VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

29 mar 2009

Pianeta famiglia

Matrimonio o convivenza?

Riprendiamo il nostro viaggio sul pianeta famiglia. Nell’ultima tappa ci dicevamo che oggi, una volta esaurito il tempo del fidanzamento, arrivato il momento di prendere la decisione di andare a vivere insieme, ci si pone un interrogativo: matrimonio o convivenza?

E’ un interrogativo ‘moderno’? Non so se sia indice di modernità. So, comunque, che è un interrogativo di attualità. Nel senso che pare scontato che una coppia se lo debba comunque porre.

 

Cosa guida una coppia nello scegliere tra matrimonio e convivenza? Quali pensieri l’accompagnano? Diverse sono le componenti che orientano la decisione. Proviamo a prenderne in considerazione alcune: quelle che più frequentemente vengono addotte come ragioni valide per scegliere di andare a convivere piuttosto che sposarsi.

 

La prima nasce spesso dal pensiero che un periodo di convivenza è come una prova generale per capire meglio se potremo farcela a vivere bene insieme; in altre parole, se siamo proprio fatti l’uno per l’altra.

Una seconda ragione trova le sue radici nella situazione economica: fare un matrimonio costa un sacco di soldi, adesso non possiamo permettercelo, poi si vedrà.

Una terza ragione poi viene portata, con una certa frequenza. E con forza. Suona più o meno così: quello che ci lega è il nostro amore. Non è certo una cerimonia che lo rende più vero. Né dobbiamo rendere conto ad altri: non abbiamo bisogno di nessun riconoscimento, né dalla comunità civile (lo stato) né da quella religiosa (la chiesa).

(Ci sarebbe almeno un’altra situazione da considerare: quella delle famiglie ricostituite. Le nuove famiglie che formano coloro che hanno già un altro matrimonio alle spalle. Ma di questo parleremo in una prossima occasione.)

 

Sempre nel rispetto di queste scelte, proviamo a fare alcune riflessioni.

Circa le difficoltà economiche, sappiamo bene che non è certo una cerimonia da divo di Hollywood che rende più bello il matrimonio: la bellezza e la gioia di un matrimonio non sono proporzionali allo sfarzo che l’accompagna.

Rispetto alla prova generale dobbiamo dirci, purtroppo, che l’esperienza ha dimostrato ormai da tempo che i matrimoni fatti dopo un periodo di convivenza non si sono dimostrati più stabili degli altri.

Circa la terza ragione (= l’amore come scelta esclusivamente privata) credo che dovremmo ascoltarla con più attenzione. Sia chi la sostiene sia chi non la condivide. Ci proviamo.

 

Una cosa sembra certa: quando due persone decidono di condividere la vita c’è sempre un pensiero che accompagna questa decisione. Un pensiero che possiamo tradurre con le parole ‘per sempre’. Se dovessimo iniziare con il pensiero ‘finché dura’, sarebbe come dire che vogliamo entrare in casa, mentre in realtà decidiamo di restare sulla porta. Né dentro né fuori. Non ci si sta bene: siamo esposti a tutte le correnti.

Sposarsi significa dirsi per sempre. Certo, sappiamo che potrà anche non essere così, ma un pensiero nascosto, sempre presente però, almeno come augurio e speranza, è che “se questo vale per gli altri, non sarà così per noi due”. Tale pensiero è così forte, anche se non detto, che quando una coppia si trova a dover affrontare una separazione, questo momento è sempre accompagnato da un senso di fallimento e di grande sofferenza. Fallimento rispetto ad un progetto: il progetto che nasce, appunto, con le parole ‘per sempre’.

Anche quando due persone decidono per la convivenza? Sì. Nelle profondità dell’anima è così. Il bisogno di sottolineare la forza dell’amore che ci lega esprime proprio questo desiderio. Se così non fosse, non sarebbe tanto dolorosa la separazione che chiude una convivenza. Anche quando si interrompe una convivenza, è con il fallimento di un progetto che ci si trova a fare i conti.

 

Potremmo chiederci, allora, se al fondo ciò che fa la differenza nella scelta tra matrimonio e convivenza non sia la dimensione più o meno esplicita – quindi più o meno consapevole – del progetto.

Decidere per il matrimonio significa assumersi un impegno non solo l’uno verso l’altro all’interno della coppia, ma anche di fronte alla comunità di cui si è parte. E nello stesso tempo significa chiedere che la comunità stessa ci riconosca nella nuova dimensione di coppia/famiglia. Parliamo, naturalmente, di comunità civile (sempre) e di comunità dei credenti (quando si decide anche per il matrimonio religioso).

Chiediamoci, allora, se non c’è un rischio. Se, cioè, non si nasconde, nel profondo del nostro cuore, un pensiero: che sposarsi è troppo impegnativo, mentre convivere lo è un po’ di meno. Fare un matrimonio significa attivare tutta una ritualità che esplicita un impegno anche pubblico: di fronte ai parenti, di fronte agli amici e di fronte alla società tutta. Andare a convivere è qualcosa di molto privato: lo sappiamo noi due, lo sanno le nostre famiglie, i nostri amici. Ma il tutto è fatto quasi in segreto, come se non ce lo volessimo ‘dire’ fino in fondo.

Se così fosse, però, dobbiamo dirci allora che in realtà la nostra scelta di andare a convivere significa un po’ fare un quasi-matrimonio... Come se il progetto fosse, in realtà, un po’ meno-progetto.

Io molte volte ho incontrato questa realtà. Voi che ne pensate?