18 nov 2012
Di fronte al dolore del vivere
La strada del perdono (2)
Di fronte ad una persona che si toglie la vita, una domanda invade il nostro cuore: come posso io continuare a vivere con il peso della colpa per non essere stato capace di ‘salvarla’, per non aver saputo offrirle una spalla sulla quale appoggiarsi quando sentiva che da sola non ce la faceva più?
Di fronte al suicidio noi siamo disorientati. Persi.
Lo siamo di fronte alla morte. Quando essa arriva naturalmente. Per noi, per la nostra mente, perfino per la nostra anima lei è sempre compagna indesiderata. Il suo arrivo è come una violenza contro la vita. Da sempre l’abbiamo sentita come qualcosa che ci è ‘contro’. Nella Bibbia viene detta il nemico. S. Paolo ai cristiani di Corinto scrive: «L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» (1 Cor 15,26).
Di fronte a un uomo che muore la nostra mente si ribella. Chi muore scompare dalla nostra vita, e così facendo ci lascia un vuoto. Quanto più questa persona ci era vicina negli affetti, tanto più questo vuoto è grave e pesante. E quando una persona a noi vicina, la vita se la toglie volontariamente, il vuoto che ci rimane è infinitamente maggiore. Perché, se pure non siamo in grado di darci una spiegazione ‘soddisfacente’ di fronte alla morte naturale, di un amico o di un parente, meno ancora riusciamo a farlo di fronte a un suicidio.
E questo vuoto, immenso, inspiegabile, inaccettabile, chiede comunque di essere colmato. E a colmarlo arrivano i nostri sensi di colpa.
Un vuoto grande ha bisogno di sensi di colpa grandi per essere riempito. Nella nostra anima esso diventa come un buco nero. La fisica ci dice che un buco nero è una fonte di energia così potente che attira a sé ogni cosa: perfino la luce, pur con tutta la sua carica energetica, ne diventa prigioniera. Così accade alla nostra mente: il grande vuoto che lascia colui che si toglie la vita attira a sé tutte le nostre energie. Al punto che se non ascoltiamo le domande che nascono in noi, queste possono avvolgerci e trascinarci verso uno stato simile a quello che ha catturato colui che la vita se l’è negata.
Il senso di colpa ci parla attraverso le domande che occupano la nostra mente. Perché non mi sono accorto del suo malessere? Che cosa non ho fatto? Dove ho sbagliato?
E qui cominciamo a ripensare ai diversi momenti condivisi, alle parole che c’eravamo scambiati in tante circostanze, ai silenzi che hanno abitato tanti nostri incontri. Ripercorriamo nella memoria tempi e luoghi. E si attiva una sorta di processo: iniziamo a dare significati a cose che, quando succedevano, ai nostri occhi quei significati non l’avevano. Allora ci rimproveriamo perché non avevamo capito che quando lui ci appariva serio e triste, dovevamo essergli più vicini. Che quando ci diceva che non ce la faceva più, dovevamo prenderlo sul serio e non chiudere il discorso con una pacca sulle spalle o una battuta per alleggerire. Che quella sera che è uscito di casa, e non è più tornato, dovevamo capire che sarebbe andato là. Ad incontrare la sua morte.
Domande. Domande che resteranno senza risposta. E ce le ripetiamo. All’infinito.
Ma perché queste diventino utili per ritrovare un po’ di pace nel nostro cuore, abbiamo bisogno di muoverci in due direzioni. La prima: provare a fare la pace con noi stessi. La seconda: dare, a chi ci ha lasciato, il permesso di continuare la sua strada. Abbiamo bisogno di pensarlo in una dimensione di vita. Che noi non conosciamo, di cui cioè non abbiamo esperienza. Abbiamo bisogno di perdonarlo. E di perdonare a noi stessi.
Perdonare a colui che si è tolto la vita perché non l’ha fatto contro di noi.
Perdonare a noi stessi perché abbiamo bisogno di ritrovare la nostra strada di vita. Di ritrovare la pace nel nostro cuore. Perché ora, ora che l’altro se n’è andato, a noi rimane il compito di vivere. Di continuare la nostra strada, provando a dirci che anche questa persona che se n’è andata, in realtà continua il suo cammino di vita. Anche se per noi è difficile coglierlo.
Se possiamo trovare un tempo di silenzio e di ascolto, con noi stessi – facendoci aiutare, se non riusciamo a farlo da soli (da un amico, un sacerdote, uno psicologo) – riusciremo a sentire che è proprio questo che cerca di dirci la nostra anima. Di fronte al mistero della vita e della morte, il silenzio e il raccoglimento sono buoni compagni di strada. Per continuare quel cammino che anche chi ora non è più con noi aveva avviato e, sia pure in una dimensione a noi sconosciuta, anche adesso continua a percorrere.
(2. continua)