11 set 2011
Riscopriamo la nostra età
Ero andato a trovare un amico, piuttosto avanti negli anni, ma in buona salute, soprattutto con la luce della mente ben accesa e vigile. Una luce che gli permette di vivere pienamente questo nostro tempo senza cadere in quel vecchio ritornello, che pure tante volte ci sentiamo ripetere e che suona, più o meno, così: “Ai miei tempi…”, e giù poi lamentele sui giovani d’oggi e sulle tante complicazioni di questo mondo moderno. I suoi ottant’anni sono piacevoli da incontrare, per quello che ‘sanno’ e per la loro disponibilità al confronto e al dialogo, anche acceso se necessario, ma comunque sempre aperto.
A un certo punto, salutandoci, mi dice che c’è un problema che nella vita non ha soluzione. Alla mia domanda, curiosa, e attenta a non lasciarsi scappare una cosa così importante, mi risponde: “È l’anagrafe! Con questa non ci puoi fare niente” e mi ricorda che se ha ottant’anni, ne ha ottanta. Anche se può sentirsene dieci di meno.
Era troppo importante non lasciare andare questo pensiero, ho detto con me stesso, quindi ci siamo fermati a parlare sulla porta per un altro quarto d’ora.
Attilio ora sta bene, è consapevole che non lo spaventano i tanti cambiamenti che ha incontrato, nel tempo, e che sta ancora incontrando nel rapporto con un mondo in continua evoluzione - nel bene e nel male -, ma ogni volta che ripensa ai suoi ottant’anni, sente come un freno, qualcosa che gli dice “Ma hai ottant’anni! Non ti ricordi?”. “Secondo me - gli dico - tu vedi i tuoi ottant’anni non dal punto in cui sei nella tua vita, ma da dove li guardavi tanto tempo fa. Magari quando di anni ne avevi sessanta, o quaranta, o anche di meno, molti di meno”.
Lasciamo ora Attilio e proviamo a fermarci un momento su questa riflessione e ci facciamo accompagnare da quella sensazione che anche noi, tutti, abbiamo sentito in diversi momenti nella vita. Ricordo che un giorno, ero in alta montagna per condividere qualche giorno con la neve affascinante di un ghiacciaio, e stavo mangiando con mio nipote, parlavamo della scuola. A un certo punto mi dice: “Ma quella prof è vecchia, certo che ragiona così!". Gli dico: “Ma se è vecchia, non è ora che va in pensione?”, “Come, in pensione? Ci avrà trentacinque anni!”. Dall’alto dei suoi undici anni, Cristiano vedeva la sua prof di trentacinque ‘vecchia’. Ed è così. Quanti genitori si sentono dire dai loro figli che sono ‘vecchi’, quando questi non si sentono capiti e vedono che gli adulti la pensano proprio in un altro modo. Lo facevamo anche noi quando parlavamo con i nostri insegnanti, o a casa con i genitori: loro erano più grandi, anzi, quando i loro pensieri erano tanto lontani dai nostri, erano proprio ‘vecchi’!
Poi, quando a trentacinque anni ci siamo arrivati noi, allora, parlando di noi stessi, ci chiamavamo ‘ragazzi’. E con questa parola ci siamo andati avanti tanti anni. Quaranta, cinquanta. Pochi giorni fa un signore mi diceva: “Quando siamo tra noi ragazzi stiamo proprio bene, ci capiamo al volo”. I ragazzi, naturalmente, erano i suoi coetanei cinquantenni!
E a cinquant’anni come vediamo i sessanta, i settanta? E gli ottanta?
Vi capita mai di sentire qualcuno che dice di avere, non so, cinquant’anni e di sentirsene sì e no trentacinque? O di averne sessanta e di sentirsene venti di meno? Magari capiterà anche a noi di pensarlo. E di dirlo.
Era un po’ questo il senso delle mie parole che scambiavo con il mio amico quando gli dicevo che lui ora stava guardando i suoi ottant’anni con gli occhi del passato e non con gli occhi del presente. Perché ci fa impressione dire che una persona ha ottant’anni. Anche se la vediamo in buona salute. Perché il rischio che corriamo è quello di non guardare il presente con gli occhi del presente, ma di guardarlo con gli occhi del passato. Di quel passato in cui ci faceva impressione il numero ottanta!
Dove ci portano tutti questi pensieri?
Io credo che se li ascoltiamo ci portano in un luogo buono, perfino piacevole. Il luogo della nostra età di oggi: di quell’età che ci permette di vivere i nostri pensieri, le nostre relazioni, i nostri desideri, le nostre cose. Di un’età che scopriamo capace di coltivare anche dei progetti. Da realizzare. Per i quali impegnare le nostre energie: quelle di oggi.
Lo so che Attilio mi direbbe che oggi non ha più le energie che aveva a vent’anni, o anche a quaranta. E ha ragione di dirlo. Ma lui, quando ragiona così, dimentica una grande verità: che a vent’anni, o quaranta, non aveva le energie per vivere come sta vivendo oggi che di anni ne ha ottanta. Non aveva l’energia per ascoltare la sua esperienza di oggi, per guardare la vita con gli occhi di chi sa guardare dentro una cornice di prudenza e di saggezza. Non sapeva, a vent’anni, ascoltare e riflettere come sa fare oggi.
La saggezza degli anni ci chiede di vivere ogni età con le sue potenzialità. Desiderare a ottant’anni di vivere come se di anni ne avessimo venti di meno, sarebbe altrettanto stolto come desiderare a quaranta di vivere come se di anni ne avessimo venti di più. A quaranta non possiamo aver maturato la capacità di guardare la vita e il mondo con lo sguardo di un ottantenne. Perché, allora, a ottanta dovremmo rimpiangere l’immaturità e la leggerezza dei venti o dei quaranta?
Ad ogni giorno la sua pena, ci diciamo. E ce lo diciamo come una cosa da imparare bene per vivere bene. Perché allora non proviamo a dirci: ad ogni età la sua energia? Ad ogni età la sua maturità. La sua saggezza. Quanto sarebbe bello e quanto sarebbe più leggera la vita se imparassimo ad amministrarla così, e a scoprire che il tempo è il nostro amico più fidato: non ci abbandona mai. L’unica cosa che ci chiede è di saperlo riconoscere. Giorno per giorno e anno per anno.