VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

16 gen 2011

Religione... libera (1)

Il primo giorno di gennaio, da ormai 44 anni, siamo invitati a riflettere sulla pace nel mondo. E tutti sappiamo molto bene quanto ne abbiamo bisogno. Ad ogni livello. Dal piano internazionale, al nostro quotidiano, nella vita personale e in quella delle nostre famiglie.

Quest’anno, in particolare, la riflessione è andata sul bisogno che il mondo ha di ritrovare e coltivare la libertà religiosa come via per la pace. Perché, purtroppo, siamo stati capaci di ridurre perfino le religioni a motivo di disaccordo e di conflitto. Le notizie che hanno accompagnato questi giorni di festa ci hanno messo con forza di fronte a questo fatto. Egitto, Iraq, Pakistan sono soltanto le prime località che vengono in mente.

 

Quello della libertà religiosa è un tema molto complesso. Perché anche in questo campo succede che diamo nomi sbagliati a certi nostri comportamenti e atteggiamenti. Usiamo la religione come copertura per contrasti e opposizioni che nascono da ragioni che con la religione niente hanno a che vedere.

Ma, forse, anche qui dobbiamo riprendere quanto c’eravamo detti appena qualche settimana fa, subito prima di Natale, a proposito di religione e di fede. Perché di nuovo siamo entrati nella confusione. Nella confusione di chi guarda la religione come fosse… un partito. E dà così tanto peso alla dimensione istituzionale da farla prevalere su quella più autentica, l’unica che ne giustifica l’esistenza, la dimensione spirituale.

 

Come può accadere questo? Se ci pensiamo bene, ci accorgiamo che non è difficile da comprendere. Perché, poter dire che siamo cattolici, o ortodossi, o musulmani, o buddisti, o perfino atei, diventa fonte di identità. Di identità personale e di identità sociale.

 

Qui la psicologia ci viene in aiuto.

Tutti noi viviamo delle appartenenze. Ne abbiamo bisogno, perché appartenere ad un gruppo ci permette di dire, a noi stessi e agli altri, chi siamo. Provo a spiegarmi.

Il primo gruppo di appartenenza, pensateci bene, è la nostra famiglia. In essa noi troviamo la radice della nostra identità. In essa nasce perfino il nostro nome. Se io sono Federico, è perché nella mia famiglia mi hanno pensato e chiamato con questo nome. Vedete? Diciamo: ‘io sono’ Federico, o Claudio, o Gabriella, ecc. Cioè questo sono io, questa è la mia identità.

Dalla famiglia, man mano che andiamo avanti nella vita - bambini, adolescenti, adulti - i nostri gruppi di appartenenza si ampliano e si moltiplicano. La scuola prima, gli amici che frequentiamo poi, i colleghi di lavoro in seguito. La professione, l’orientamento politico, il partito, il gruppo sportivo, la squadra del cuore… tutto questo diventa per noi luogo di appartenenza e fonte di identità.

 

Tutto questo è normale e sano. Come esseri umani noi siamo animali in relazione. E l’essere in relazione ci richiede di sapere chi siamo: chi sono io e chi è l’altro.

 

Può anche la religione diventare luogo di appartenenza e fonte di identità?

Certo che può esserlo. Se siamo esseri in relazione, è chiaro che anche il riconoscerci in una religione contribuisce alla costruzione di un’identità, e ha bisogno di essere vissuto in una dimensione sociale. Ogni nostra ‘appartenenza’ ha bisogno di esprimersi socialmente.

Ma è proprio qui il punto. Riconoscersi in una religione non può essere come appartenere ad una tifoseria o ad un partito politico. I tifosi dell’Inter sono avversari dei tifosi milanisti. Gli uomini della sinistra vedono come avversari quelli della destra. C’è poco da dire, noi funzioniamo così. La nostra identità si alimenta sia nell’appartenenza al nostro gruppo, che nella differenza e opposizione con il gruppo dell’altro (degli altri). Al punto tale che spesso rischiamo di fare confusione: così gli altri, che prima sono semplicemente gli altri, man mano diventano gli avversari, e, non di rado, i nemici.

 

Qui è il punto, dicevo. Che riconoscersi in una religione non può essere come appartenere ad una tifoseria o ad un partito politico. Non può essere nemmeno come appartenere ad una nazione.

Perché riconoscersi in una religione significa riconoscersi in un cammino spirituale. In una relazione con Dio, Padre-e-Madre dell’umanità. E riconoscersi in questa relazione significa vedere gli altri, tutti gli altri, come fratelli. Perché figli di un unico e medesimo Creatore del mondo. Anche se gli altri lo chiamano con un nome diverso da quello che usiamo noi e per incontrarlo usano modi diversi dai nostri.

Significa riconoscersi in un cammino comune, che è il cammino di tutti gli uomini e le donne del mondo. Il cammino della conversione del cuore nella riscoperta di un’appartenenza speciale, grande, unica: l’appartenenza alla famiglia umana. Forse per questo Gesù di Nazareth non ha mai detto: “Entrate in questa o quella religione…”, ma ha iniziato il suo insegnamento dicendo: “Il tempo della salvezza è venuto, è vicino il Regno di Dio: aprite il vostro cuore e credete in questo lieto messaggio!” (Marco 1,15).

 

Le religioni sono diverse. Ed è naturale che sia così. Perché le religioni sono legate alla cultura di un popolo. Cattolici o laici, musulmani o buddisti, induisti o protestanti o ortodossi, o qualunque altra ‘definizione’ vogliamo darci, non possiamo dimenticare una grande verità: le religioni sono soltanto delle strade. Per arrivare alla meta. Non sono esse la meta. La meta è l’incontro con Dio.

(1. continua)