5 giu 2016
Per guardare con occhi di speranza
È bella la terra...
E c’era gioia e riso nella sua voce quando disse: “Andiamo verso la provincia di settentrione, incontro alla primavera. Venite con me sui monti, l’inverno è trascorso e le nevi del Libano scendono a valle cantando nei fiumi. Campi e vigne hanno bandito il sonno, si sono svegliate per salutare il sole con i fichi verdi e i grappoli teneri”.
S’incamminò davanti a noi. E noi lo seguimmo, quel giorno e il seguente. E il pomeriggio del terzo giorno giungemmo sulla cima del monte Hermon: là si fermò, e abbracciava con lo sguardo le città delle valli che si aprivano sotto di noi.
E brillava il suo volto come oro fuso.
Tese le braccia e disse: “Guardate la terra nella sua veste verde, e i corsi d’acqua che hanno tessuto argento nell’orlo del suo manto. In verità è bella la terra, ed è bello tutto ciò che cresce sulla terra”.
Così Gibran, il poeta libanese del secolo scorso, ascolta Giacomo di Zebedeo, uno dei discepoli di Gesù.
Parole difficili per noi? Belle, certo. Mi chiedo oggi se non siano troppo lontane dal nostro sguardo, catturato com’è dai mille problemi che ci angustiano e c’impediscono di... andare incontro alla primavera. E di guardare con occhi di speranza la terra.
Notizie tristi ci assalgono. Il mare nostrum, così lo chiamavano i romani al tempo di Gesù di Nazareth, si vede costretto ad accogliere fra le sue braccia vite umane, comprate da altri umani che hanno ridotto la vita a merce di scambio. E noi, chiusi nelle nostre stanze ben arredate, ci scopriamo incapaci di gridare al mondo che esso non ci appartiene. Perché siamo noi ad appartenergli.
Non è nostro il mondo. Non è nostra la terra. Noi siamo figli della terra. Ed essa è bella, ed è bello tutto ciò che cresce sulla terra.
Cos’è, allora, che ci ha tolto la capacità di guardare la terra nella sua veste verde, e i corsi d’acqua che hanno tessuto argento nell’orlo del suo manto? Cosa ci ha resi sordi al grido di tanti figli della terra, come noi, che chiedono solo di essere accolti da questa grande madre comune, in un luogo diverso da quello in cui hanno iniziato i giorni del loro viaggio nella vita?
Com’è successo che abbiamo invertito l’ordine delle cose? Noi, ospiti della terra, ci comportiamo da padroni. Accolti da essa, che si premura di nutrire i nostri polmoni e le nostre viscere, gridiamo e facciamo capricci. Come quei bambini che, non visti né ascoltati dagli adulti, si aggrappano agli oggetti con cui tentiamo di sedurli, gelosi se un amichetto osa chiedere di poterli condividere. Per giocarci un po’. Insieme. Ma loro sono bambini. E stanno imparando, purtroppo, che devono aggrapparsi ai tanti oggetti con cui riempiamo le loro stanze. Sembra che non sappiamo dare altro: siamo ‘grandi’ noi, e abbiamo cose più importanti da fare.
Così, oltre alla terra, diventiamo incapaci di guardare perfino i nostri figli. Quelli che noi abbiamo chiamato alla vita. Su questa stessa terra.
“Venite con me sui monti, l’inverno è trascorso...” diceva il maestro. E s’incamminò davanti a noi. E noi lo seguimmo, quel giorno e il seguente, racconta Giacomo.
Mi chiedo: l’avremmo seguìto noi, occupati dalle mille cose e pieni dei tanti oggetti diventati necessari, indispensabili? “Aspetta che prendo lo smart!” questo almeno gliel’avremmo detto. Lui non lo sapeva, ma noi uomini del duemila non possiamo mica partire senza telefonino. Pardon, senza smartphone. Poi il Bancomat. Se no come facciamo a fare shopping?
Ma forse ho corso troppo. Allora un passo indietro.
“Venite con me sui monti, l’inverno è trascorso...” diceva. Sì, ma come lo diceva? Su FaceBook o su Twitter. O almeno su WhatsApp. Se no come potevamo sapere del suo invito? Noi siamo connessi. Siamo nell’era digitale, mica più nell’età dell’incontro tra umani che si vedevano e si parlavano. Mano nella mano. Occhi sugli occhi.
Noi, padroni della terra – così abbiamo la presunzione di vederci –, non ci accorgiamo che stiamo diventando servi di quegli strumenti che noi stessi abbiamo costruito: non possiamo allontanarci, salvo la distanza che essi decidono per noi. E non è detto che su quei monti, sui quali lui c’invita a salire per guardare la terra, noi possiamo andarci davvero: ci sarà campo? Finché c’è campo c’è libertà movimento. Non oltre.
Grande quel Maestro. E grandi quegli uomini che sapevano rischiare nel seguirlo. Convinti che la terra è fatta per viverla. Per abitarla. Per condividerla. Convinti che una parola scambiata guardandosi negli occhi o tenendosi per mano vale molto più di mille altre che fluttuano e si perdono, ingolfandolo, nel virtuale.
Guardate la terra nella sua veste verde, e i corsi d’acqua che hanno tessuto argento nell’orlo del suo manto. In verità è bella la terra, ed è bello tutto ciò che cresce sulla terra.
Parole preziose. Che aiutano a vivere. A coltivare la speranza.