11 nov 2012
Di fronte al dolore del vivere
Le nostre domande aperte (1)
Le cronache di questi tempi ci riportano spesso storie tristi di persone che vanno incontro alla morte. Una morte non temuta, una morte ricercata. È un tema difficile questo, da guardare. Prima che andiate avanti nel leggere questi pensieri, allora, devo dirvi una cosa: siate ‘pazienti’ nel seguirmi. Dedicheremo più incontri a riflettere su ciò che chiamiamo il dolore del vivere. Passo dopo passo cercheremo di arrivare, insieme, a indicarci una strada di vita, anche quando difficoltà e pesi sembrano toglierci le forze per andare avanti.
Suicidio è parola difficile. Non nel suo significato etimologico: sui-cidio nasce dall’incontro di due parole latine, se (= se stesso) e caedere (= colpire, uccidere). Difficile nel suo significato affettivo: tutto il nostro mondo interno risuona di un colore lugubre, triste, buio. Senza speranza. Così noi lo sentiamo. Noi che restiamo, privi ormai della persona che ha deciso di andarsene. Che ha deciso di colpire se stessa.
Certo, noi – noi che restiamo – diciamo colpire, uccidere. La persona che lo fa, probabilmente, direbbe liberare. O almeno così pensa. Liberare se stessa da una situazione che per lei non è più sostenibile. Malattia, solitudine, silenzio, mancanza di prospettive. Il buio. Buio che è oscurità totale, assenza di ogni possibilità di vedere, di guardare oltre. Oltre questo momento e questo luogo che imprigionano. Incatenano.
Il suicidio ha sempre accompagnato la storia dell’umanità. Di fronte ad esso non abbiamo potuto fare a meno di interrogarci, nel tentativo di trovare delle risposte. Non l’abbiamo potuto evitare in passato, né possiamo farlo adesso. È una cosa troppo sconvolgente, impensabile. Contro il nostro istinto di sopravvivenza. Eppure… eppure in ogni epoca e in ogni cultura esso ha camminato accanto a noi. Platone lo vedeva come un’offesa verso gli Dèi, per Aristotele l’offesa era verso la comunità. Filosofi a noi più vicini vi vedono una trasgressione alla legge morale, altri un atto assolutamente ‘inutile’. Nel mondo orientale esso ha assunto perfino significati positivi: suicidi rituali. Dalla vedova che si dà la morte sul rogo del marito, ai suicidi a tutela del proprio onore nell’antico Giappone. Nella tradizione ebraica, nella cultura cristiana e in quella islamica, il suicidio è considerato un atto grave, perché signore della vita è soltanto Dio e l’uomo non ne può disporre come vuole.
Ma questo pensiero – che soltanto Dio è il Signore della Vita – è così grande che spesso ci rimane difficile riuscire a farlo nostro. Nella sua pienezza e profondità. Perché anche qui corriamo il rischio di attribuire a Lui i nostri pensieri, con tutto il limite che questi sempre portano con sé. Nel corso del tempo Lo abbiamo ‘ridotto’, Lui il Signore della Vita, a un giudice pronto a condannare chi, dalla sofferenza del vivere, ha cercato di uscire chiudendo con questa dimensione della vita, troppo pesante per le sue spalle di pover’uomo. Perfino le religioni, a volte, sono scivolate su quest’immagine di Dio. Di certo l’abbiamo fatto con le migliori intenzioni, con il proposito di svolgere una funzione ‘pedagogica’ nei confronti di chi rischiava di vedere davanti a sé come unica e ultima strada quella di lasciarsi morire.
Ma se «compassionevole e misericordioso è il Signore» (Salmo 111), possiamo pensare che i primi ad incontrarne la compassione e la misericordia sono proprio coloro che, di fronte al dolore del vivere, non hanno saputo trovare la forza di continuare.
La riflessione psicologica ci aiuta a cogliere che tante nostre rigidità nascono dal bisogno di ‘proteggerci’ di fronte al dolore di una morte ricercata. Dolore tanto più grande, quanto più la persona che si toglie la vita ci è vicina. Nei pensieri e negli affetti.
Due domande nascono, allora, nel nostro cuore.
La prima. Come può uno arrivare al punto di negarsi la vita? L’altra. Come posso io continuare a vivere con il peso della colpa per non essere stato capace di ‘salvarlo’? Per non aver saputo offrirgli una spalla sulla quale appoggiarsi quando sentiva che da solo non ce la faceva più?
Sono domande cariche di sofferenza. Nei prossimi incontri proveremo a dirci qualche pensiero che ci sia d’aiuto. Quando dovessimo trovarci noi di fronte a momenti di buio senza speranza. E quando dovessimo vivere con il dolore di una perdita e con il peso del rimorso per non esserci ‘accorti’ della disperazione di chi ci ha lasciati.
(1. continua)