VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

9 nov 2008

Novembre, il mese dei morti?

E’ un nostro modo di dire: novembre, il mese dei morti. E se, invece, fosse il mese dei vivi, il mese, cioè, in cui i vivi possono pensare alla morte e alla vita? Sarebbe una bella risorsa novembre: il mese in cui i ‘morti’ e i ‘vivi’ possono ritrovarsi e riscoprire che stanno percorrendo, insieme, la stessa strada. Oggi, allora, guidati da novembre, proviamo a condividere tra noi, e con loro, due riflessioni.

 

La prima. A volte ci sentiamo dire che bisogna accettare la morte. Certo, ma ‘accettare’ è parola molto impegnativa, ed è un cammino arduo che ciascuno può fare solo con sé stesso… Ma riprenderemo questo pensiero in un altro momento.

Oggi ci fermiamo un po’ prima. Con una domanda: se, almeno, ci diamo il permesso di parlare della morte. Parlarne è una necessità. Per chiunque. Perché poterne parlare significa poter dare la parola a quel ‘terrore’ profondo che ci coglie ogni volta che lei entra nella nostra vita.

Noi sappiamo che quando ci troviamo a dover affrontare un’esperienza dolorosa, riuscire a parlarne ci è di aiuto, ci dà sollievo: non ci toglie il dolore, ma fa sì che esso diventi meno invasivo. La psicologia ci insegna che quando il dolore rimane muto e non trova la parola per esprimersi, prima o poi si farà sentire in qualche altro modo, magari attivando qualche disturbo fisico: un male allo stomaco, un dolore alla testa, disturbi nella digestione, nel sonno, ecc.

E il dolore più profondo che accompagna l'uomo lungo l’arco della vita nasce proprio dalla consapevolezza della morte. Questo si rinnova e si ripresenta ogni volta che lei ci si pone davanti: specialmente quando si permette di incontrare una persona del nostro mondo affettivo o, addirittura, della nostra famiglia. Poterne parlare, allora, significa poter avviare quel processo di metabolizzazione (= digestione) che rende pensabile, quindi dicibile, un dolore che altrimenti si porrebbe come qualcosa di non accessibile al pensiero né alla parola, quindi indigeribile per la nostra mente/anima.

 

Accogliere la domanda sulla morte, ce lo dicevamo anche in un’altra occasione, significa, in realtà, accogliere la domanda sulla vita, ossia sul senso della vita. Ma non è facile, perché la nostra ‘civiltà’ non solo non ci aiuta, piuttosto fa del tutto per farcela evitare. Un monaco tibetano, Sogyal Rinpoche, osservava: "Quando arrivai in occidente fui colpito dal contrasto tra l'atteggiamento verso la morte in cui ero stato allevato e quello con cui ora ero venuto in contatto. Nonostante le sue conquiste tecnologiche, la moderna cultura occidentale non ha una reale conoscenza della morte... Agli occidentali viene insegnato a negare la morte, che viene presentata solo come annientamento e perdita definitiva". E’ difficile, credo, non dargli ragione!

 

La seconda riflessione. La settimana scorsa ci dicevamo sulle visite ai cimiteri che accompagnano un po’ questi giorni. E parlavamo del cimitero come del luogo dove riposano i nostri morti.
Oggi vorrei invitarvi a fare un passo avanti. Anzi, due.

Il primo è un invito a correggere il nostro linguaggio. Perché non usiamo un po’ di più la parola ‘defunto’ piuttosto che ‘morto’? Morto dà l’idea di una perdita totale, di qualcosa o qualcuno che è finito, non c’è più. Defunto (dal latino de-functus) significa colui che ‘ha portato a termine’ qualcosa. I nostri defunti sono coloro che hanno portato a termine, cioè hanno completato questa fase della vita che noi ancora stiamo vivendo.
L’altro passo avanti è un invito a pensarli, i nostri defunti, non al cimitero, ma insieme con noi, sia pure in una dimensione che non sappiamo definire. Con un tentativo un po’ ardito proviamo ad avvicinarci a questo pensiero attraverso due possibili strade, apparentemente lontane: la fisica e la religione.

La fisica moderna ci insegna che nell’universo ‘nulla si crea e nulla si distrugge’. Tutto ciò che esiste (quindi anche l’essere umano) è energia. Questa, in determinate condizioni, diventa (= si presenta come) materia, percepibile dai nostri sensi. Materia ed energia, sono in realtà solo due modalità per esistere e possono trasformarsi (= assumere una forma) l’una nell’altra. La famosa formula di Einstein (E = mc2) ce lo spiega e ce lo ricorda.

La religione, meglio, le religioni ci invitano a pensare i nostri defunti come viventi in un’altra dimensione. Non più attraverso un corpo ‘materiale’, ma nella loro dimensione ‘spirituale’. Possiamo dire nella loro dimensione di energia.

 

Come credenti, quando pensiamo ai nostri defunti, noi diciamo di pregare per loro e pensiamo che loro pregano per noi. Se cambiassimo quella parolina? Al posto di per mettiamoci con. Allora possiamo dire: noi preghiamo CON i nostri defunti, ed essi pregano CON noi. Essi, cioè, vivono con noi. Perché la preghiera, per noi umani, non è che una delle tante dimensioni della vita.

Non è più bello? Non arriva meglio e con maggiore intensità alla nostra mente? E non è di maggiore conforto al nostro cuore? Questo pensiero ci aiuterebbe a sentire che loro (= la loro ‘energia’ o, in altre parole, la loro ‘anima’) continuano ad essere CON NOI nel comune viaggio della vita. Abbiamo forme e modalità diverse di vita, noi e loro, ma è la stessa vita che ci unisce. In un certo senso possiamo pensare che ci sono ancora più vicini se ora vivono in una dimensione che trascende il tempo e lo spazio.

E possiamo sentire il fluire della vita che ci unisce. Noi e loro.