4 set 2016
A proposito di Unità Pastorali. Un ulteriore contributo
Il coraggio del cambiamento (Articolo fuori rubrica)
N.B.
Questo scritto non rientra nella rubrica La mente e l'anima. Esso contiene delle riflessioni pubblicate sul settimanale Voce della Vallesina come contributo al confronto su un tema particolare che riguarda aspetti organizzativi, e non solo, della vita della Chiesa.
Quando, a giugno, D. Mariano ha proposto di utilizzare anche il nostro settimanale per riflettere sulle Unità Pastorali (UP), ho pensato: Però, ha coraggio ad aprire un incontro, sia pure a distanza e sulle pagine di un giornale, su un tema così particolare. Poi, dopo un po’, mi sono detto: Ma a cosa servirà? Non siamo abituati a parlarci, noi. Meno ancora siamo abituati a farlo seguendo le indicazioni di Francesco: parlare con parresìa e ascoltare con umiltà.
“Nessuno dica: ‘Questo non si può dire; penserà di me così o così...’. Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresìa. Dopo l’ultimo Concistoro, nel quale si è parlato della famiglia, un Cardinale mi ha scritto dicendo: peccato che alcuni Cardinali non hanno avuto il coraggio di dire alcune cose per rispetto del Papa, ritenendo forse che il Papa pensasse qualcosa di diverso. Questo non va bene, questo non è sinodalità, perché bisogna dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza rispetto umano, senza pavidità. E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità”.[1]
Parlare con parresìa significa dire tutto ciò che si sente di dover dire. Con rispetto e con educazione, sempre. Ma dire tutto (parresìa: dal greco pan, tutto e rêma, parola). Ascoltare con umiltà significa avere la forza e il coraggio di ascoltare anche pensieri che non ci trovano d’accordo. Nel convincimento che nessuno di noi possiede tutta la verità. Non solo, ma che ciascuno di noi ha sicuramente un suo punto di vista, e avere la forza di esprimerlo significa arricchire l’incontro e non privare gli altri del proprio contributo. Solo così, secondo Francesco, si vive nella sinodalità. Cioè si cammina insieme (dal greco syn, insieme e odòs, cammino).
Scrive Qoelet: «Chi scava una fossa vi può cadere dentro e chi abbatte un muro può essere morso da una serpe. Chi spacca pietre può farsi male e chi taglia legna può correre pericoli».[2] Se ti metti a lavorare davvero, cioè, rischi anche di farti male. Ma «Per negligenza il soffitto crolla e per l'inerzia delle mani piove in casa».[3] Perché la casa sia in buone condizioni, ciascuno deve fare la propria parte di lavoro. Portare il proprio contributo.
Queste parole mi incoraggiano ad entrare, oggi, in questo confronto. Da una posizione non facile: un prete che ha speso, e spende, la sua vita facendo un lavoro laico. Con il rischio di farmi sentire fuori casa sia con gli uni sia con gli altri.
Ciò premesso, parto da un interrogativo: abbiamo aperto il tema delle UP pensandole come una ri-organizzazione interna delle attuali parrocchie, o nella prospettiva di individuare una strada nuova per portare il Vangelo al mondo di oggi (sia pure al piccolo mondo della nostra diocesi)?
Il mio timore è che ci siamo arrivati perché costretti da un fatto contingente: i preti sono sempre di meno, e sempre più anziani. In fondo le UP non verrebbero a configurarsi come delle super-parrocchie, nel senso di parrocchie territorialmente più ampie? Del resto sappiamo tutti che la parrocchia di una grande città – solo per restare in Italia – ha una popolazione media come l’intera città di Jesi.
Nella prospettiva che non si tratti solo di pervenire ad una pura riorganizzazione interna del personale, provo a condividere con voi alcune domande.
1° domanda
Che cosa impedisce di attivare concretamente queste UP? In fondo, se guardiamo bene, il senso di ‘appartenenza’ ad una parrocchia (S. Sebastiano o S. Francesco, S. Giuseppe o S. Massimiliano Kolbe...) è poi così forte? Sì, lo è per il parroco. Ma per chi altri? Per quei quattro collaboratori che gli girano intorno. Ma la maggior parte dei cattolici (?) scopre la propria parrocchia quando ha bisogno di un certificato o per un funerale: quasi fosse uno dei tanti uffici cui bisogna accedere in una società dalla onnipresente burocrazia.
Non è facile per noi preti, educati come siamo ad una vita di autonomia e di solitudine un po’ autoreferenziale, doverci ripensare in una situazione di con-vivenza. Di collaborazione. In una relazione alla pari. O addirittura in un rapporto di subordinazione gli uni con gli altri.
2° domanda
Perché la responsabilità di una parrocchia deve essere affidata esclusivamente ad un prete e non anche ad un laico? O, almeno, perché non può essere condivisa? Proprio del prete, che gli deriva dal Sacramento dell’Ordine, è presiedere all’Eucarestia (la Messa) e amministrare i Sacramenti. Di lui ne abbiamo bisogno come guida spirituale e maestro di preghiera. Ma quante incombenze piovono sulle spalle di un parroco: cura degli edifici, lavori di ristrutturazione, registri, assicurazioni, gestione economica, burocrazie, ecc. Compiti amministrativi per i quali 1) non ha alcuna preparazione specifica, e che 2) lo sottraggono dalle funzioni che gli sono proprie.
