VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

13 mar 2010

Come gli struzzi?

Dopo varie ricerche, i medici mi hanno diagnosticato la SLA. Non è stato e non è semplice per me doverci fare i conti. All’inizio ne eravamo a conoscenza soltanto io e mio marito. Da un paio di mesi ne abbiamo parlato con alcuni nostri amici. E’ successa una cosa che non mi aspettavo: ora i nostri amici non ci chiamano più come prima. La cosa che più mi colpisce è che perfino la mia migliore amica sembra evitarmi: se non sono io a chiamarla per sentirci, temo che passerebbe tanto di quel tempo… Perché le persone fanno così? Eppure non sono loro ad avere questa terribile malattia, sono io che dovrò farci conti man mano che andrò avanti negli anni…

  1. Letizia A.

 

Cara M. Letizia, è vero, non sono loro a dover fare i conti con questa malattia. Ed è assolutamente giustificata la sua meraviglia. Se parlo di un mio problema con un amico, lo faccio anche per dirgli che ho bisogno di parlare con lui. Della sua condivisione. Anche solo della sua vicinanza - che è già tanto. Gli amici, si dice, si vedono al momento del bisogno. Perché allora queste persone sembrano essersi allontanate da lei?

 

Vede, noi usiamo un’immagine quando parliamo di chi non vuol vedere la realtà che la vita, nelle diverse circostanze, ci pone davanti. Diciamo che uno fa come gli struzzi: mette la testa sotto la sabbia. Cos’è che i suoi amici non vogliono vedere? Non vogliono vedere che esiste la malattia. Che, cioè, esiste la possibilità, per ciascuno di noi, di doverci incontrare un giorno o l’altro con una qualche malattia, più o meno grave. E siccome la malattia richiama il pensiero della morte, incontrare la malattia significa, per il nostro inconscio, doverci incontrare con la morte. La nostra morte.

Succede un fenomeno strano: quando incontriamo una persona che ha una malattia seria, noi pian piano non vediamo più quella persona, vediamo la sua malattia. Un po’ come quando incontriamo un immigrato, quelli che chiamiamo ‘extracomunitari’: non vediamo una persona, vediamo la sua diversità.

 

La malattia, la diversità. La paura.

Evitare il diverso ci fa sentire sicuri nella nostra identità. Evitare il malato ci fa sentire sicuri nella nostra salute.

Ma se ci vuole così poco per metterci in crisi, significa che le nostre sicurezze sono proprio traballanti.

 

Nessuno di noi ama star male. E tutti ci auguriamo di non incappare mai in una malattia grave. Questo pensiero è sano. E facciamo molto bene a mettere in atto tutti quegli accorgimenti che aiutano a prevenire l’insorgere di un qualche malanno.

Il problema nasce quando gli accorgimenti che mettiamo in atto sono comportamenti e atteggiamenti magici, piuttosto che comportamenti concretamente efficaci e scientificamente validi. Quali sono questi accorgimenti magici? Pensi, per esempio, a quando tocchiamo ferro o facciamo altri scongiuri per evitare che una cosa brutta di cui stiamo parlando ci possa colpire. Lo facciamo perfino quando passa un funerale: come se toccare ferro (o qualche altra cosa) potesse impedire che anche noi, un giorno, incontreremo la nostra morte.

 

Vede, gli amici che cercano di evitare lei e la sua famiglia, stanno dicendo che sono prigionieri di un pensiero magico. Con una parola più ‘scientifica’, diremmo che sono prigionieri di un pensiero inconscio, di un pensiero, cioè, di cui non sono consapevoli. Al punto che, se noi glielo diciamo, ci diranno che assolutamente non è vero. Loro questo non lo pensano proprio: “Mica siamo bambini!” direbbero. E direbbero bene. Questo è un pensiero proprio da bambini, nel senso che sono i bambini che pensano così: il loro pensiero è un pensiero magico.

Per i suoi amici, incontrare lei significa incontrare (= dover vedere che esiste) una grave malattia o, come lei dice, una malattia ‘terribile’. La sua malattia diventa come una maschera che le mettono sul viso e che i loro occhi non riescono ad attraversare, una maschera che impedisce loro di riconoscere il suo vero volto, il volto di M. Grazia.

 

C’è poi un’altra difficoltà che loro sentono. Se noi chiedessimo alla sua amica perché fa tanta fatica a chiamarla, lei ci direbbe: “Perché non so cosa dirle”.

La sua amica, i suoi amici, i nostri amici fanno fatica a comprendere che chi sta male non chiede che gli si dicano tante parole: chiede di poter vivere la vita di tutti i giorni in quella normalità che la malattia permette.

Quando siamo malati abbiamo bisogno di avere vicino le persone che ci vogliono bene. Abbiamo bisogno di poter parlare con loro di come stiamo, anche delle nostre paure. Ma non solo di questo. Abbiamo bisogno di poter parlare di loro, di come stanno loro, di quello che fanno. Poter parlare dei nostri progetti. Poter parlare della normalità della vita. Che comprende anche la malattia.

Abbiamo bisogno, in sintesi, di poterci incontrare da persona a persona. Senza maschere sul volto.