21 nov 2010
Cercasi... padre e marito (1)
Sono rimasta sola. Due mesi fa un giorno mio marito mi dice che non mi ama più e che nella sua vita c’è un’altra. Abbiamo un bambino di dieci mesi. Non so più come fare: vorrei che lui ci ripensasse, ma mi dice che di me non è stato mai innamorato e che adesso finalmente se n’è accorto, che ora non può rinunciare alla sua vita, ora che ha trovato il grande amore. Spesso, durante le mie giornate, mi accorgo che guardo il nostro bambino e piango. Non vedo un futuro davanti a me e ho paura di non farcela a far crescere Andrea, da sola. Lui dice che per il figlio ci sarà sempre, ma io non ci credo. Perché non riesco più a fidarmi.
Ma che hanno gli uomini che scappano di fronte alle responsabilità? Due nostri amici la stessa cosa. E dire che avevano fatto i salti mortali per avere un figlio: erano andati perfino all’estero per la fecondazione assistita. Poi, sei mesi dopo la nascita della loro bambina lui se n’è andato con un’altra.
Benedetta D.
Io non lo so cos’hanno gli uomini. Quelli che scappano di fronte alle responsabilità. Forse hanno che sono rimasti bambini e non si sono accorti che sono diventati adulti. E che adesso addirittura sono loro che hanno messo al mondo dei bambini: veri, questa volta!
Cara Benedetta, la sua è una storia triste e dolorosa. La vita la sta mettendo di fronte ad una grande prova. Ma, purtroppo, non è così rara come invece ci piacerebbe che fosse. Ora lei l’ha voluta condividere con noi, e noi tenteremo di scambiarci insieme delle riflessioni. Perché siano utili a quei giovani, uomini e donne, che stanno formando la loro famiglia e progettano di mettere al mondo dei figli. Perché possano farlo con occhi aperti, consapevoli della grandezza di tale progetto e della responsabilità che esso richiede perché si realizzi in maniera ‘sufficientemente buona’. Per loro stessi, prima di tutto, e per i loro figli.
Proviamo a partire da una costatazione: sembra un pensiero condiviso, nella nostra società, che i figli sono della madre. Nessuno ammetterebbe di pensarla così, naturalmente, ma se guardiamo gli atteggiamenti e i comportamenti, sia degli uomini che delle donne, credo proprio che dovremo convenire che questo è il pensiero dominante, il pensiero che determina il modo in cui facciamo i genitori.
Qualche esempio.
Andiamo a scuola. Ai colloqui, o quando un insegnante chiede di parlare con i genitori, chi è tra i due che ci va? La maggior parte delle volte - per non dire ‘(quasi) sempre’ - è la mamma che si presenta. ‘Ma lui lavora!’ mi direte. Sì, ma oggi, molto spesso anche lei ha il suo lavoro, come il marito. Però è lei che si sente in dovere di prendere il permesso per andare a scuola. Perfino quando ci sono le riunioni per i genitori, voi fateci caso, su venti genitori presenti diciotto sono mamme. E questo non soltanto alla scuola materna o alle elementari. Alle superiori la stessa cosa. Il marito ‘lavora’. E il padre? Lavora!
Il bambino sta male. Chi rimane in casa? Chi va dal pediatra? È spesso un’impresa riuscire a coinvolgere direttamente anche il padre. Ma lui non sa fare. Perché, a lei chi gliel’ha insegnato?
Il pomeriggio. Chi si preoccupa di accompagnare il figlio in piscina, a scuola di musica, al catechismo? E’ vero, qualche volta ci va anche il padre. Ma non succede che bisogna ricordarglielo?
Cari uomini, perché ci comportiamo così? Non c’eravamo anche noi quando la mamma è rimasta incinta? Non era nostro il desiderio di diventare padri? Anche nostro il desiderio di fare un figlio? Il fatto è che padri si diventa facendolo. Noi umani non abbiamo i meccanismi automatici (= istinto) che guidano i comportamenti degli altri animali. Noi diventiamo genitori man mano che lo facciamo. Non sono la gravidanza e il parto che fanno sì che una donna diventi una madre. È il continuare a prendersi cura dei figli che l’aiuta in questa trasformazione. Così per un uomo. È la frequentazione quotidiana, il rendersi attivo nella cura del figlio che lo fa diventare padre. Giorno dopo giorno.
Se un padre è assente dalla vita del figlio, questo padre gli insegna che essere padre significa essere assenti dalla vita dei figli. E il figlio imparerà che i figli sono della madre. E sarà questo pensiero che lo guiderà, poi, da adulto, quando metterà al mondo i figli suoi. Anche lui sarà un padre assente.
E questo è solo un aspetto. Perché accanto a questo ce n’è un altro, ancora più pericoloso.
Se quest’uomo, nella sua famiglia, con i suoi genitori, ha imparato che i figli sono della madre, ha imparato anche che le madri sono dei figli. Che una donna, cioè, quando diventa madre, smette di essere anche una moglie. Se lui e i suoi fratelli appartenevano alla mamma, la mamma apparteneva a loro. Al punto che non poteva vedere, neanche immaginare, che i suoi genitori erano anche una coppia di coniugi.
Altre volte ci siamo fermati, in questi nostri incontri settimanali, a riflettere sul fatto che la nostra famiglia d’origine è la nostra ‘scuola’: il luogo dove abbiamo imparato cosa significa essere una famiglia e come, in essa, le cose devono funzionare.
Ma così come siamo in grado di superare, aggiornandole, certe tradizioni e usanze che andavano bene ai tempi dei nostri nonni e dei nostri genitori, ma che riteniamo non più adatte alla vita di oggi, così dovremmo lavorare con noi stessi per costruire modelli rinnovati nel nostro modo di essere genitori (padre e madre) e nel nostro modo di essere coppia (marito e moglie).
Un padre ‘solo lavoratore’ e una madre ‘solo madre’ potevano anche andare nelle generazioni passate (non stavano bene neanche loro, in verità): di certo non funzionano più oggi.
Questo lavoro di ri-costruzione di nuovi modelli non può essere fatto che in due. Lui e lei, insieme, hanno bisogno di parlarsi, confrontarsi, discutere, dialogare. Da sempre le nuove generazioni hanno dovuto rivedere i modelli del passato e aggiornarli. Chi, oggi, userebbe ancora la macchina da scrivere al posto del computer? O chi sarebbe in grado di vivere senza televisione o senza automobile?
Oggi i cambiamenti sociali sembrano essere più veloci, e ciò rende un po’ più faticoso il lavoro. Ma questa è la forza delle nuove generazioni.
(1. continua)