30 mar 2014
Il dolore dell'aborto
Qualche sera fa c’è stata una conferenza sul tema dell’aborto: ne sono uscito molto triste. Non perché non conoscessi la vastità del problema e la pesantezza di una tale esperienza per l’animo di chi si trova a viverla – faccio lo psicologo da ormai quarant’anni! – ma perché l’esperta che parlava ci ha sommersi con una valanga di minacciate conseguenze per quelle povere donne che l’attraversano. Senza una parola di attenzione e di vicinanza al dolore che pervade il cuore e la mente di chi abortisce.
La vita non si difende con il terrorismo. La vita ha bisogno di luce e di speranza per camminare sulle strade del quotidiano. Spesso fatte di salite, ripide e scoscese.
Nei miei quarant’anni di clinica ho incontrato molte donne che si sono trovate ad affrontare un’esperienza tanto drammatica. Mai nessuna ne ho vista che, di fronte alla domanda su quale decisione prendere, si ponesse con leggerezza e superficialità. Sempre la ricerca di una risposta alla domanda “Cosa fare?” era accompagnata da dolore e angoscia. Disorientamento e confusione. Sentimenti pesanti per il cuore di una persona. Sentimenti che a volte non riescono neppure a trovare le lacrime per uscire e permettersi un momento di respiro.
Anche il confessionale, che pure frequento da oltre quarant’anni con la responsabilità di dire parole che solo un Dio può permettersi – “Io ti assolvo…” – mi ha messo più volte davanti al dolore e al carico di un’esperienza tanto pesante.
Il Vangelo (= la Buona Notizia) ci parla di un Dio che sa dire soltanto parole di perdono e mai di condanna: è il Dio di Gesù di Nazareth. Allora mi chiedo perché un movimento che intende prendersi cura della vita e che guarda al Vangelo come fonte d’ispirazione, ci ha lasciati invadere solo da parole che si riempivano di numeri e di dati colpevolizzanti e minacciosi.
Nel nostro incontro dell’altro venerdì alla biblioteca Petrucci, riflettevamo sulla POTENZA che definisce la dimensione del femminile nell’essere umano, contrapposta al POTERE che appare più prerogativa del maschile nella relazione con le cose e le persone. Ci dicevamo che, pur appartenendo, sia il maschile sia il femminile, ad entrambi i generi (donne e uomini), la dimensione di potenza la donna la mette in campo proprio nell’area della trasmissione della vita. In senso biologico anzitutto, ma anche in senso spirituale. Ma proprio quest’area, che lei vive anche con il suo corpo, la pone poi nella condizione di dover fare delle scelte in prima persona che coinvolgono tutte le dimensioni del suo sé: il corpo, la mente e l’anima. E questa condizione, se da una parte la rende più vicina all’immagine del divino, dall’altra la pone anche in una situazione di maggiore solitudine e di ulteriore responsabilità.
Una donna che decide di interrompere una vita che sta nascendo dentro di lei è una donna sola. Non immaginate quante volte e con quanta fatica ho dovuto ‘lottare’ perché anche l’uomo (marito, fidanzato, amante, presenza occasionale) si sentisse coinvolto e corresponsabile in una scelta tanto impegnativa. Ma anche quando questi riesce ad esserci e a sentire e ad entrare nel campo della decisione, è sempre lei a doversi giocare in prima persona. È lei in trincea. Con il suo corpo. E con tutta se stessa.
Amici o parenti spesso non possono entrare in un momento tanto intimo e tanto forte. Allora magari è ad un professionista che vai a chiedere aiuto. E l’aiuto di cui hai bisogno è di riuscire a trovare la tua verità nel momento particolare che stai vivendo. O a trovare la tua verità in quell’esperienza che hai già vissuto, poco o tanto tempo prima. Perché è solo se riesci ad attivare questa ricerca – la ricerca della tua verità, non quella che ti dicono dall’esterno – che t’incammini sulla strada che alla fine ti fa ritrovare la pace. La pace con la vita. La pace con quel figlio che non è potuto nascere. La pace con il tuo cuore. Perché è questo il compito di una buona relazione d’aiuto: indicare la strada che porta alla pace con se stessi.
Il cammino non è facile. Non lo è per chi deve percorrerlo in prima persona. Non lo è neppure per il terapeuta che dovrebbe accompagnare e dare una mano a sostenere il peso della ricerca.
Mi dispiace non aver sentito parole di vita l’altra sera. Allora mi permetto di offrire un pensiero a chi, leggendo adesso queste righe, sente di avere il conto aperto con se stessa per non aver permesso ad una vita che stava nascendo in lei di andare avanti. E ha dovuto abortire.
Prova a guardare il posto che ora occupa quel bambino nel tuo cuore. Ora lui è capace di guardare la vita con uno sguardo molto più ampio del tuo. Lui sa che allora tu sentivi di non farcela ad andare avanti e sicuramente non ti rimprovera per questo. Parlaci. Nel silenzio del tuo cuore. E sentirai che un piccolo-grande Angelo vive accanto a te. E ti dice parole d’Amore. Perché sono parole che lui ora legge nel cuore di Dio che «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Giovanni 3,20).