8 nov 2015
Novembre, un tempo propizio per riflettere
La vita, quale progetto?
“Anime caduche, eccovi giunte all’inizio di un altro ciclo di vita di genere mortale, in quanto si conclude con la morte. Ciascuno sceglierà la vita alla quale poi sarà tenuto di necessità. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie” (La Repubblica X, 617). Così scrive Platone, duemila400 anni fa, raccontando ciò che Er vede ed è incaricato dagli dèi di riferire agli umani su quanto avviene prima della nascita e dopo la morte: ciascuno, prima di nascere, sceglie un progetto che poi, nel tempo della vita tra la nascita e la morte, è tenuto a realizzare.
In tempi forse di poco più recenti, un anonimo, riflettendo anch’egli sulla vita, così parlava con il suo Dio: “Sei tu che hai plasmato il mio profondo, mi hai tessuto nel grembo di mia madre. Riconosco di essere un prodigio, ti ringrazio per come mi hai fatto. Quando ero plasmato nel segreto, ricamato nel profondo della terra, le mie ossa non ti erano nascoste, i tuoi occhi vedevano il mio embrione. Tutti i miei giorni erano scritti sul libro, già contati e non ce n’era nemmeno uno” (Salmi 139, 13-16).
Che la vita presente sia una scelta personale e autonoma o che essa esprima il disegno di Dio, l’uno e l’altro pensiero ci mettono davanti a un’idea condivisa: ognuno di noi, nel tempo che la vita stessa ci concede, si ritrova con un progetto da realizzare.
Progetto. È bella questa parola. Ricca di senso.
Se vogliamo costruire una casa, facciamo un progetto. Per fare un ponte o una strada, bisogna avere un progetto. Se pensiamo a un viaggio, ci mettiamo a progettarlo. Quando incontriamo quella persona che fa risuonare il nostro cuore, con lei partiamo con un progetto condiviso. Così, credo, è per la vita nella sua interezza.
Mi piace pensare che sto realizzando un progetto. Giorno dopo giorno. In una costruzione continua. Il lavoro che faccio, le persone che incontro, la famiglia in cui sono nato e quella che ho messo in piedi, o metterò in piedi. Gli amici e i meno amici, i colleghi o i superiori, i collaboratori e quelli che mi mettono i bastoni fra le ruote. I bambini, i vecchi e i coetanei. Tutto e tutti mi piace pensarli come segni che mi indicano la strada, che mi aiutano a vederla e coglierne le dritte. Per dare concretezza al progetto con cui sono venuto al mondo e che la vita si aspetta che io realizzi.
Tra il pensiero di Platone e le parole dell’anonimo interlocutore del suo Dio, mi sento più vicino al secondo. Pur con una differenza. Non che non mi piaccia sentirmi pensato da un Dio che ha plasmato il mio profondo e mi ha tessuto nel grembo di mia madre, ma amo di più pensare che non ha fatto tutto da solo e che ha chiesto anche a me di partecipare alla stesura di quel disegno che mi ha portato a nascere. A nascere oggi. In questo paese. In quella famiglia dove mia madre e mio padre mi hanno pensato e desiderato. Mi piace pensare che anch’io sono stato e sono attivo nella progettazione della mia vita e nella realizzazione di quel progetto che giorno dopo giorno sto scoprendo e, non senza fatica, cercando di concretizzare.
Credo sia esperienza di tutti che molte volte non è così semplice vederlo. Né è così facile leggerlo e tradurlo nel quotidiano. Un po’ come quando davanti a una pagina di Mozart o di Chopin, che gli occhi le mani cercano di raccontare al pianoforte, delle dita vanno al posto giusto, ma ce n’è sempre uno – o anche di più! – che prima o poi si posa sul tasto sbagliato. Così, credo, si svolga per ognuno di noi questo tempo di vita. Scelte giuste e gaffe. Che si tengono per mano. Percorsi lineari e chiari, accanto a momenti di confusione e di disorientamento.
Ma se ho partecipato anch’io alla stesura del mio progetto, perché poi rischio di perdermi? Gli antichi greci avevano sistemato la cosa: l’anima, una volta scelto il progetto di vita, per venire al mondo attraversava il fiume Lete (lèthe in greco significa oblìo) e beveva alle sue acque: così dimenticava il progetto, che pure aveva scelto. E nella vita aveva il compito di ritrovarlo, piano piano. Con l’aiuto – pensate alla profondità di questo pensiero – di uno spirito (dàimon) che diventava il compagno di cammino. Un po’ come l’angelo custode nella nostra tradizione.
Direte: ma chi ti dà la certezza che le cose stanno come dici tu? Nessuno, vi rispondo. Non c’è prova scientifica, né ragionamento logico che mi ‘costringe’ a questa verità (= visione della vita). Ma a me piace coltivarla. Mi dà forza. E conforto. Soprattutto quando la strada è più dura e i passi più difficili da sostenere. Allora mi dico: se questo pensiero per te è buono e ti fa bene, e non arreca danno a nessuno, perché non coltivarlo? Perché non lasciarti illuminare il cammino da esso e non custodirlo come una buona guida per i tuoi giorni e i tuoi anni?