VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

7 mar 2010

Confessione o psicologia? (1)

Una strana citazione ho trovato nel nostro giornale del 14 febbraio. Essa diceva: “Che tristezza: abbiamo abbandonato la confessione e ci siamo affidati agli psicologi, passando ore e ore sdraiati nei loro studi, con l’unico risultato che il numero dei depressi e dei malati di mente è in continuo aumento”.

 

Mi rendo conto che, come per ogni citazione, una frase estrapolata dal contesto rischia di essere letta in modo sbagliato, quando non addirittura di essere capita con un significato opposto a quello che l’autore voleva dire. Mi dispiace che il nostro giornale sia scivolato così. Ma, dato che la frase è stata messa in questo modo, nuda e cruda, la prendiamo per buona così com’è e proviamo a farci qualche riflessione.

Non conosco l’autore. Ma, onestamente, la frase, così come suona, mi fa pensare che chi l’ha scritta non conosce bene né cosa sia la confessione né cosa sia la psicologia e la psicoterapia. O forse le conosce solo a livello giornalistico, non professionale.

 

Non comprendo la ragione che ha portato Voce ad offrirci una citazione così inutile, se non addirittura dannosa, per quanto è lontana dalla realtà delle cose. Dico questo, perché io credo che nessun sacerdote penserebbe di affrontare e risolvere i disturbi mentali (come depressione, stati di angoscia, disturbi di panico, anoressia, bulimia, ecc.) con la confessione. Così come nessuno psicologo, professionalmente serio e competente, porterebbe i suoi pazienti lontano dalla religione, e dalla confessione, se queste fanno parte della vita di chi si rivolge a lui per un aiuto professionale.

 

Detto questo, oggi proviamo a fare qualche riflessione sulla confessione. La prossima volta parleremo della psicologia.

 

Per parlare correttamente di confessione dovremmo guardare la tradizione nella chiesa, illuminata dalla parola del Vangelo.

Nel Catechismo della chiesa cattolica essa viene chiamata Il sacramento della penitenza e della riconciliazione (cap. 2, art. 4). “Quelli che si accostano al sacramento della Penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la chiesa…”. (La parola chiesa significa la comunità dei credenti).

Nella confessione, dunque, un cristiano vive un incontro particolare con Dio, che con il suo amore, paterno-e-materno, si avvicina a noi per perdonare le nostre mancanze e le nostre ingratitudini. Nello stesso tempo incontra anche i suoi ‘fratelli’ verso i quali pure ha mancato nel comandamento dell’amore: l’unico comandamento in cui Gesù ha racchiuso tutta la legge di Dio.

 

Il sacerdote davanti al quali ci inginocchiamo per la confessione ha come una duplice veste: egli in quel momento rappresenta il Signore Dio e, nello stesso tempo, nella sua umanità, tutti i nostri fratelli. Coloro verso i quali abbiamo mancato con i pensieri non buoni del nostro cuore e con i nostri comportamenti sbagliati. L’assoluzione che ci dà, quindi, è contemporaneamente il perdono da parte di Dio e il perdono da parte dei fratelli.

 

E’ vero che, spesso, molti di noi utilizzano il momento della confessione anche per avere qualche indicazione o consiglio dal sacerdote. Quando possiamo farlo, è qualcosa in più che troviamo nella confessione. Lo possiamo fare, certo. Ma non è il consiglio buono che possiamo ricevere che rende ‘buona’ la confessione. E’ nell’incontro con Dio e con i fratelli, per avere il loro perdono sul male che abbiamo fatto o sul bene che abbiamo trascurato di fare, il significato vero della confessione.

 

Riprendiamo in mano il Vangelo e andiamo a leggere il racconto che ci fa Gesù quando ci parla di come il Padre si comporta con noi nel momento in cui ci ‘allontaniamo’ dalla sua casa (= dal suo amore). E’, secondo me, una delle pagine più commoventi del Vangelo: Luca al cap. 15, 11-31.

 

Questo padre ha due figli.

Il più piccolo, dopo aver preteso le sue cose, scappa di casa e ne combina di tutti i colori. L’altro rimane in casa e fa il bravo figlio.

Dopo tanto tempo, il figlio che è scappato si rende conto del male che ha fatto e, pentito, ritorna con il desiderio di chiedere al padre di poter essere accolto come uno dei suoi servi. A lavorare per lui.

Gesù, che conosce bene questo padre, ci dice che “quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. Riaccogliendolo come figlio.

Qui, però, questo padre deve affrontare un altro dramma. L’altro, il figlio ‘bravo’, quando si accorge che il padre è in festa per il ritorno di suo fratello, non solo non sa partecipare alla gioia di suo padre, ma non vuole neanche entrare in casa, tanta è la rabbia che coltiva nel suo cuore contro suo fratello e contro il padre che lo riaccoglie.

E questo padre che fa? Esce lui dalla casa per andare da questo figlio, per supplicarlo di entrare e partecipare alla festa: “Figlio mio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo. Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

 

Ognuno di noi, in fondo, può ritrovarsi in uno di questi due figli. O forse con un po’ dell’uno e un po’ dell’altro: tra chi ne ha combinate di tutti i colori e prima o poi riconosce i suoi errori, o tra chi ha la pretesa di essere nel giusto, pronto sempre a giudicare e condannare gli altri.

Che stiamo da una parte o dall’altra, nella confessione è questo il Padre che incontriamo: colui che esce di casa per parlare al nostro cuore e ci corre incontro per abbracciarci.

 

(La prossima settimana ci diremo qualcosa sulla psicologia. Per dirci come confessione e psicologia non sono due realtà in conflitto, ma semplicemente diverse.)

(1 - continua)