13 giu 2010
Nel palmo delle sue mani (3)
Ci facciamo accompagnare ancora una volta dalle parole di Maria, questa giovane donna che ha voluto condividere con noi alcuni dei pensieri con i quali sta intessendo il suo dialogo con la Vita.
Poi … la risposta è stata uno sguardo verso l’alto: nessuno sa, neppure l’oncologa. Io sono nel palmo delle Sue mani, al riparo. Lui non mi farà del male e mi proteggerà da tutto questo, non può accanirsi perché sa che sono atterrata. Mi ha provata nello spirito e nel corpo, ora mi aiuterà a rialzarmi, mi conforterà, mi darà nuova forza. […]
È la mia preghiera, a Lui che sa e che conosce ogni angolo nascosto del mio animo.
Le sue parole, Maria, mi richiamano parole antiche. Duemila500 anni fa è stato scritto: «Il popolo ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (Isaia 49, 14-16). Sono parole che, attraverso lo scrittore sacro, il Signore Dio rivolge al suo popolo per dirgli il Suo legame con lui.
Chi di noi non ha mai detto, o almeno pensato: ‘Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato’? Quando la vita ci mette davanti a momenti difficili da attraversare, quante volte anche noi credenti ci siamo sentiti, ci sentiamo, abbandonati da Dio. Come se Lui fosse lontano da noi, preso da altri pensieri e da cose più importanti. Eppure l’immagine che Lui ci offre è sicuramente la più forte che una persona possa comprendere. Il legame che unisce una madre con il proprio figlio.
E’ questa un’esperienza di tutti. Tutti siamo figli e tutti abbiamo scritta nella nostra memoria profonda la forza del legame che ci unisce a nostra madre. Sia essa ancora vivente o abbia lei già terminato questa fase della vita che noi ancora stiamo percorrendo.
Chi tra noi, poi, è madre, sa ancora più profondamente cosa significhi amore e cura verso il proprio figlio. L’immagine che il Dio della Bibbia usa per aiutarci a comprendere l’intensità del Suo pensiero per noi (= l’intensità del Suo amore) è così forte da superare ogni nostro desiderio. Quale madre non farebbe tutto, e anche di più, per il proprio figlio? Al di là perfino delle sue forze.
Eppure… chi di noi non si è mai lamentato con la propria madre? Quante volte ce la siamo presa con lei perché sentivamo che non ci capiva, non ci ascoltava. Ci sembrava presa dai suoi pensieri, dalle sue preoccupazioni.
E questo è sicuramente vero per tutte le mamme. Che non possono prescindere dalla dimensione umana. Dal limite umano. Nessuna donna potrà mai essere una madre ‘perfetta’. Nessuna. Né alcun figlio potrà mai pretendere che la vita gli metta a disposizione una madre che possa risolvergli tutti i problemi e le difficoltà che, crescendo, inevitabilmente incontra. Il legame madre-figlio, nella dimensione umana che ci appartiene, non può prescindere, poi, dalla qualità della presenza paterna. Presenza con i figli. E presenza con la madre dei figli - che è sua moglie. Nella relazione umana la presenza del padre-e-marito colora profondamente la relazione madre-figlio. Ma questo è altro discorso. Che sicuramente riprenderemo.
Forse è proprio per questo, perché ci conosce così bene, che il Dio della Bibbia insiste nel suo pensiero: “Se anche una madre si dimenticasse, io non ti dimenticherò mai”.
Come crederci? Quando ci sentiamo soli, spaventati, atterriti a volte di fronte alle prove della vita.
Questo è un quesito che sempre ha accompagnato l’essere umano. E, io credo, continuerà ad accompagnarlo nei milioni (?!) di anni che la nostra specie avrà ancora da vivere sulla terra.
Non riusciamo, spesso, a vedere il significato di ciò che la vita ci mette davanti. Nel bene e nel male. In ciò che ci piace e in ciò che, invece, ci addolora e ci spaventa.
Disorientato per tutto il tempo vissuto nelle disgrazie - la perdita dei suoi beni, la morte di tutti i familiari, malattie devastanti che lo portano a maledire il giorno in cui è nato e gli tolgono ogni speranza di vita -, solo alla fine di tanta sofferenza Giobbe riesce a dire al suo Dio: “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento…” (Giobbe 42, 15).
E’ la sofferenza una strada inevitabile? E’ il dolore un compagno di cammino, sicuramente scomodo, ma altrettanto saggio?
Nella tradizione islamica si racconta che un giorno «Gesù, figlio di Maria, passò presso un uomo afflitto, ne ebbe pietà e disse: “O Dio, ti chiedo proprio di guarirlo”. Allora Dio gli rivelò: “Come posso guarirlo da ciò con cui lo sto guarendo?”» (I detti islamici di Gesù, 190).
A tutti noi, credenti e non credenti, capita a volte di parlare di Dio. O anche di sentirne parlare. In chiesa, la domenica. Negli incontri di catechismo. Nei corsi di studio, nelle scuole di teologia. A volte perfino sui giornali o in certi programmi televisivi. Lo stiamo facendo anche noi, adesso.
Parlare di Dio.
Ma parlare di Dio non è parlare con Dio. Quando ci concediamo di parlare con Lui? Discutere con lui. Lamentarci, ringraziarlo. Il dialogo aperto con la Vita è il dialogo aperto con Lui. Dio è la Vita, la Vita è Dio. Nel vangelo Gesù lo dice chiaramente: “Io sono la vita” (Giovanni 14,6). E aggiunge “Io sono la verità, io sono la via”. Parlare con Dio per conoscere meglio la via, la strada da percorrere in questa dimensione di vita che ora stiamo attraversando.
“Fammi conoscere, Signore, la strada da percorrere, perché a te si innalza l’anima mia” è scritto nel salmo 143. E ancora “Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini” (salmo 86).
Ancora un GRAZIE, Maria, per aver condiviso con noi parte delle parole che intessono, oggi, il suo dialogo con la Vita. E con Lui. Nella fiducia di essere, insieme, disegnati nel palmo delle Sue mani.
(3 -fine)