6 feb 2011
Ricordare per vivere (1)
La settimana scorsa, il 27 gennaio, abbiamo celebrato nel mondo la Giornata della memoria. Nel 2000 anche l’Italia ha aderito alla proposta dell’ONU di dedicare questo giorno al ricordo dell’Olocausto. La data è stata scelta perché proprio il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche, nella loro avanzata verso la Germania nazista, entrarono per la prima volta nel campo di Auschwitz, in Polonia. Questo - e tanti altri - era il luogo in cui venivano deportati ebrei, zingari, omosessuali, disabili… I diversi. Gli inutili. Anzi, quelli da eliminare.
Perché?
«Poi l’autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni) ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi.
Siamo scesi, ci hanno fatto entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua dei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, ‘essi’ sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera, e c’è un rubinetto, e Wassertrinken verboten. Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l’acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude.
Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così. (…)
Spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – Hier ist kein Warum, - (qui non c’è perché), mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone».
È Primo Levi che racconta il suo arrivo ad Auschwitz. Lui, il «pezzo» 174517, ne è sopravvissuto e ha provato a parlarcene. Lui, come pochi altri. È riuscito a vivere per raccontarci. Chiedendoci, così, di non dimenticare. Riuscirà a vivere fino 1987, quando decide di morire, togliendosi la vita. Quella vita che, in realtà, gli era già stata tolta. Dal nazifascismo. E dal silenzio di chi a quei regimi non ha avuto la forza di opporsi.
Tante volte mi sono fermato a chiedermi come possa essere successo tutto questo.
La vita mi ha risparmiato quell’esperienza, come, credo, alla maggior parte di voi che state leggendo. Non solo, mi ha risparmiato anche di vivere quei tempi. Noi non c’eravamo. Non eravamo ancora nati. E chi, tra noi, era già nato, non aveva ancora la capacità di accorgersi di ciò che stava accadendo. Era solo un bambino.
Tuttavia più volte, sentendo raccontare queste cose e leggendo l’esperienza di chi le ha vissute sulla sua pelle, dentro di me ho sentito nascere anche un’altra domanda: e se ci fossi stato anch’io in quegli anni dominati dalle leggi razziali, cosa avrei fatto, come mi sarei comportato? Da che parte mi sarei collocato? Hitler non è andato al governo alla guida di un esercito. Né l’ha fatto Mussolini. Tutto in regola. Nel rispetto della democrazia. Eppure… Mi rifiuto di pensare che i nostri nonni fossero tutti cretini o ingenui. E credo che così la pensiate anche voi. Eppure…
Eppure tutto questo è successo. E non in un lontano Iran dove ancora oggi i capi, politici e religiosi, arrivano perfino a negare questa pagina di storia. O in uno sperduto paese del terzo mondo confuso nella sharia. È stato a casa nostra. Nella grande e cristiana Germania e nella civile e cristiana Italia.
Ricordare è la strada per restare svegli. Per tenere aperti gli occhi. Per conservare la capacità di chiederci se anche oggi non stiamo mettendo in campo atteggiamenti e comportamenti per allontanare il diverso. Per tenerlo fuori dal nostro quotidiano. Penso ai diversi per cultura, per colore della pelle, per i limiti in cui l’età o la malattia o la disabilità li costringono. Oggi non abbiamo più leggi razziali: ci mancherebbe altro! Mi chiedo, però, se facciamo sufficiente attenzione a certi segnali che, secondo me, dovrebbero allarmarci. Almeno un po’. Penso, per esempio, a certi modi, piuttosto sbrigativi, con cui la nostra civile e cristiana Italia respinge in mare tutte quelle persone che si vedono costrette a lasciare i loro paesi d’origine per la guerra, la persecuzione politica, la miseria. Facendo finta di non sapere (= non volendo vedere) che fine faranno, una volta ritornati sulle coste libiche.
Auschwitz non è nato dal nulla. Le grandi catastrofi del passato sono cominciate in sordina. I nostri nonni non avrebbero pensato mai di deportare in campi di concentramento gli ebrei o gli zingari o gli omosessuali. Persone con cui erano sempre vissuti in santa pace. Eppure l’hanno fatto. O l’hanno lasciato fare - che poi non è molto diverso.
Le crisi nelle nostre famiglie non arrivano una mattina con la pioggia o con la neve. Lo sappiamo bene: iniziano piano piano. Una volta si dice una parola sbagliata, e la si lascia lì; dopo un po’ non ci si parla, e il silenzio si allarga; poi succede che non riusciamo più neanche a litigare. Finché un giorno ci accorgiamo che non riusciamo più a trovare la strada per incontrarci e ci ritroviamo sperduti, soli, sconosciuti. Incapaci perfino di continuare a vivere nella stessa casa.
E’ così che funziona la nostra mente. Se non restiamo svegli, ci abituiamo pian piano anche alle cose più brutte e terribili. E ci accorgiamo quando è troppo tardi.
La storia è maestra di vita, diciamo. Ma una maestra può insegnare soltanto se gli alunni vogliono imparare. Per questo abbiamo bisogno di non dimenticare gli errori del passato, se vogliamo davvero vivere senza ricaderci.