VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

7 set 2014

Un figlio? Sì, se viene bene...

E dire che c’eravamo lasciati augurandoci un’estate serena, immersi nel paradiso della natura. Magari qualche momento di respiro siamo riusciti a godercelo, regalato dai nostri fratelli alti che stanno fermi, rigogliosi e arricchiti dalla tanta acqua che ci ha accompagnati. Peccato, però, che ogni volta che aprivamo un giornale o la TV e ci arrivavano notizie dal mondo, il sorriso se ne andava dai nostri volti e il respiro sembrava volersi fermare, tanta era la preoccupazione che ci assaliva. Notizie di guerra; violenze portate avanti in nome di fanatismi chiamati religione; donne e uomini disperati, alla ricerca di una terra dove poter vivere, catturati dal mare, con la complicità di altri uomini che di questi continuano a fare mercato.

Avremmo preferito ascoltare altro, ne sono convinto. Ma non basta. Arrivavano poi notizie di cronaca. Piccole, di fronte alle tragedie di intere popolazioni, ma tali soltanto perché i numeri sono piccoli. Grandi, invece, per i significati, perché toccano il senso della vita.

 

I primi giorni di agosto ci parlano di una coppia australiana che, non potendo avere figli, contratta con una giovane donna thailandese l’affitto del suo utero, dietro compenso in denaro, per farsi crescere un bambino. Come se di bambini bisognosi di trovare una famiglia che li accolga non ce ne fossero già tanti nel mondo, anche nella loro bellissima Australia. Ma tant’è. Questo sembra essere il pensiero che ancora guida la maggior parte di noi quando pensiamo a un figlio: un figlio deve essere nostro (= del nostro stesso sangue!). Se l’ha fatto qualcun altro, non va bene, non è nostro. Ma andiamo con ordine.

Questa coppia fa fecondare con il seme del marito un ovulo (che tra l’altro, ci dicono le cronache, non è neanche della moglie, dato che i suoi ovuli non sono fertili) e lo fa impiantare nell’utero della giovane thailandese. Qui iniziano la loro avventura due gemelli. Quando, al quarto mese di gravidanza, l’ecografia evidenza che uno dei due ha la sindrome di down, la coppia dice alla donna che li ha in pancia di abortire questo bambino e di portare avanti la gravidanza solo dell’altro. Quello sano. Lei non accetta. E tiene entrambi i gemelli. Alla nascita la coppia prende con sé la bambina sana e non vuole saperne di Gammy, il bambino down. Per farla breve, la coppia che aveva ordinato la merce rifiuta il pezzo difettato. Così questo bambino rimane con la mamma che l’ha fatto crescere nella sua pancia.

 

Venti giorni dopo ci piomba addosso un’altra notizia. Una signora scrive su Twitter ad un biologo e divulgatore scientifico britannico, R. Dawkins: «Non so cosa farei se sapessi di portare in grembo un bimbo down». E lo scienziato, pieno del suo sapere, risponde: «Abort it and try again. It would be immoral to bring it into the world if you have the choice. Abortisci e riprova. Sarebbe immorale metterlo al mondo se puoi scegliere». Nonostante queste parole si commentino da sole, rimane difficile non restare di sasso di fronte a tanto cinismo. I giornali dicono che questo signore si occuperebbe di diritti civili. Mi chiedo: diritti civili di chi?

 

Per fortuna, però, non siamo ancora tutti addormentati. E tante reazioni, umane questa volta, abbiamo sentito intorno a questi fatti. In aiuto alla mamma di Gammy, che non ha i mezzi per assicurare a questo figlio le cure di cui ha bisogno, si è attivato tutto un movimento a livello mondiale per raccogliere i fondi necessari. Hope for Gammy sta facendo questo prezioso servizio.

Anche al professore britannico sono arrivate tante reazioni. Al punto che si è subito precipitato a dire che sarebbe stato... frainteso.

 

Anche noi, credo, ci scandalizziamo di fronte alla coppia australiana che non vuole il figlio venuto male. E deprechiamo affermazioni così ciniche come quelle dello scienziato britannico. Ma vorrei che provassimo ad aprire davvero il nostro cuore e leggervi, in segreto, le parole e i pensieri che lo abitano.

Vi chiedete il perché di questo mio invito?

Vi rispondo con due esempi. Il primo. Quando una donna rimane incinta dopo i trenta-trentacinque anni, di routine si sente chiedere dal suo medico se vuol fare l’amniocentesi. È un esame questo che permette di sapere se il bambino che sta crescendo in lei ha o non ha gravi difetti genetici (la sindrome di down è uno di questi). Perché questo esame? Non è per il fatto che il pensiero dell’aborto di fronte a un bambino diverso non è poi così raro e lontano?

Il secondo. Quando la crisi economica ci costringe a tagliare da qualche parte, i servizi per i disabili non sono tra i primi a subire tagli? Pensate alla continua riduzione di personale specializzato nelle scuole, nei servizi domiciliari, tra gli operatori dei consultori pubblici.

Siamo davvero così civili come pensiamo di essere?

Il coraggio della verità è il primo passo per cambiare.