiunta dagli uomini, perché la sua dimensione è tanto più grande della mente umana. Credo che possiamo veramente usare un aggettivo che, per la sua portata, trascende e travalica la capacità di comprensione delle scienze umane, comprese quelle psico-biologiche e filosofiche. Dobbiamo parlare di dimensione divina? Probabilmente sì. E forse è stata la percezione di tale ampiezza, l’intuizione di una dimensione non contenibile dalla mente umana che ha fatto scappare Pilato nel dialogo che stava conducendo con Gesù di Nazaret. Racconta Giovanni nel suo vangelo: “… rispose Gesù [a Pilato]: «Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità…». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità!?». E, detto questo, uscì…” (Gv 18, 37-38). La domanda di Pilato appare in tutta la sua drammaticità e amarezza: come se dicesse “Ma di che stai parlando? Non sai che la verità, nella sua pienezza, non è alla portata di noi uomini?”. E se ne va. Sconsolato e prigioniero del suo limite, di un pensiero senza ali.
Certo, non è facile tenere aperta la domanda sul senso della vita. Lasciare aperta una domanda significa restare nella ricerca. E la ricerca, per definizione, è accompagnata dall’incertezza, dall’inquietudine, dal dubbio, perfino dal rischio di perdersi, ma anche dal desiderio e dal piacere della scoperta. In realtà è solo il tenere aperta questa domanda che ci fa restare sul piano di nobiltà che definisce l’essere umano e ci permette di ritrovare le ali per volare tra la terra e il cielo.