28 ott 2012
Novembre. Un bel regalo del calendario
I santi, i morti, e... noi?
Sembra che per comprendere il mondo abbiamo bisogno di dividerlo in parti, in luoghi, in tempi, separati e ben distinti. E guardarne, di volta in volta, una parte. È esperienza di ogni giorno dover fare i conti con il limite della nostra mente: ogni qualvolta cerchiamo di comprendere l’universo della vita, il mistero della vita. Mistero significa segreto, qualcosa che rimane nascosto. Come in un luogo riservato e non del tutto raggiungibile.
Il mese di novembre conserva ancora, nella nostra tradizione, qualcosa che sa di mistero. Di segreto. Un qualcosa che abbiamo bisogno di scoprire, di dis-velare. Ci mette davanti al mistero della vita e della morte. Il primo e il più grande dei segreti che la nostra anima e la nostra mente faticano ad ascoltare.
Vedete, ancora una volta andiamo a distinguere, a separare: anima, mente, corpo… come se noi fossimo delle parti messe insieme da un qualche costruttore. Noi non siamo ‘parti’, assemblate e destinate a separarsi. Siamo un unicum. Un essere vivente. Un essere umano. Il gradino più alto della vita. Quel gradino che ha raggiunto la consapevolezza di sé.
Ma come ogni grande conquista, l’aver raggiunto un gradino così alto ci porta anche a sentire un peso tanto grande. Il peso della consapevolezza che la vita cammina, mano nella mano, con una compagna inseparabile: la morte. È così terribile questa ‘compagna’ che ogni volta che ne sentiamo il nome vorremmo scappare, nasconderci in qualche luogo segreto dove lei, la morte appunto, non ci possa trovare.
Eppure questa è la legge fondamentale della natura. È la spinta evolutiva che accompagna tutti gli esseri, anche quelli ai quali noi non riconosciamo la dignità di ‘esseri viventi’. Ogni animale, inserito nel tempo, nasce, cresce e a un certo punto completa il suo processo di trasformazione. Il suo passaggio a una forma di vita che è altro. L’animale non sa. Lui vive e procede sulla strada che la vita gli pone davanti. L’uomo sa. Questo nostro sapere ci rende grandi. Ed è proprio questa grandezza che ci fa consapevoli che anche per noi il processo di trasformazione è necessità di vita.
Gli diamo un nome dal suono lugubre, è vero: lo chiamiamo morte. Non ci piace, perché ci si presenta come uno steccato oltre il quale i nostri occhi non riescono a vedere. E la nostra anima-mente-corpo – cioè il nostro io – sente che così non può essere. Un grande padre della psicologia moderna, Freud, ricorda che l’inconscio rifiuta l’idea della morte. E tutti i miti risuonano di questo sentimento. Anche il mito biblico. Quando nelle prime pagine della Genesi si snoda il racconto delle origini, gli uomini e le culture che l’hanno visto nascere non hanno potuto fare a meno di guardare la morte come un errore, un fuori-programma: come la conseguenza di una scelta che l’uomo fa, incapace di riconoscere il proprio limite. Il mito ci racconta che la morte entra nel mondo perché l’uomo si ribella alla legge della vita, rinnegando la propria natura, pretendendo di “essere come Dio” (Cfr. Genesi 3).
Questi giorni vedranno molti di noi in viaggio, verso i cimiteri. Ci rechiamo lì per ‘andare a trovare’ qualcuno. Qualcuno che ora ha completato quel viaggio di trasformazione che noi stiamo ancora percorrendo. Sappiamo bene che i nostri amici, i nostri parenti non sono là. Rinchiusi in una triste e angusta casa di cemento armato. Essi sono con noi, vivono con noi. Insieme viviamo la stessa vita. Ma i nostri occhi sono ancora incapaci di cogliere questa verità.
In uno dei libri più recenti del Primo Testamento, scritto intorno a duemila anni fa, leggiamo: «Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina. Ma essi sono nella pace.» (Sapienza 3,2-3).
Io penso che è questa PACE che la parte più profonda di noi desidera. Questa ‘parte’ – che chiamiamo anima – ci richiama al bisogno di consapevolezza. Alla necessità, che ci appartiene, di aprirci alla domanda sul senso della vita. Alla necessità di ascoltare questa domanda e di tenerla aperta.
Da credenti, possiamo dare alla pace cui aneliamo il nome di DIO. Se poi, al momento, la fede non è una dimensione in cui sentiamo di ritrovarci, possiamo chiamarla VITA.
Dio o Vita, è comunque l’ascolto di questo desiderio profondo di essere nella pace che può illuminare il nostro viaggio quotidiano. Le scelte, i lavori, gli incontri, tutto il tempo che ora ci accompagna assumono così un senso e si riempiono di significato.