16 lug 2017
In dialogo con la vita e con la morte
Charlie. Perché?
Accanimento terapeutico? Accanimento genitoriale? Accanimento giudiziario? Quanta fatica, povero Charlie. Hai solo dieci mesi. E hai sollevato il mondo. Senti? Tutti parliamo di te. Stai facendo una cosa enorme: ci hai scossi dal nostro torpore e da tanta nostra insensibilità.
Sai cos’ho pensato? Potresti essere Aylan ritornato tra noi.[1] O un suo fratello, venuto al mondo per un nuovo richiamo. Aylan lo ricordiamo. Meglio, non lo ricordiamo. Perché ci è tanto facile fermare una sveglia che suona e rimetterci a dormire. Rinchiuderci nelle nostre sicurezze. E dopo un po’ di commozione, riprendere la vita di sempre. Nel torpore del dormiveglia. Senza troppe domande. Sai, le domande ti lasciano sempre con un interrogativo aperto. E noi, di finestre aperte non ne vogliamo tante: poi sbattono e ci costringono ad alzarci dalle nostre comode poltrone.
Era settembre di due anni fa, quando vedemmo Aylan, di soli tre anni, sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, naufrago con la sua famiglia mentre cercava di raggiungere la Grecia. Quei giorni tutto il mondo restò senza parole. Poi però, tutto continuò come prima. I profughi. I paesi europei. E il problema degli immigrati, con tutta la sua drammaticità.
Oggi sei arrivato tu. Un’altra sveglia che suona. Stavolta niente naufragi. Solo una domanda. Anzi, una grande domanda. Ci poni di fronte al mistero della vita. E al dialogo che questa ci costringe a fare con la morte. C’è chi vorrebbe che ti lasciassimo morire in pace. E chi, invece, desidera darti ancora qualche chance di vita, nonostante l’affaticamento e il deterioramento, irreversibile per quanto ne sappiamo, del tuo corpicino.
E tu continui a vivere. I tuoi genitori, prima di tutti, lo vogliono. E lottano con le unghie e con i denti per darti questa possibilità. Con il loro coraggio e la loro forza. Accompagnati anche – perché no? – dalla paura di perderti e dal grande dolore che temono di dover incontrare. I medici, consapevoli dei limiti con cui la nostra medicina si deve confrontare, e che a volte si nascondono dentro i suoi libri o i suoi laboratori. Rifuggendo dal misurarsi con i sentimenti e le emozioni che la vita e la morte, sempre mano nella mano, ci portano. Poi i giudici che, abituati a guardare la vita e il mondo con gli occhiali dei codici e delle leggi, rischiano anch’essi di perdere di vista la dimensione umana che pure ci compete. E ci definisce.
Non chiedermi da che parte sto. Perché non saprei risponderti. È meglio lasciarti incontrare in pace la tua morte, guardando che forse il tuo viaggio di oggi su questa terra sarà molto breve, o dobbiamo sottoporti a terapie sperimentali e ancora mai provate con altri esseri umani, magari anche con il rischio di accrescere le tue sofferenze e prolungarne la durata? Come vedi, so farmi le domande. Ma non ho la certezza delle risposte. Una cosa però so, o almeno credo di sapere: che se dovessimo continuare a vivere escludendo la morte dal nostro orizzonte, saremmo fuori strada. Sarebbe come voler camminare con gli occhi bendati e pretendere di raggiungere, senza perderci, la meta che c’eravamo prefissati. So anche che se continuassimo a discutere tra noi con l’arroganza di aver ragione, convinti che chi porta un pensiero diverso è comunque dalla parte sbagliata, non andremmo tanto lontano. E il cammino verso la verità, prima o poi dovremmo riconoscere che non è neppure iniziato.
Mi dispiace vederti così. Sapere che il tuo corpo non ha, da solo, la forza per continuare a vivere. E guardarti con il dubbio che tu stia anche soffrendo dolori che non sai esprimere, dal momento che noi il dolore degli altri non lo sentiamo sulla nostra pelle: sappiamo solo vederlo attraverso i segni che un corpo sofferente esprime. Ma il tuo piccolo corpo, a quanto sappiamo, non lo sa fare. E questo ci lascia con l’interrogativo aperto.
Sai una cosa? T’ho già detto che non so rispondere alla domanda se sia meglio tentare con altre terapie o lasciarti morire in pace. Ce n’è un’altra, invece, che mi accompagna questi giorni: qual è il senso della tua vita. Che cosa sei venuto a fare in questo mondo. Con quale compito sei venuto tra noi. So bene che questa domanda è ancora più complessa dell’altra. Ma a me, qui, sembra di intravvedere una mezza riposta. Come ti dicevo sopra, ti vedo come una sveglia che suona e ci dice che non possiamo continuare a vivere senza misurarci, anche ciascuno di noi, con questa domanda: qual è il compito con cui sono venuto al mondo, in questa parte del mondo, e in questo tempo preciso?
Charlie, se anche questa parte del tuo viaggio sarà molto breve e con tanti limiti, fisici e mentali, io credo che ci hai fatto un grande regalo. Grazie. E buon viaggio.