8 set 2013
Ancora di fronte al problema dell'omoaffettività
Un'estate faticosa
Il mese di agosto non ci ha regalato belle notizie. E non parlo di quanto ci ha elargito il mondo della politica. Qui, purtroppo, c’è ancora tanto da lavorare perché l’interesse del Paese prevalga, finalmente, sugli interessi di parte: ancora la miseria e la vergogna di uomini che hanno la pretesa di essere al di fuori e al di sopra di ogni regola e di ogni legge.
Mi riferisco, piuttosto, alle tante notizie di morte che giorno dopo giorno giungevano e giungono a rattristarci l’animo. La crisi egiziana. Le stragi in Siria. La catena di donne e uomini costretti a lasciare i loro paesi d’origine, che incontrano la morte a pochi metri dalla nostra terra. Ancora uomini, maschi, che si sentono in diritto di aggredire, fino ad uccidere, una donna che non accetta di restare in una relazione di prigionia.
Ma c’è una storia, particolare, che oggi vorrei riprendere con voi. La storia di quel quattordicenne che di fronte alla solitudine in cui il dubbio sul suo orientamento sessuale lo stava portando, non ha saputo reggere e ha preferito morire. Nella fiduciosa speranza – così io credo – di camminare verso un mondo di maggiore libertà. Dove omosessualità ed eterosessualità non segnano più la differenza tra chi è accettato e accolto nella sua umanità, e chi invece viene segnato a dito, rifiutato. O, tutt’al più, tollerato.
Certo, a quattordici anni il dubbio sul proprio orientamento sessuale è parte integrante di un normale processo evolutivo. Ma non è questo il problema che Andrea (così chiamerò questo nostro giovane figlio) ci pone. Né credo sia stato questo a portarlo verso una decisione così dolorosa e irreversibile. Il punto è che ancora i nostri pensieri – e di conseguenza le nostre azioni – sono guidati dalla ricerca del diverso e dalla designazione ed etichettatura di una non-normalità. I nazisti avevano deciso che gli omosessuali erano da eliminare dalla faccia della terra: esseri ‘fallati’ che inquinavano la purezza della razza. Noi, uomini civili del 2013, non useremmo mai parole tanto disumane. Ma siamo così sicuri che i nostri pensieri camminano per strade che nulla hanno a che fare con il desiderio di ‘ripulirci’ dalla presenza di coloro che, con una parola politically correct, chiamiamo gay?
Negli anni dell’adolescenza i ragazzi (e le ragazze) vivono i loro sentimenti con la forza e il limite della totalità. Per loro vale ancora la legge infantile o tutto o niente. O si sentono completamente parte del gruppo, o si vedono totalmente emarginati. L’amicizia ha per loro tinte forti. Per loro vale ancora più che per noi adulti quanto scrive nei suoi appunti il Figlio di Sirac nel II sec. a. C.: «Non è forse un dolore mortale un compagno e amico che diventa nemico?» (Siracide 37,2).
Se pensiamo ad un quattordicenne che non si trova bene con i suoi amici, che non si sente accolto nel gruppo, subito ci verrebbe da dirgli di parlarne con i suoi: il babbo, la mamma sapranno trovare la forza di ascoltarlo e le parole per fargli sentire che per lui, nel mondo, c’è tutto il posto che il suo cuore desidera. Sapranno aiutarlo a trovare la strada per vedersi ragazzino tra gli altri ragazzini. Simile agli altri e nello stesso tempo ricco della sua originalità e della sua energia vitale.
Facciamo però, ora, uno sforzo d’onestà. Immaginiamo che Andrea sia nostro figlio. Ha quattordici anni, fa la terza media. E un giorno ci viene a dire che i compagni lo prendono in giro. Ma non ha il coraggio di dirci il perché. Dopo tanta nostra insistenza, piangendo, ci spiega: lui si sente attratto dai ragazzi invece che dalle ragazze. E alla nostra domanda se quello che dicono gli altri è vero, lui ci risponde che sì, le cose stanno proprio così.
Cosa faremmo? Quali sentimenti, quali emozioni invaderebbero il nostro cuore di genitori? Non andremmo subito in crisi, soprattutto noi padri (= uomini, maschi)? Prima faremo del tutto per convincerlo che lui si sbaglia. Poi, quando continuerà a insistere che lui si sente proprio così… non ci verrà il pensiero che una disgrazia peggiore non ci poteva capitare?
Perché, vedete, questo è il dramma dell’omosessualità in questo nostro mondo: che neanche in famiglia un ragazzo (o una ragazza) trova quell’accoglienza di cui ogni essere umano ha bisogno. E non sentirsi accolti, con la propria diversità, neanche in famiglia… Dove andiamo?
Non pigliamocela genericamente con la società. La società siamo noi a costruirla. Con i nostri pensieri e con i nostri atteggiamenti. Così come siamo noi, cristiani, a costruire la chiesa. Io credo che sia come società civile sia come comunità di credenti, se non vogliamo essere anche noi tra i tanti che fanno finta di commuoversi di fronte al dramma del nostro Andrea – e dei tanti Andrea che vivono questi sentimenti –, dobbiamo aprire la nostra mente e dirci, finalmente, che l’omosessualità (= omoaffettività) è sì una diversità, ma una diversità che fa parte naturalmente della nostra umanità. Donne e uomini. Come tutti.