VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

3 apr 2011

Una medicina per l'uomo

Ho un bambino di un anno, e dieci giorni fa mi trovavo a casa con lui che aveva 39 di febbre. Ho chiamato il pediatra per chiedergli di visitare mio figlio e mi ha risposto che dovevo portarlo nel suo ambulatorio perché lui non poteva venire a casa. Ma le pare giusto che un bambino con la febbre così alta doveva essere portato fuori per farlo vedere dal dottore? Quando io ero piccola, mi dice mia madre, il medico veniva a casa a vedermi se avevo la febbre alta. È questa la nuova medicina “umanizzata” di cui ci parlano in tutti i programmi della televisione?

Annalisa E.

 

Due giorni fa avevo portato la mia bambina di due anni dalla pediatra. Aveva tanta tosse e il nasino chiuso, non aveva dormito tutta la notte. Gli si era alzata la febbre, ma la dottoressa che avevo chiamato al telefono mi ha detto che non poteva venire a casa e che dovevo portarla nell’ambulatorio. Eravamo in sala d’attesa sei mamme con altrettanti bambini, ognuno con i suoi malanni. Pensi che allevamento di germi ci doveva essere in quella stanza! Perché i dottori oggi non vengono più a casa per le visite? Non sono pagati anche per questo?

Elena B.

 

Due mail mi sono arrivate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. Questi, del resto, sono proprio giorni speciali per le influenze e i mali di stagione! Per noi grandi e per i più piccini. Due settimane fa un mio amico, lui grande, più di cinquant’anni, si lamentava con me al telefono perché nonostante avesse la febbre da quattro giorni e avesse chiamato il medico per farsi vedere, aveva ricevuto la stessa risposta: doveva andare in ambulatorio, prendere il numero (quello che serve per stabilire l’ordine delle visite) e aspettare il suo turno per essere visitato.

 

Non credo sia necessario entrare nei dettagli del contratto di lavoro del medico di famiglia. È sufficiente, qui, sapere che esso prevede che “L'attività medica viene prestata nello studio del medico o a domicilio, avuto riguardo alla non trasferibilità dell'ammalato” e che “La visita domiciliare deve essere eseguita di norma nel corso della stessa giornata, ove la richiesta pervenga entro le ore dieci; ove invece, la richiesta pervenga dopo le ore dieci, la visita dovrà essere effettuata entro le ore dodici del giorno successivo” (Art 47, 1 e 3). Un’altra cosa che possiamo ricordare qui è che lo stipendio del medico è calcolato sulla base del numero degli assistiti che l’hanno scelto come proprio medico e non sul numero delle prestazioni che un assistito gli può chiedere. (Giusto per avere un’idea, possiamo ricordare che un medico che abbia 1.500 assistiti - è questo il numero consentito - ha uno stipendio lordo annuo di oltre centomila euro).

 

Su questi aspetti, ora, io ho poco altro da dire. Mi piacerebbe, magari, che il Direttore dell’ASUR (o un qualche dirigente suo collaboratore) possa dirci qualcosa in merito. Vediamo. Se ci legge, io penso che qualcosa ci dirà. Aspettiamo.

 

Ora, invece, vorrei fare alcune riflessioni su come noi che lavoriamo nell’area della salute (medici, infermieri, tecnici della riabilitazione, psicologi, ecc.) ci poniamo con il nostro lavoro. Perché il pericolo, secondo me, è che ci dimentichiamo che questo è un lavoro speciale.

Noi non abbiamo a che fare con delle macchine o con dei bulloni da avvitare. Oggetto del nostro lavoro sono le persone. Anzi, non sono propri oggetti del lavoro perché i nostri occhi dovrebbero non dimenticare di vedere che sono soggetti: uomini e donne, adulti o bambini, che, se hanno bisogno del nostro lavoro, significa che si trovano in un momento di difficoltà. In un momento in cui si sentono e sono più deboli, più fragili.

Tutti abbiamo sperimentato che quando un qualche acciacco colpisce il nostro corpo, anche il nostro spirito va giù. Ci sentiamo stanchi, affaticati, senza energia vitale. Quando poi la malattia diventa più seria, allora perfino le cose belle che la vita ci ha dato e continua a darci diventano grigie, prive di colore, prive di significato. Perfino gli affetti sembrano inutili, tanto è lo sconforto che può invadere il nostro animo.

 

Ed è in questi momenti che ricorriamo al medico. A chi ‘ci capisce qualcosa’ in quello che ci sta accadendo. È molto importante, allora, che lui ci stia vicino. Con il suo sapere, con la sua scienza, possiamo dire. Ma non basta. Proprio perché noi umani non siamo delle macchine che sono ‘soddisfatte’ quando incontrano un bravo meccanico. Il corpo non esaurisce la nostra dimensione. Un medico che fosse soltanto un bravo meccanico del corpo non ci basta. Abbiamo bisogno di incontrare una persona, abbiamo bisogno, cioè, che egli sappia mettere in campo anche la sua umanità. Che è fatta di attenzione, di capacità di ascolto, di accoglienza, di disponibilità.

 

È vero che gli studi universitari non curano affatto questa preparazione nel futuro sanitario (medico, infermiere, psicologo, ecc.), ma ciò non dovrebbe giustificare certi comportamenti o atteggiamenti da ‘impiegato di concetto’. Chi fa un lavoro di cura ha bisogno di ritrovare in sé motivazioni che oltrepassino il puro bisogno di lavorare e di avere uno stipendio a fine mese. Un tempo si diceva che certi lavori sono anche una missione. Oggi questa parola sembra qualcosa di antiquato o, con un termine piuttosto brutto ma di moda, qualcosa che sa di buonismo.

Buonismo! E se lo chiamassimo semplicemente disponibilità umana? Magari scopriremmo che è una cosa di cui non c’è proprio da vergognarci. Anzi!