13 ott 2013
Ancora sul tema dell'utero in affitto
Un figlio... tutto nostro (4)
Ho letto i suoi articoli sull’utero in affitto. Non si offenda, ma io penso che lei la faccia un po’ troppo facile. Per me invece è importante sapere che mio figlio è del mio stesso sangue, e per fare questo io sono disposto a provare tutte le strade che la scienza oggi ci mette a disposizione. Anche la fecondazione assistita. Perché no? (…)
Remo
Accennavamo, qualche settimana fa, a quanto spesso, quando pensiamo a un figlio, ci facciamo prendere dal bisogno di avere un figlio del nostro stesso sangue. Mi ripromettevo di tornarci, e lei, Remo, ce ne dà l’occasione. Volevo ritornarci perché credo sia importante che sviluppiamo la capacità di riflettere anche su quei pensieri che ci appaiono scontati. Ovvii. Pensieri che coltiviamo nella nostra mente senza neanche farci caso.
Il bisogno di avere un figlio del nostro stesso sangue è uno di questi. Al punto che sempre più spesso quando una coppia non riesce a rimanere incinta, dopo aver fatto tutti gli accertamenti clinici, si rivolge a un centro per la fecondazione assistita. Ricorrendovi anche più d’una volta se i vari tentativi non danno buon esito. Nonostante i costi: non solo in termini di soldi, ma anche e soprattutto in termini di salute per la donna stessa, che si vede sottoposta a veri e propri ‘bombardamenti’ ormonali (che stimolino un’iperproduzione di ovuli).
Un figlio del nostro stesso sangue. Convinti che soltanto così quel figlio sarà davvero nostro. Nostro?
Due pensieri vorrei condividere in proposito. Con una premessa, però. Che queste mie considerazioni vogliono essere soltanto dei pensieri sui quali riflettere, insieme, convinto che poi ciascuno deve seguire la strada che sente più sua nelle scelte di vita. Compresa, naturalmente, la strada che vuole seguire per diventare genitore.
La prima riflessione. Nonostante quello che di solito pensiamo, non è il legame di sangue che ci fa sentire nostro un figlio. È un vero e proprio mito questo. Uno dei tanti che ci vogliamo raccontare.
L’anno scorso è uscito un film, in Francia: Il figlio dell’altra. È la storia di due bambini, uno di genitori arabi, l’altro di genitori ebrei, che nascono nella stessa clinica e che, nella confusione di un bombardamento, vengono scambiati nella culla: il bambino arabo crescerà come figlio della famiglia ebrea, e il bambino ebreo con la famiglia araba. La cosa si scopre al momento della visita medica per il servizio di leva. È chiaro che la regista, Lorraine Levy, qui prende a pretesto questa storia per evidenziare le assurdità di un conflitto tra due popoli, che ancora non riesce a trovare vie di soluzione. Ma storie come questa, storie di scambi di neonati in culla, non sono solo frutto della fantasia di qualche scrittore o regista. Sono anche cronache vere di vita vissuta.
Non è il legame di sangue che ci rende genitori o figli. Il patrimonio genetico con il quale nasciamo è soltanto una dimensione dell’essere umano. È il legame affettivo, che nasce nella relazione, che fa sì che questo bambino diventi ‘nostro’ figlio e noi diventiamo i ‘suoi’ genitori. E questa strada ha bisogno di essere percorsa sia in presenza di un legame biologico, sia quando questo viene a mancare. Tra genitori e figli è necessario che si attivi un processo che potremmo chiamare di adozione reciproca.
È nella condivisione del tempo, nella cura, nelle attenzioni che man mano ci si scambia; è nella vita di ogni giorno, che ci vede crescere insieme; nel piacere e nella fatica condivisi, nei momenti di luce e nei tempi bui; nelle notti insonni e in quelle di piacevole riposo che si apprende a diventare genitori di questo bambino e figli di questi genitori. Nei giochi e nelle liti. “Tu sei mio figlio” e “Tu sei mio padre/Tu sei mia madre” sono parole che nascono piano piano. Perché sono parole che non hanno le radici su un certificato anagrafico, né su una provetta di DNA. Sono parole che nascono nel cuore di un essere umano quando questi ha la possibilità di vivere in uno scambio di affetto e di amore.
Poi c’è un altro pensiero. Forse ancora più difficile da coltivare.
Ci dicevamo in altre occasioni che un figlio non è un oggetto, una cosa. Ma è un soggetto. Un individuo che, proprio come tale non appartiene ad altri che a se stesso. Non appartiene neanche ai suoi genitori. Perché ognuno nasce e viene al mondo con un suo progetto di vita. Non sempre così facile da ritrovare. E da realizzare. Compito di noi adulti – i genitori in prima fila, poi tutti gli altri – è di aiutare un bambino in questa realizzazione. È bello poter dire “Tu sei mio figlio”, così com’è bello sentirsi chiamare babbo o mamma. Ma queste parole non parlano di appartenenza. Né di legame di sangue. Parlano di condivisione e di progettualità.
(1. L'utero in affitto)
(2. Un rene e un bambino)