11 dic 2016
Per costruire una società più umana
La notte e il giorno
Un maestro chiese ai suoi discepoli: “Come riconoscere il momento in cui la notte finisce e il giorno si leva?”. “Quando si può distinguere un cane da un lupo” rispose un allievo; “Non è questa la risposta” disse il maestro. “Quando si riesce a distinguere un fico da un olivo” disse un altro; “Neanche questa è la risposta” disse il maestro. “Allora come?” chiesero i discepoli. “Quando, vedendo uno sconosciuto, vediamo in lui un fratello. Allora il giorno si leva e la notte finisce”.
È una storia antica. Doppiamente antica. Antiche le sue origini: nasce nella tradizione buddista. E antica è la storia che essa racconta.
Nel mito biblico delle origini, non solo nello sconosciuto l’uomo non sa vedere il fratello, ma è addirittura il rovescio: nel fratello vede un estraneo. Anzi, peggio, un nemico. Da annientare. Da uccidere. I due primi fratelli, Caino e Abele, legati dallo stesso sangue, sono separati dal sangue versato. Abele ucciso dal fratello. La prima famiglia umana ospita il primo omicidio.
Certo, è un mito. E i miti non raccontano una verità storica. Ma la verità che essi raccontano è molto più forte di quella che con le nostre categorie noi definiamo ‘reale’. È una verità che nasce dall’osservazione dell’uomo su se stesso. Dalla riflessione che l’umanità, nelle diverse culture, fa guardandosi nello specchio della storia.
In certi momenti sembriamo ritrovarci immersi in un mondo di sconosciuti. Ma chi è oggi lo sconosciuto? Il vicino di casa. L’uomo, la donna della porta accanto. Sì e non che ci salutiamo, a volte. Quando poi il saluto non ce lo togliamo volutamente, convinti di aver subìto un torto, un’offesa. Perché ci riteniamo colpiti nella dignità. Nell’onore. Mi ha mancato di rispetto, diciamo. Anche semplicemente perché incontrandoci non ha risposto al nostro saluto: magari non ci aveva neppure visti.
Ma lo sconosciuto in cui non sappiamo vedere un fratello è una moltitudine. Un popolo.
Il disabile cui rubo il parcheggio a lui riservato o al quale impedisco di muoversi con sufficiente libertà con la mia macchina che occupa mezzo marciapiede. Il bambino che a scuola deve passare più tempo fuori dall’aula ‘perché disturba’, piuttosto che vedersi aiutato e sostenuto nella sua fatica di integrarsi in un mondo di diversi – perché dal suo punto di vista i diversi siamo noi. La bambina che non può andare in palestra o in piscina con le sue amichette perché non c’è l’istruttore ‘qualificato’. Il trentenne che, avendo oltrepassato l’età scolare e non trovando chi gli offre un ambiente di lavoro adeguato, si vede relegato in casa. Costretto a contare soltanto sui suoi... finché ci sono.
L’immigrato, costretto a scappare dal suo paese. Per le guerre che noi alimentiamo con il commercio delle nostre armi e con il sostegno che diamo, più o meno apertamente, a certi poteri politici ed economici. O per la fame, nata con le nostre antiche (e nuove) invasioni coloniali, alimentata dalle multinazionali che continuano a sfruttare le loro terre, distruggendone l’agricoltura e l’economia originarie.
Il debole, nel fisico o nella mente. Colui che non sa farsi furbo in una società che respira imbroglio e arrivismo.
La vittima del bullo. A scuola o nel gruppo dei cosiddetti amici. In un ambiente dove il prepotente diventa facilmente modello. O ombrello sotto cui rifugiarsi: condividere una vittima ci fa sentire appartenenti a una ‘classe’ superiore.
Chi vota sì se io voto no, o chi scrive no per me che dico sì.
Chi ha un orientamento affettivo-sessuale diverso da me che sono della maggioranza. E che, invece di camminare con il capo chino e lo sguardo in terra, consapevole di essere un deviante, ‘pretende’ di vedersi riconosciuti i suoi diritti – che poi sono gli stessi che io pretendo per me.
Chi ha una religione diversa dalla mia. Perché la mia è quella giusta. L’unica vera. O perfino chi, pur ritrovandosi nella mia stessa religione, osa pensarla diversamente da me: o perché avanguardista o perché retrogrado e conservatore. Comunque diverso.
Vedere nello sconosciuto un fratello era il sogno del Maestro di Nazareth. Lui addirittura aveva puntato tutto su come ci rapportiamo con i più deboli e con gli emarginati del mondo. “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare... ero forestiero e mi avete accolto...”, oppure “Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare...”. “Ogni volta che avete fatto questo a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” diceva ai suoi.[1]
Non so cosa ne pensate voi. A me sembra che la notte è ancora piuttosto fonda. Ogni tanto sprazzi d’aurora s’intravvedono. Ma con quanta fatica il sole prova ad uscire. Chi sa che il Natale, che si sta avvicinando, non l’aiuti...
[1] Cfr. Matteo 25, 31-46