31 gen 2010
Il prete, un uomo
Il giorno di Natale da bravi cristiani siamo andati a messa. Il nostro parroco ha saputo trovare proprio le parole giuste per parlarci dell’amore di Dio che manda nel mondo il figlio. Le sue parole mi hanno colpita, ma ad avermi colpita è stata anche un’altra cosa: quando ci siamo salutati, dopo la messa, ho colto un velo di tristezza nel suo sguardo. Tornando a casa ne parlavo con mio marito e anche lui l’aveva notato. Strano, ci dicevamo: quelle parole tanto belle sull’amore di Dio, che aveva saputo dirci, era come se a lui non portassero quella serenità che invece avevano portato a noi. Ci dev’essere qualcosa che mi sfugge… Forse pretendo troppo dal nostro sacerdote?
Annachiara G.
Cara Annachiara, intanto devo dirle che mi pare bello che voi siete stati capaci di osservare lo sguardo del vostro sacerdote e cogliervi, almeno in parte, il suo stato d’animo. Non so quali pensieri lui potesse avere, quel giorno, quali preoccupazioni potessero occupare la sua mente e renderlo triste. Nonostante le parole di luce e di gioia che aveva saputo offrire a voi e a tutte le persone che l’avevano incontrato per la messa.
Le sue riflessioni mi portano a proporre a lei e ai nostri amici lettori una domanda. Che vi invito ad ascoltare e a tenere aperta. Almeno qualche minuto.
Mi chiedo se, quando guardiamo i sacerdoti, proviamo mai a guardarli nella loro dimensione di uomini. Persone che vivono la vita, con le difficoltà e le contraddizioni di qualsiasi altro essere umano. O se invece li collochiamo sempre (o quasi) su un altro piano, un piedistallo, lontani dalla realtà della vita quotidiana.
Il mio timore è che troppo spesso la distrazione o l’abitudine ci rendono difficile ascoltare i momenti di dolore e di sofferenza che accompagnano la vita di un prete. Siamo abituati a vederlo lì, nelle nostre chiese, la domenica, o qualche altra rara volta, ma non abbiamo il tempo o l’attenzione per chiederci come sarà il suo tempo quando non lo vediamo.
Ed è proprio quest’aspetto particolare della sua vita che vorrei proporvi di guardare ora, con me. E’ solo un aspetto, sia chiaro, ma non di poco peso.
Probabilmente è difficile immaginare, per chi non ne ha esperienza, cosa significhi non poter contare su un affetto umano, non avere una spalla su cui appoggiarsi nel momento della stanchezza o della malattia. Non avere con chi condividere la gioia della festa.
Rientrare in casa e trovare le stanze vuote, senza parole, e senza una presenza, con cui magari anche litigare, qualche volta, ma con cui comunque incontrarsi. Entrare in un letto che è sempre troppo grande - anche quando i centimetri dicono che è piccolo - perché vuoto, privo del respiro e del calore di un altro essere umano.
Da trent’anni lavoro come psicoterapeuta e in questi anni, in provincia come nella grande città, ho incontrato sacerdoti che mi hanno portato il peso e il dolore della loro solitudine. Il bisogno di un affetto umano, di una compagna con cui condividere un’intimità. Di anime e di corpi. Una mano da stringere, e che possa stringere la tua, e camminare insieme per le strade della vita.
Sembra che non ci debbano essere parole di conforto per il prete: lui deve trovare parole per gli altri. Ma chi ne trova per lui? Per il suo cuore, quando, uomo tra gli uomini, soffre le medesime sofferenze di un qualsiasi altro essere umano ‘costretto’ dalla vita ad essere solo. Solo. Mi raccontava un prete che, quando usciva, lasciava la luce accesa in una stanza della casa così, la sera, al rientro, aveva l’illusione che ci fosse qualcuno ad aspettarlo…
So che nella chiesa, tra il popolo dei credenti, nessuno si scandalizzerebbe se ai preti venisse riconosciuta la libertà, che la vita riconosce ad ogni essere umano, di poter scegliere se formarsi una famiglia o no. La chiesa cattolica (romana) richiede ai suoi sacerdoti di vivere nel celibato. E’ una norma della chiesa in vigore da circa mille anni come ‘obbligo’: prima era un’indicazione, c’erano sacerdoti sia celibi sia sposati.
Sul piano dottrinale, lo sappiamo bene, nulla vieta che nel tempo questa norma possa di nuovo cambiare. E di certo cambierà. Nelle altre chiese cristiane, anche oggi, i sacerdoti sono liberi di scegliere se vivere nel celibato o formarsi una famiglia. Del resto Gesù stesso aveva scelto uomini sposati tra gli apostoli: ricordate la suocera di Pietro (= il primo papa, sposato!) che Gesù guarisce dalla febbre?
Nel Vangelo Gesù dice che ad alcuni è dato da Dio il dono del celibato ‘per il regno dei cieli’. E’ certo un dono grande da parte di Dio: Gesù stesso ha vissuto questa condizione. Ma non ha legato questo dono al sacerdozio ministeriale.
Se è un dono, non rischiamo di impoverirlo rendendolo un obbligo?
Lei, Annachiara, ci ha dato l’occasione di condividere alcune domande. Le ho scritte perché credo che noi, chiesa di Dio, possiamo crescere nel dialogo. Nella possibilità, cioè, di poter esprimere e poter ascoltare opinioni anche diverse. Nel rispetto reciproco e nella convinzione che nessuno, da solo, può pretendere di possedere tutta la verità.
Farci delle domande, e tenerle aperte, significa avere il coraggio di ascoltare i pensieri che lo Spirito vorrà suggerirci. Se dovessimo restare schiavi di regole rigide, soprattutto quando queste si rivelassero non pienamente rispettose dell’uomo d’oggi, sarebbe segno di paura, non di coraggio.
Nella consapevolezza che un sacerdote più sereno è un dono per tutta la comunità.
*** La Direzione del giornale ha ritenuto di non poter pubblicare questo articolo perché "non fedele alla posizione ufficiale della Chiesa". Viene pubblicato con il titolo: Il prete, uno di noi