3° domanda
Cosa impedisce di muoverci verso un’apertura, di mente e di cuore, che restituisca ai laici (uomini e donne) la loro funzione piena di membri del Popolo di Dio e di partecipi del Sacerdozio universale del Cristo? I nostri laici impegnati non rischiano spesso di essere ridotti a meri esecutori di direttive (ordini? decisioni?) del parroco-dirigente?
Questo tipo di relazione dipende dal parroco o dall’atteggiamento di subordinazione dei laici? A mio parere entrambe queste posizioni (dirigente/esecutori) si alimentano a vicenda. E gli uni e gli altri ne condividono la responsabilità.
4° domanda
Cinquant’anni fa i Vescovi di tutto il mondo, a conclusione del Concilio, hanno scritto: «Viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. È per questo che, in un momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne, illuminate dallo spirito evangelico, possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere».[4]
Dov’è il posto della donna, oggi, nella nostra chiesa? Giusto nel leggere qualche volta durante la messa o nel fare un po’ di catechismo ai bambini. La vera domanda, allora: dov’è la donna nella guida della chiesa? Dov’è, nella chiesa, l’influenza, l’irradiamento, il potere di cui parlavano, già cinquant’anni fa, i Vescovi di tutto il mondo? Che cosa le manca perché possa una donna guidare una comunità? Le chiese cristiane riformate lo fanno da tempo. Perfino gli ebrei, le cui tradizioni hanno radici ancora più antiche delle nostre, oggi hanno donne rabbino.
Un sociologo direbbe che la chiesa cattolica è il prototipo di una società maschilista: governata da soli uomini. Che, per di più, sono uomini soli (= celibi).
Pensieri fuori tempo? Beh, mi ritengo in buona compagnia se i Vescovi di tutto il mondo già cinquant’anni fa portavano tanta apertura.
Due fatti, a conforto di questi pensieri.
Il primo. Il mese scorso Francesco ha dato il via al gruppo di studio sul diaconato femminile. Molto coraggioso. Se pensiamo che la CEI (= i Vescovi italiani) ha perfino tolto (= censurato?) la parola diaconessa nella nuova traduzione della Bibbia, nella Lettera ai Romani: «Vi raccomando poi Febe, nostra sorella, che è anche diaconessa (diàkonon) della chiesa di Cencre...» scrive Paolo. La nuova traduzione: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della chiesa di Cencre...».[5] Tema complesso questo dell’accesso al sacramento dell’Ordine da parte della donna, ma almeno è... ri-aperto!
Il secondo. Se il Card. Parolin ha affermato che “in teoria una donna potrebbe ricoprire l’ufficio di Segretario di Stato, che non è legato ai sacramenti e al sacerdozio”,[6] non si vede perché nel nostro piccolo non possiamo pensare ad assunzioni di responsabilità di governo da parte di una donna nei confronti di una comunità locale.
Un pensiero per concludere.
Gli studiosi di comunicazione e di organizzazione dei sistemi parlano di due tipi di cambiamento. Li chiamano cambiamento1 e cambiamento2 (si legge: cambiamento-uno, cambiamento-due). Dov’è la differenza? Nel cambiamento1 si cambia qualcosa, ma restando dentro il sistema, magari cambiando di posto qualche pedina. Nel cambiamento2 si introducono elementi nuovi, di vero cambiamento.
Nel nostro caso, un cambiamento1 sarebbe una ridistribuzione dei preti all’interno di parrocchie con confini più ampi degli attuali e con una programmazione condivisa. Sarebbe già qualcosa. Ma il sistema chiesa-istituzione rimane quello di prima, al suo interno e nel suo rapporto con il mondo. Con il resto della società. È un cambiamento fatto-in-casa. Tutto interno. Con il rischio di continuare con il prete-dirigente e i laici-esecutori. Direbbero i francesi: Plus ça change, plus c’est la même chose.
Un cambiamento2, un vero cambiamento, sarebbe l’ingresso di laici, donne e uomini, nella guida di qualche comunità. Con compiti di responsabilità. Di ‘governo’. Ferma restando la funzione propria del prete che, in forza del sacramento dell’Ordine sacro, presiede l’Eucarestia e la celebrazione dei sacramenti.
Scrive ancora Qoelet: «C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire».[7] A volte per costruire si rende necessario avere il coraggio di demolire ciò che non svolge più quelle funzioni e quei servizi per cui era stato precedentemente costruito.
Jesi, 4 settembre 2016
[1] Saluto di Francesco all’apertura del Sinodo sulla Famiglia, 6 ott 2014
[2] Qoelet 10,8
[3] Qoelet 10,18
[4] Messaggio finale del Concilio, 8 dic 1965
[5] Lettera ai Romani 16,1
[6] Presentazione di ‘Donne Chiesa Mondo’, 3 mag 2016
[7] Qoelet 3, 3