10 mag 2015
Una lettera a proposito dell’articolo ‘Dio è morto?’
Se Dio muore, è per tre giorni...
Lei parlava di un Dio ‘morto’. Qualcuno in passato l’ha cantato, qualcun altro l’ha cercato invano. A me sembra che Dio sia posizionato in un punto di equilibrio preciso, né troppo nascosto né troppo accecante: è quell’equilibrio tra cielo e terra, tra padre e madre, tra maschile e femminile. Il resto mi sembra solo un grosso ricatto che non capisco dove ci stia portando. Vorrei essere accettata da quel Dio, da me. Nessuno deve appropriarsi della nostra anima...
Cristina
Con queste poche righe Cristina entra nel centro della questione – se la parola questione non suona troppo limitante. Perché credo che davvero con la parola Dio rischiamo di dire troppe cose e in essa collochiamo un’infinità di pensieri. E di proiezioni.
Ricordo anch’io quando i Nomadi cantavano, con testo e musica di Guccini, Dio è morto. Erano gli anni dei miei studi universitari, e tra teologia, filosofia e psicologia i pensieri di un giovane ventenne si muovevano in una ricerca continua. Pieni di speranza e di progetti. Magari anche con l’illusione di arrivare a un punto fermo sul quale riposare, quasi una verità raggiunta e consolidata. C’era allora, lo ricordo bene, il sospetto che la ricerca avrebbe accompagnato sempre i miei giorni, una ricerca arricchita da incontri, letture, riflessioni, dubbi, domande. Il sospetto di allora è diventato certezza oggi, a tanti anni di distanza. La ricerca continua. Giorno dopo giorno. E so che continuerà per tutti i giorni che mi vedranno in questa dimensione della vita.
Dopo? Dopo non so. Una tradizione ebraica dice che nel giardino di Dio (giardino in greco è paràdeisos) porremo a Lui tutte le nostre domande e Lui – finalmente! – ci darà le risposte che attendiamo...
Cristina dice che Dio lo vede «posizionato in un punto di equilibrio, né troppo nascosto né troppo accecante». E prova anche a descriverlo: «tra cielo e terra, tra padre e madre, tra maschile e femminile».
Non è facile trovare punti di equilibrio nel nostro quotidiano.
Spesso ci vediamo oscillare tra estremi. Che diventano facilmente estremismi. Tipici del pensiero infantile, perché sono i bambini a vivere nel tutto-o-niente. Guardate un bambino: se piange, lo fa con tutte le sue forze, il suo pianto è totale, disperato; se è felice, irradia luce e felicità da ogni cellula del suo corpo. È un pensiero che tutti abbiamo vissuto, ed è un pensiero che sta sempre lì, pronto a emergere nelle situazioni che ci vedono più in difficoltà.
Nascono qui quegli atteggiamenti assolutizzanti. Nella vita sociale e in quella personale. Dalla politica alle relazioni affettive. E lo portiamo, questo modo di pensare e di guardare le cose, perfino nella religione. Integralismi. Assolutismi. Solo noi possediamo la verità, tutti gli altri sono nell’errore!
Anche la storia del cristianesimo ha vissuto tempi e modelli d’integralismo. La convinzione extra ecclesiam nulla salus (= non c’è salvezza al di fuori della chiesa [cattolica]) è sopravvissuta per diciotto secoli e ha dovuto aspettare il Concilio di cinquant’anni fa per vedersi, finalmente, ridimensionata. Movimenti islamisti che pretendono di imporre una religione perfino con la guerra e con il terrorismo sono cose dei nostri giorni. E tanto altro...
Vedere Dio in un punto di equilibrio credo sia una conquista verso la quale l’umanità, con le sue religioni, ha bisogno di camminare. «Né troppo nascosto né troppo accecante» scrive Cristina. Credo sia proprio questa la grandezza di Dio: se da una parte non se ne sta rintanato in qualche misterioso cielo protetto da dogmi o verità incomprensibili, dall’altra non ha bisogno di sedurci o d’impressionarci con effetti speciali. Speciale è già la vita in sé. Speciali siamo noi che di questa vita siamo parte. Speciale è l’universo che, se proviamo ad ascoltarlo, ci racconta della grandezza e della cura del suo Creatore.
Il Maestro di Nazareth poi ha oltrepassato ogni aspettativa: quella cura l’ha chiamata amore. E nel tentativo di rendere a noi comprensibile l’immagine di Dio ce ne ha parlato con una sola parola: PADRE. Non padre contrapposto o complementare a madre, com’è nel limite della nostra esperienza terrena. Ma padre nella pienezza di padre-e-madre. Di maschile-e-femminile. Al punto che se ci fermiamo a leggere nel nostro cuore, troviamo che perfino la parola Dio ha bisogno di essere coniugata e arricchita. Dio-e-Dea forse dovremmo dire. Proprio per non essere schiavi di un linguaggio che ha il limite, inevitabile, di riflettere la nostra esperienza. Che è differenza di genere.
I Nomadi terminavano con una parola di speranza: «Se Dio muore, è per tre giorni. Poi risorge». Molte volte la fatica che accompagna la vita ci vede prigionieri di questi tre giorni di morte. Ma non possiamo dimenticare che sono tre giorni di... passaggio! Poi c’è la Vita.