6 mag 2012
Tecnologia. Serva o padrona?
Dall’inizio dei tempi la tecnica ha accompagnato l’uomo nel suo processo evolutivo e nel corso della storia: da quando abbiamo scoperto che potevamo lavorare una pietra e farla diventare uno strumento utile a cacciare un animale o a tagliarne la carne per nutrirci, fino ad oggi, capaci di costruire macchine di una complessità straordinaria. Diverse sono le procedure e i risultati di questo lavoro, ma lo scopo che ci guida è sempre lo stesso: potenziare le nostre capacità e rendere più ospitale e piacevole l’ambiente in cui siamo inseriti. Costruire un alloggio che ci protegga dal freddo o dal caldo eccessivi, fabbricare una macchina che ci faciliti negli spostamenti, o costruire un oggetto che ci permetta di comunicare con chi non è raggiungibile con i nostri occhi o i nostri orecchi… tutte queste sono attività che rispondono al medesimo bisogno: potenziare quelle capacità che la natura ci dà ma che sentiamo insufficienti per le nostre esigenze.
La parola tecnologia ha origine nel greco antico tèchne che significa abilità, arte. Potremmo dire che essa significa la capacità di ‘fare’ qualcosa, concretamente. Platone sosteneva che il significato vero della parola tèchne indica ‘il possesso della mente’, l’essere padrone e il poter disporre del proprio pensiero. Ma Platone era uomo capace di ascoltare i suoi pensieri e di tenere con essi un dialogo sempre aperto. Così la sua tèchne (capacità di costruire) camminava mano nella mano con la sua filosofia (capacità di pensare). E da questa riceveva vita, in un dialogo aperto e costante tra abilità nel fare e abilità nel pensare.
E noi uomini del duemila che rapporto instauriamo con le ‘macchine’ che oggi siamo in grado di costruire?
La freccia che un soldato di Sparta scagliava contro il suo nemico poteva raggiungere il bersaglio con una velocità impossibile per le gambe di un uomo. Così come è infinitamente più veloce di qualsiasi atleta un’automobile o un aereo che ci trasporti da un luogo all’altro del pianeta. Così come assai più veloce è l’elaborazione di dati che un computer può fare rispetto alle capacità di calcolo che il nostro cervello è in grado di mettere in campo. Tutto questo – e chi sa quanto altro ancora saremo in grado di costruire – diventa strumento prezioso nelle nostre mani, aiuto enorme nelle più svariate situazioni.
Ora però dobbiamo farci una domanda: tutta questa velocità che abbiamo conquistato e di cui disponiamo nei diversi campi di attività, rimane al nostro servizio o, piuttosto, ci rende suoi servi? In altre parole, continuiamo ad essere noi che ne disponiamo e la usiamo quando e come ci serve, o ci lasciamo catturare e trascinare ovunque lei ci voglia trasportare? Perfino lontano da… noi stessi?
Tre giorni fa ero a mangiare con dei colleghi, e in un tavolo vicino c’era una giovane coppia. Ciascuno con il suo smartphone vicino al piatto, con gli occhi e le mani che continuamente si muovevamo tra il piatto e il telefonino. Per venti minuti non si sono guardati né si sono rivolti una parola. Poi si sono alzati e se ne sono andati.
In tante nostre famiglie, giovani e meno giovani, la sera, dopo una cena veloce – magari anche con la tv sempre accesa – ognuno si alza e va a piazzarsi davanti al suo computer. Per ‘entrare in contatto’… con chi? E nessuno si accorge che così facendo si stanno allontanando proprio da chi invece è lì, a diretto contatto umano!
La tecnologia che ci avvicina è una grande conquista, un dono che la mente umana è stata capace di fare a se stessa. Ma la tecnologia che ci allontana, che ci porta altrove, in un mondo virtuale, è una trappola. Un pericolo. Perché oltre che allontanarci tra noi, ci allontana anche da noi.
E se mi allontano da me, dai miei pensieri, dalle domande che abitano il mio cuore, rischio di perdermi. In una solitudine da cui non so ritornare.
Se è vero, come sosteneva Platone, che la parola tèchne indica il possesso della mente, non dimentichiamo allora che il posto di ogni ‘macchina’, anche la più sofisticata e affascinante, è quello di restare al nostro servizio.