2 giu 2013
Che bello, non ce l'hanno fatta!
«Prima la stirpe degli uomini abitava la terra del tutto al riparo dal dolore, lontano dalla dura fatica, lontano dalle crudeli malattie che recano all’uomo la morte». Così scriveva Esiodo, un poeta greco, duemila600 anni fa.
Gli uomini erano immortali. Un bel giorno Zeus, il padre degli dèi, decide di punire la specie umana dal momento che Prometeo le aveva donato il fuoco, rubandolo agli dèi. Così fa costruire Pandora, la prima donna. È bellissima e piena di tante qualità, immagine perfetta delle dèe immortali. Ma Zeus le dà un vaso dentro il quale sono racchiusi tutti i mali: la vecchiaia, il dolore, la malattia, il vizio. E la morte. Quando Pandora, ormai tra gli uomini, presa dalla curiosità apre il vaso, i mali che vi erano racchiusi escono e si spargono per il mondo. Subito lo richiude. Ma ormai i mali sono usciti. Dentro, però, in fondo al vaso rimane una cosa: la Speranza.
Esiodo non lo dice, ma io penso che sia proprio questa che ha reso gli uomini più forti degli dèi. Questi infatti sono morti ormai e vivono soltanto nei nostri miti. Noi invece, gli umani, impastati di limite e di fragilità, siamo sopravvissuti a tante prove. Alle lotte che gli abitanti dell’Olimpo si facevano tra loro coinvolgendoci nelle invidie e nelle gelosie che li guidavano. Siamo sopravvissuti alle lotte e alle guerre che ci siamo fatti nei millenni. E sopravvivremo a quelle che ancora ci faremo.
Non si erano accorti, gli dèi, che lasciarci la Speranza significava metterci nelle mani un’Energia di Vita che non solo ci avrebbe impedito di scomparire, ma ci avrebbe aiutati a crescere. Non avevano valutato che è proprio la Speranza quella forza che ci fa lavorare per continuare nella costruzione del mondo.
Riflettevamo la settimana scorsa sul richiamo seducente che esercita sulla nostra mente il rimpianto del passato. Il mito dell’età dell’oro, del paradiso terrestre, di un’immortalità perduta ogni tanto fa capolino nella nostra mente. Nomi diversi sono, ma tutti hanno in comune uno stesso pensiero: il passato è infinitamente migliore del presente.
È un pensiero così forte che ci cattura non solo quando guardiamo la storia della specie umana, la filogènesi (= origine della specie) – è questo, in fondo, che ci dicono tutti i miti. Ma la forza e il richiamo di questo pensiero sono tali che ci portano addirittura a leggere allo stesso modo anche l’ontogènesi (= origine di un individuo), cioè la storia di ogni persona, di ciascuno di noi. Non parliamo, in fondo, del desiderio di ritornare nell’utero materno? La psicologia, nelle sue varie scuole, su questo ha scritto intere biblioteche. Eppure sappiamo molto bene che se dopo nove mesi non fossimo usciti da quel corpo materno che ci ha così saggiamente e dolcemente ospitati, saremmo morti. Ciò nonostante, continuiamo a pensare a quei nove mesi come all’età dell’oro, come al paradiso perduto!
Ci abbiamo costruito psicologie, filosofie. Perfino religioni. Platone, duemilaquattrocento anni fa, riteneva che noi fossimo anime ‘prigioniere’ nei nostri corpi. In molte religioni incontriamo un pensiero che guarda al presente come ad un tempo meno nobile rispetto al futuro. Perfino noi cristiani abbiamo corso questo rischio. E, forse, continuiamo a correrlo. Perdendo di vista, così, proprio il fondamento della nostra fede: l’Incarnazione. Dio diventa uomo ed entra, pienamente, nella storia. Cioè nel presente. Gesù di Nazareth, che il mondo intero riconosce come un grande maestro, è per noi cristiani ‘qualcosa’ di più: è Dio con noi. E la sua collocazione nel tempo presente è così forte, che al momento di lasciare questa terra assicura i suoi che il suo Spirito continua a guidarci verso la “pienezza della Verità”.
Ecco, di nuovo, la SPERANZA. Che non è soltanto speranza in un futuro alienato dal presente, inteso come un tempo di prigionia fatto soltanto di prove da superare. È speranza che ci guida nella costruzione del presente. È Energia di Vita che ci fa partecipare al processo evolutivo del mondo, alla crescita dell’intero Universo.
Noi siamo nel presente. Che questo sia buono o meno buono sta nelle nostre mani, dipende dal nostro lavoro. Goccia su goccia, mattone su mattone. Rimpiangere il passato significa perdere la Speranza. Significa lasciare che a costruire il presente siano l’egoismo e la miopia che imprigionano chi cura soltanto il proprio tornaconto. Certo, gli dèi dell’Olimpo, prigionieri dei loro giochi, hanno perso la sfida con gli umani. E ora sono scomparsi. Ma stiamo svegli! Nuovi sedicenti dèi potrebbero impadronirsi del presente quando, sedotti dai loro discorsi e dalle loro azioni, ci lasciamo rubare la Speranza.