8 mar 2009
Ancora sulla morte di Eluana
Parole... di pace
Nell’articolo del 22 febbraio LA PAROLA E IL SILENZIO lei dice che noi dovremmo imparare a coltivare il silenzio. Ma come si fa a tacere quando si vedono delle cose che non possiamo accettare? Guardi il caso di Eluana, che lei stesso cita. Io sono un cattolico, anche se non sempre praticante, e non sono per niente d’accordo sulla decisione che è stata presa e ritengo che si sia trattato di un vero e proprio omicidio. Secondo lei allora dovrei tacere e come me dovrebbero tacere tutti quelli che non condividono la scelta del padre? Mi piacerebbe ricevere una sua risposta. La ringrazio.
Giulio C.
Caro Giulio, sono io a ringraziarla. Intanto per il coraggio di prendere in mano la penna e scrivere (siamo così pigri o indifferenti, tante volte), poi perché mi dà modo di dialogare con lei.
Io credo che tutti abbiamo il diritto di esprimere le nostre idee. Anzi, penso che ne abbiamo anche il dovere. Solo un regime totalitario può ritenere legittima la censura del pensiero altrui. Se dovessimo ritrovarci in una società in cui è autorizzato a parlare solo chi la pensa come chi è al potere o come la pensa la maggioranza, ci sarebbe da metterci le mani sui capelli e da cominciare davvero a preoccuparci per noi stessi e per i nostri figli.
Il rispetto che ci dobbiamo, come cittadini del mondo - e, se vogliamo considerare la dimensione cristiana della vita, come ‘figli di Dio’ - ci chiede non solo di riconoscere a tutti il diritto di esprimere i propri pensieri, ma di darci da fare perché questo possa avvenire, ogni qualvolta dovesse emergere e farsi viva una qualche forma di censura. Questo, a mio parere, vale per la comunità civile come, naturalmente, per la chiesa, la comunità dei credenti.
Le mie parole sul silenzio come dimensione da coltivare nella nostra vita volevano invitare a riflettere su quanto esso sia necessario se vogliamo parlarci.
Perché le mie parole possano essere ascoltate da lei, è necessario che esse trovino un po’ di silenzio nella sua mente. E perché le sue parole possano essere ascoltate da me, esse hanno bisogno di trovare uno spazio di silenzio nei miei pensieri: è solo nello spazio del silenzio che le parole possono entrare. Un esempio, terra terra: se un foglio è tutto scritto, pieno di parole, non posso scriverci nient’altro. Se una stanza è piena di mobili, come faccio a mettercene degli altri? E’ necessario creare uno spazio libero perché possa metterci qualche altra cosa. Non le pare? Così per i nostri pensieri: se sono pieno dei miei pensieri, come faccio ad ascoltare i suoi, a confrontarmi con lei, a guardare, cioè, quella parte di verità che i suoi occhi vedono e che i miei non riescono a vedere?
Sì, quella parte di verità che gli occhi dell’altro riescono a vedere.
Perché ognuno di noi può cogliere una parte della verità nelle questioni della vita. Perché la Vita è immensamente più grande delle nostre piccole menti. Forse è questo il significato di quelle parole che lo scrittore sacro ascolta dal Dio della Bibbia: “Quanto il cielo è più grande della terra, tanto le mie vie sono più ampie delle vostre vie, e i miei pensieri più grandi dei vostri pensieri” (Isaia 55,9).
Nessun uomo può pretendere, da solo, di conoscere tutta la verità. Né, credo, una parte sociale può pretenderlo. Tutti abbiamo bisogno di tutti. Mi pare che questo pensiero non sia lontano da quanto è scritto, ancora nella Bibbia: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito, per l'utilità comune” (1Corinzi 12,7). Come dire che ognuno di noi può cogliere una parte della verità e questa parte che ognuno sa cogliere va messa a disposizione di tutti, perché solo nell’ascolto reciproco, cioè nell’ascolto dello Spirito che abita ciascuno di noi, possiamo avvicinarci alla verità tutta intera.
L’altra riflessione che vorrei condividere con lei è un invito a guardare il linguaggio con cui esprimiamo i nostri pensieri.
So che questo può apparire secondario rispetto ai contenuti del discorso, cioè alla sostanza dei pensieri. Ma non è così. La psicologia ci è maestra in questo senso. La nostra esperienza lo è ancora di più, se proviamo ad ascoltarla. Quante volte le sarà capitato di sentire da sua moglie o da uno dei suoi figli parole che l’hanno offesa, che le sono arrivate addosso come pietre. “Fai sempre così… sei un egoista… non te ne frega niente di me…”, ecc. Lì per lì avrà risposto con parole altrettanto pesanti. Poi, fermandosi a riflettere con sé stesso, in un momento di silenzio, chi sa quante volte si sarà detto che in fondo avevano ragione, ma ‘se me lo dicevano in un altro modo…’.
Proprio perché il linguaggio, le parole hanno un peso. Sono come pietre, dicevo l’altra volta: servono per costruire, ma possono anche uccidere.
Ci facciamo mai la domanda su quale sia l’obiettivo che vogliamo raggiungere con le parole che usiamo nei nostri discorsi? Forse troppo poco. Quando esprimiamo la nostra opinione, perché lo facciamo? Per essere d’aiuto a chi ci ascolta, perché attraverso le nostre parole possa cambiare, possa vedere anche quella parte della verità che noi riusciamo a cogliere, o non piuttosto per far veder quanto siamo forti o ‘bravi’ con i nostri discorsi?
Il mio dubbio è che sia più il secondo obiettivo a prevalere. Perché, se davvero vogliamo aiutare l’altro a vedere ciò che noi vediamo, allora cercheremo il modo di avvicinarci a lui e di permettergli di avvicinarsi a noi, ai nostri pensieri.
Ma quando gli scagliamo addosso le nostre parole con violenza, con arroganza, con la pretesa di chi possiede tutta la verità, non ci poniamo nella posizione di chi vede l’altro come un povero mentecatto, un cretino che ‘non capisce niente’, che è completamente assoldato all’altra parte (politica o religiosa o ideologica)?
Ritorniamo alla vicenda di Eluana. Vorrei invitarla a riascoltare insieme certe parole, a sentirne il peso. A sentire l’effetto che queste possono avere in chi le ascolta con pensieri diversi. Guardi, le prendo, con il dispiacere per avercele trovate, proprio da questo giornale che ci ospita: «… ammazzata per fame e per sete… il padre come un qualsiasi genitore spartano che getti il proprio figlio disabile dal monte… cattolici pavidi… abominevole e ripugnante… una disabile innocente al patibolo… ragionamento nazista…».
Caro Giulio, se lei sentisse tirarsi addosso queste parole per qualcosa che avesse fatto, si avvicinerebbe a chi le parla così, per cercare di comprendere ciò che le vuol dire? O non sarebbe piuttosto portato a chiudersi ancora di più nelle sue convinzioni e a rispondere con parole altrettanto pesanti e offensive?
Davvero dovremmo ricordarci sempre di chiederci quale obiettivo vogliamo raggiungere nell’esprimere le nostre idee. E, dato che anche lei è un credente, mi permetto ancora di prendere le parole che lo scrittore sacro ascolta dal Dio della Bibbia: “ io non godo della morte dell'empio, ma che egli desista dalla sua condotta e viva” (Ezechiele 33,11). La violenza (anche delle parole) richiama violenza e genera morte, la morte dell’incontro. Il dialogo e la conversione del cuore, per vivere, hanno bisogno di parole di pace.