21 feb 2010
Fratelli di sangue
Tutti sappiamo che avere dei fratelli è una grande risorsa nella vita. Lo sperimentiamo da bambini. Lo riscopriamo poi da adulti. Quando possiamo passare con loro dei bei momenti di serenità e, soprattutto, quando ci accorgiamo che possiamo contare sulla loro vicinanza nei momenti di difficoltà.
Ma altrettanto chiaramente sperimentiamo che l’intensità dell’affetto può trasformarsi, in certi momenti, in un’ostilità altrettanto forte. Tanto significativo è l’affetto che ci lega, altrettanto duro e doloroso può diventare il conflitto.
E’ tanto vero questo, che ci siamo costruiti quasi un modo di dire: gli amici ce li possiamo scegliere, i fratelli no. Certo, corrisponde al vero. Ma questa frase acquista un senso poco piacevole quando ce la diciamo. E’ un po’ come dire che con quel fratello, o quella sorella, non riusciamo proprio ad andarci d’accordo. A capirci. Se poi abbiamo un pizzico di coraggio, arriviamo perfino a riconoscere che non riusciamo neppure ad ascoltarlo. Che significa: ascoltare anche le sue ragioni, non solo le nostre (= quelle che ci fanno sempre avere ragione!).
Ma oggi non è di legami familiari che voglio parlare con voi. E’ una riflessione che, partendo dalle esperienze che facciamo in famiglia, vi propongo di allargare alle relazioni tra due popoli. Gli arabi e gli ebrei.
Direte: che c’entra questo in una rubrica di psicologia?
La psicologia studia il mondo interno dell’uomo e il mondo delle relazioni che gli esseri umani vivono. Relazioni personali, relazioni tra gruppi, relazioni tra popoli. Il fatto è che il mondo attuale è diventato così piccolo che ogni evento, in qualunque parte del mondo esso abbia origine, produce i suoi effetti al di là dei confini geografici nei quali, tante volte, noi cerchiamo di rinchiudere le situazioni problematiche.
Oltre a questo, poi, nello specifico ci sono due fatti che ci toccano piuttosto da vicino.
Il 27 gennaio abbiamo ricordato un periodo recente della nostra storia, anche nazionale. Il giorno della memoria: sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli di Auschwitz. Gli ebrei, nella loro lingua, dicono shoàh: una parola che significa tempesta, rovina, devastazione. Una delle pagine più vergognose che la nostra Italia (solo per restare a casa nostra) ha saputo scrivere dalla storia di Roma ad oggi.
L’altro fatto con cui non possiamo non fare i conti è, invece, pane dei nostri giorni. Il fenomeno dell’immigrazione: la presenza in mezzo a noi di coloro che chiamiamo ‘extra comunitari’ ci porta a vivere un contatto quotidiano con persone che, in gran parte, provengono dal mondo arabo.
E’ la storia di ieri che non possiamo dimenticare. E la storia di oggi che ci chiede di guardare la nuova realtà in cui siamo inseriti.
Arabi ed Ebrei sembrano destinati a vivere un conflitto insolubile. Ragioni storico-geografiche inquinate e alimentate da ragioni economiche, politiche ed etniche.
Pseudo etniche, in realtà. Perché arabi ed ebrei sono fratelli di sangue.
Pensate. Nei miti che fondano la loro storia, questi due popoli si riconoscono figli dello stesso padre: Abramo. Sia la Bibbia (il libro sacro degli ebrei) sia il Corano (il libro sacro dell’Islam) fanno risalire a questo grande personaggio la loro origine. I miti raccontano che il primo figlio di Abramo, Ismaele, figlio di Agar, è il capostipite del popolo arabo. Isacco, il secondogenito, figlio di Sara, è il padre del popolo ebraico.
Sono miti, certo, non sono storia, intesa nel significato che noi moderni diamo a questa parola. Ma nelle culture antiche storia e mito hanno sempre camminato mano nella mano e si riconoscevano reciprocamente pari dignità. Anzi, per certi aspetti, la realtà dei miti era ancora più forte e significativa della realtà degli avvenimenti concreti.
Oggi i discendenti di questi due fratelli di sangue hanno bisogno di trovare aiuto nella comunità internazionale per costruire una convivenza guidata dalla pace.
E noi?
Anche noi cristiani ci riconosciamo figli di Abramo. Non nel senso storico/mitico di discendenza di sangue, come per gli arabi e per gli ebrei. Nel nostro caso la paternità di Abramo è in una dimensione di fede, cioè di relazione con quel Dio che con Abramo inizia come una ‘nuova storia’ con l’umanità. Storia che ha il suo compimento nella figura di Gesù di Nazareth.
Ma questo è un discorso che appartiene alla teologia, non certo alla psicologia.
La psicologia può invitarci a riflettere. Perché nella riflessione possiamo trovare la strada per costruire una buona convivenza tra esseri umani.
Anche i miti, se ascoltati con attenzione e rispetto, possono aiutare a... riscoprirci fratelli.