5 ott 2014
Not in my name
Dall’inizio dell’estate sentiamo ripetere ogni giorno una sigla che è diventata un incubo. ISIS (Islamic State of Iraq and al-Sham: Stato Islamico dell'Iraq e della Grande Siria). Con questo nome si presenta al mondo un gruppo jihadista attivo in Siria e in Iraq che ha proclamato la rinascita del Califfato. Si tratta di un’organizzazione terroristica che pretende di imporre, con le armi e con una violenza che poco o niente hanno di umano, la propria organizzazione e la propria visione del mondo nel nome della purezza e dell’integrità dell’islam.
Niente di nuovo sotto il sole, diremmo, visto che di violenze perpetrate in nome della religione l’umanità ha riempito la storia. Tutte le religioni, in tempi e luoghi diversi, si sono date da fare su questo piano. Riuscendoci anche bene. Purtroppo.
Solo per restare in casa nostra, da Costantino in poi, da quando, cioè, il cristianesimo è diventato ‘religione di stato’ – la cosa peggiore che gli potesse capitare! –, credo sia difficile dimenticare guerre e soprusi fatti con la croce in una mano e la spada nell’altra. Crociate, inquisizione, guerre di religione sono parole che ancora bruciano nella storia di noi cristiani. Dico questo non certo per giustificare il terrorismo dell’Isis, ma per non dimenticare di guardare anche la trave nel nostro occhio ogni volta che vogliamo togliere la pagliuzza nell’occhio dell’altro, come c’insegna il Maestro. Non si tratta certo di pagliuzza se guardiamo i crimini dell’Isis, ma tanto vale tenere gli occhi bene aperti anche in casa nostra.
Detto questo, però, adesso non posso fare a meno di dire Finalmente! Finalmente cominciamo a sentire le voci che aspettavamo da tempo. Sono le voci dei veri credenti. In Dio. Nel Dio creatore del mondo che essi chiamano Allah. Sono le voci dei musulmani che finalmente fanno sentire al mondo che l’islam non è una religione di violenza. Not in my name è la campagna di mobilitazione internazionale lanciata in Inghilterra da parte dei musulmani per gridare al mondo la loro dissociazione dal cosiddetto Stato islamico. Per affermare che «I musulmani condannano in maniera molto ferma questo ‘Stato’ che non ha niente di islamico – si legge nel sito di riferimento. L’islam insegna la pace, il rispetto, l’amore. Non ha nulla a che vedere con i valori di quest’organizzazione che in nome dell’islam porta la morte».
Non è facile per noi entrare nelle pieghe di una cultura che, tanto genericamente, si rifà a un’altra religione. Molteplici sono le voci che pretendono di parlare in nome dell’islam. E spesso discordi. Jihad, sharia sono parole che sentiamo risuonare nella stampa e che hanno acquisito per noi un suono negativo che non avevano nel testo coranico. E l’ultima trovata di quest’organizzazione terroristica è quella di riesumare una parola che nell’islam inizia la sua storia alla morte di Mohamed. Califfo significa successore. Credo sia superfluo chiedersi quanto sia possibile identificare un successore del Profeta in Abū Bakr al-Baghdādī, il criminale che dirige l’autoproclamatosi Stato islamico.
E ora, finalmente, la voce dei credenti negli insegnamenti del Corano si fa sentire con la forza della dissociazione piena da un movimento le cui origini sembrano perdersi in gruppi radicali presenti da tempo in territorio siriano, ora anche in quello iracheno.
L’islam è un pericolo, ci sentiamo ripetere da molte parti. Anche da persone e gruppi esponenti significativi della cultura occidentale. Perfino cristiana. Non è l’islam UN pericolo. Anch’io mi ritrovo nel pensiero condiviso da molti studiosi, sia credenti musulmani sia appartenenti ad altre religioni, che la situazione odierna evidenzia che l’islam è IN pericolo. Il pericolo grande che sta correndo, amplificato dal fenomeno della migrazione verso i paesi europei, è quello di perdere la sua carica di spiritualità e di trasformarsi in un movimento che confonde economia, politica e religione. Come se queste rappresentassero un’unica realtà.
La mente umana tende spesso a rifugiarsi in meccanismi difensivi che la portano a distinguere e separare, fino a escludere, il diverso. L’abbiamo fatto in passato con il colore della pelle. Lo facciamo oggi in nome delle differenze culturali. E, se non siamo sufficientemente svegli, rischiamo di farlo anche in nome della religione. Distinguendo bene noi e loro. Ma, ciò che diventa ancora più pericoloso, andiamo a identificare noi con il bene e loro con il male. Noi i buoni, loro i cattivi.
Di fronte a questo pericolo, allora, anche noi abbiamo bisogno di dire Not in my name. Che potremmo liberamente tradurre io non mi ci ritrovo. Io non sono d’accordo.