29 mar 2015
Tenere aperta la domanda sul senso della vita
In cammino verso la Pasqua (1)
«Tutti gli uomini hanno sulle spalle un giogo pesante, da quando escono dal grembo materno al giorno del ritorno alla terra, che è madre di tutti. La loro preoccupazione e l’angoscia interiore sta nel pensare al futuro, al giorno della morte». Così scriveva Gesù, figlio di Sira (Siracide 40,1-2), maestro di saggezza a Gerusalemme, duemila200 anni fa.
Il ritorno alla terra, che è madre di tutti, è la strada sulla quale stiamo camminando. Chi più avanti, chi un po’ più indietro. Ma è su questa strada che si svolge la vita di ogni vivente. Famosi o sconosciuti, poveri o ricchi, vecchi o giovani, donne o uomini, felicemente o infelicemente sposati o separati, credenti o non credenti, ignoranti o colti, stolti o saggi... è questa la strada che segna la nostra vita.
Immersi come siamo nella vita e affamati di essa, il pensiero della morte diventa fonte di sofferenza e di angoscia. E neppure l’essere credenti ci esonera dal moto di ribellione di fronte ad essa. Paolo di Tarso, nella lettera ai cristiani di Corinto parla della morte come del nemico, l’ultimo nemico. Che sarà annientato. Ma nemico rimane (cfr. 1 Corinti 15,26). E spingendoci oltre, troviamo che perfino Gesù di Nazareth, che anche i non credenti riconoscono come il più grande maestro di saggezza e di sapienza, di fronte alla morte incontra parole di turbamento: “Ora la mia anima è turbata”, dice (Giovanni 12,27). E Marco, sobrio nella scrittura, ma profondamente attento ai sentimenti del suo maestro, di fronte alla morte che sente avvicinarsi lo descrive preso da terrore e spavento (cfr. Marco 14,33).
Sentimenti umani. Profondamente umani. Sentimenti da cui non ci libera neanche la fede. Sia pure intesa nel suo significato profondo di fiducia e di affidamento alla Vita, e a Colui/Colei che ne è la fonte, Padre-e-Madre di tutti i viventi.
Qualche settimana fa ci dicevamo che quella distinzione che ancora spesso facciamo tra credenti e non credenti, andrebbe superata e guardata con un’attenzione maggiore, fino a sostituirla con l’altra: tra chi pensa e chi non pensa. Nel senso di provare a chiederci se sappiamo tenere aperta la domanda sul senso della vita (= chi pensa) o se, invece, da questa domanda rifuggiamo (= chi non pensa), catturati e imprigionati dalla paura e dalla superficialità.
La fatica di vivere e l’angoscia di fronte a questa fase della vita che chiamiamo morte, è esperienza di tutti. Sono entrambe compagne di strada. E quanto più siamo avanti negli anni, tanto più esse si fanno sentire vicine. Né serve rifiutare di riconoscerle. Non volerle accanto. Sarebbe come nascondere la testa sotto la sabbia. La psicoanalisi dà un nome a quest’atteggiamento: negazione. Un meccanismo di difesa che ci porta a negare l’evidente quando questo è troppo pesante e faticoso da reggere. Ma sappiamo bene che non è negandone la presenza che esse se ne vanno.
È molto interessante vedere i tentativi che, come umani, abbiamo fatto nelle diverse culture per provare a darci una qualche ragione e giustificare la loro compagnia. Nei miti esse sono sempre una sorte di punizione da parte di esseri superiori – Dèi o Dio, a seconda delle religioni – a una qualche colpa di cui gli uomini si sono resi responsabili.
Perfino nel mito biblico delle origini, la fatica e il dolore, in compagnia della morte, sono dati dal Creatore all’essere umano che non ha saputo rispettare le sue regole. Quel racconto straordinario e affascinante, che ci accompagna da oltre tremila anni, offre una giustificazione a ciò che la mente e il cuore si rifiutano di accettare: i nostri progenitori hanno disobbedito alle direttive del Creatore, quindi sono stati puniti con la fatica, il dolore e la morte.
Il ragionamento non fa una piega. Solo che né Adamo né Eva sono mai esistiti, né il Dio Creatore è un piccolo e umano magistrato che in nome di un’altrettanto umana e piccola giustizia assegna premi e punizioni a chi rispetta o infrange certe regole. Gesù di Nazareth, che secondo i Vangeli è il solo a conoscere Dio (cfr. Giovanni 1,18) quindi il solo a potercene parlare veramente, inorridirebbe di fronte a un’immagine così povera e meschina del Padre-e-Madre della Vita e dell’Amore.
Che senso hanno allora il dolore e la morte, la fatica e la sofferenza, compagni quotidiani del nostro cammino? A me piace pensare che la strada che l’intero universo, umanità compresa, sta percorrendo nel suo processo evolutivo va verso la pienezza della Vita. Pienezza che oggi non siamo ancora in grado di cogliere e di realizzare. Quindi dolore, fatica, la stessa morte sono compagni di strada come compagna di strada è la fatica che faccio quando voglio raggiungere la cima di una montagna. In cima è la Pasqua: la Vita oltre la morte.
(1. continua)